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Ziba Samad, unica donna dell’ambasciata afghana in Italia: temo per mia madre e mia sorella rimaste nel Paese

di Roberta D’Angelo
(articolo originale: Avvenire, 28  febbraio 2023)

Ziba Samad è l’unica donna a lavorare nell’ambasciata afghana a Roma. Arriva all’appuntamento con la sua macchina, il volto sorridente e sereno. Non indossa il velo. Abita in Italia dal 2011, ne aveva 17 quando ha raggiunto il marito nella Capitale. Lui lavorava già da tempo in una pizzeria. Ha superato allora (ancora adolescente) la sorpresa di essere catapultata in un mondo libero, in cui si è sentita accolta immediatamente e di cui oggi si sente parte. E – difficile crederlo – nulla è cambiato per lei in ambasciata, dopo il ritorno dei taleban al potere, quel fatidico agosto del 2021: il lavoro continua. Surreale, ma vero, l’ambasciatore è ancora al suo posto, così come il personale. E lei ripete sorridendo: “Noi lavoriamo con il vecchio governo, non abbiamo contatti con Kabul, il nuovo governo non ci riconosce”.

Difficile capire concretamente cosa questo significhi. Ziba assicura che in ambasciata si continuano a “rilasciare i visti, si legalizzano i passaporti, si fanno tutti i documenti legali, specie quelli necessari per entrare in Afghanistan”. Quelle mura che dovrebbero delimitare lo spazio extraterritoriale per il nostro Paese, in realtà sono garantite “dal governo italiano”, racconta Ziba. “Siamo un mondo a parte“.

Un mondo invaso dalle pratiche dei tanti suoi concittadini evacuati “con l’aiuto della Comunità di Sant’Egidio” che in questi anni ha messo in salvo quanti lavoravano per l’esecutivo deposto dai taleban. “Molte donne arrivano traumatizzate”.

A Ghazni, la ragazza ha la mamma e due sorelle, mentre anche il fratello ha lasciato il Paese. Il padre è morto da tempo e come tutte le donne che non possono contare su un uomo in casa, sono costrette a non muoversi. Niente studi, niente lavoro. Ziba e suo fratello mandano loro soldi, ma le banche sono solo nelle città, e per ritirarli devono chiedere aiuto a un cugino, perché l’accompagnatore uomo deve comunque avere un vincolo di parentela.

“In passato andavo a trovarle, ma ormai è impossibile tornare a casa, difficilmente mi farebbero rientrare in Italia”, spiega Ziba, con un velo di tristezza che le riempie lo sguardo. Di nuovo lo stesso racconto, letto nelle tante storie pubblicate in questi giorni da Avvenire: “Vorrei che mi raggiungessero, ma è difficile oggi uscire dall’Afghanistan, il passaporto e i visti costano una cifra enorme e bisognerebbe passare per il Pakistan o l’Iran. Le sento su whatsapp, ma molto spesso non c’è connessione e quando passa tempo senza sentirle ho tanta paura che sia successo qualcosa…”.

Contatti con il suo Paese Ziba li tiene anche con gli amici coetanei, con gli ex compagni di studio, con cui ha condiviso un’infanzia e un’adolescenza da giovane libera. Molti, anche gli uomini, sono disoccupati, perché lavoravano per il precedente governo e non sono riusciti a fuggire nei giorni drammatici delle evacuazioni. “Perciò nessuno di loro può fare nulla per la condizione femminile, se non mettendo a rischio la propria vita”. Chi ancora “ci aiuta tanto sono la Caritas e la Comunità di Sant’Egidio. Quando arrivano qui le ragazze, o intere famiglie o giovani che hanno studiato e qui possono lavorare e ricominciare a vivere, ringrazio Dio per le opportunità che ha dato a me e a loro”. Ma “se noi non possiamo fare molto, la comunità internazionale dovrebbe agire seriamente contro il comportamento dei taleban”, ci saluta Ziba, tra amarezza e speranza.

Le giornaliste di Avvenire – uno dei pochi grandi quotidiani italiani che ‘canta fuori dal coro’ e con cui ci sentiamo spesso in sintonia – inaugurano oggi un’iniziativa che ci pare di grande valore.  Dare voce alle bambine, alle ragazze e alle donne afghane. E, soprattutto, ripetere questo impegno ogni giorno (fino all’8 marzo), non una tantum, inseguendo la notizia eclatante. come è in uso nei media mainstream italiani e stranieri. Solo, infatti, attraverso un impegno giornalistico costante ed appassionato è possibile restituire ai lettori la ricchezza di voci dell’altra metà del cielo e dell’altra parte del mondo.
Periscopio riporterà ogni tappa del viaggio delle giornaliste di Avvenire, mentre invita tutte le sue lettrici e lettori a dare il proprio contributo al Progetto di Scolarizzazione per le donne afghane (vedi in calce all’articolo tutti gli estremi per aderire).
(La redazione di Periscopio)

Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire fino all’8 marzo daranno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l’università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l’appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE

 

Cover: Ziba Samad, unica donna all’ambasciata afghana a Roma

Per leggere tutte le testimonianze raccolte dalla giornaliste di Avvenire, clicca su; Donne afghane

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Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

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