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Jean Christophe Casalini

Artista e produttore multimediale di fama internazionale, Jean Christophe Casalini, 53 anni, milanese a dispetto del nome che rivela origini franco-danese, è un personaggio versatile. Come post-produttore cura “Mach 2”, con la quale ha lanciato per primo in Italia la rivoluzione digitale acustica. Ha collaborato con registi del cinema, come Gabriele Salvatores, e pubblicitari, come Mazzotti. Oltre a “Sud” e “Nirvana”, ha poi collaborato per molti altri film, per esempio “Viva San Isidro” o “Estomago”. Come sound designer e musicista ha prodotto migliaia di master audio digitali, jingles per moltissime aziende italiane e creato il suono del morso di un celeberrimo gelato, ancora oggi utilizzato negli spot di tutto il mondo da quasi venti anni. Oggi è un produttore pubblicitario ed è anche letterato: autore di “CA43” (2000), libro catalogo biografico per la madre artista postmoderna; “Inventory of Dreams 1” (2014), con il curatore Alan Jones per una mostra al Palazzo della Regione Lombardia, proseguendo nel 2015 con un secondo volume per una nuova mostra al museo Æglageret di Holbaek (Danimarca). Infine ancora nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, “Otto. Luce e Ombra” (Vertigo edizioni), un superthriller diversamente horror, con echi di Lovecraft in chiave squisitamente postmoderna.

Percorsi eclettici, di alta notorietà (segnalato anche dal New York Times) tra cinema, musica, letteratura e produzione, musicale e pubblicitaria, uno zoom?
Mi considero una coscienza incarnata su questo pianeta e, nello scoprire i sensi a disposizione del mio involucro fisico, sento la necessità di esprimermi su più fronti. Da qui si può intendere il mio percorso artistico come una creatività legata alla continua ricerca personale di nuove sensazioni per evolvere la mia anima attraverso continui stimoli. Lo faccio cercando di non risparmiarmi nulla in termini di fatica, pazienza, dedizione, dell’ascolto di me e degli altri, compresa l’incomprensione, sfruttando al massimo le mie capacità del momento. Credo che i risultati ottenuti siano il frutto di chi crede e attua la filosofia del “fai al meglio ogni cosa che fai”, di chi non si arrende mai di fronte ai limiti della propria inesperienza: quest’ultima, quando la incontro, diventa l’orizzonte del mio sapere, che cerco di portare sempre più avanti come fossi un esploratore. L’ignoto è il terreno in cui osare. Non c’è superbia in questo mio atteggiamento, c’è soltanto la volontà di utilizzare al meglio il tempo che abbiamo tutti quanti, per apprezzare l’esistenza terrena ed essere paghi dei risultati per il proprio spirito. Non mi considero egocentrico, perché il mio agire è una pura, semplice e intima esigenza esistenziale, che diventa un’opportunità per chi lavora con me e ne comprende l’evoluzione. Potrei farlo solo per me? No, ti risponderei! Trovo utile la partecipazione di tutti perché i feedback sono necessari per capire se ci sta instradando nella giusta direzione, se non ci stiamo perdendo. Le mie condivisioni artistiche diventano impulsi verso l’esterno per cogliere gli apprezzamenti o le critiche come echi di ritorno nel mio radar percettivo che mi aiutano a comprendere e a intuire la direzione da prendere senza mai fermarsi.

Raccontaci qualcosa sulla collaborazione con Salvatores per “Nirvana”, il capolavoro della science fiction italiana.
Con Gabriele avevo già collaborato per “Sud” (1993), il primo film italiano in quadrifonia che ho gestito grazie alla tecnologia, oggi superata, della Dolby sr. È stato il primo film al mondo editato con piattaforme digitali su base informatica. Era un’opportunità che avevo colto nonostante tutte le avversità del settore, tipica degli ambienti lavorativi dove la mediocrità non si sente mai pronta o teme di essere buttata fuori dal mercato. Ho dovuto selezionare professionisti accorti al cambiamento, oltre a ‘sincronizzare’ la tecnologia digitale con quella analogica, ancora in uso tra nastri e perforati. Nel 1996 con “Nirvana” sentivo che potevamo spingere gli ascolti digitali in 5.1 con una codifica in Dolby SRD per portare l’audio italiano ai livelli internazionali. È stato uno shock nell’ambiente cinematografico che ha fatto molto rumore e di cui sentiamo ancora gli echi

La pubblicità come arte pura autonoma, concordi?
Considero la pubblicità come un compromesso tra il marketing e l’arte. È un campo, perlomeno quello dell’audiovisivo, dove mi diverto a muovermi tra le libertà e le regole della comunicazione che dovrebbero essere: l’esigenza della novità, del non sentito e del non visto, e la necessità di ottenere risultati legati alla vendita. Perdonatemi il condizionale: non tutti i progetti consentono di esprimere al massimo il potenziale acustico e produttivo perché in Italia sono pochi i clienti che sanno osare. Per una generazione intera, parlo di quella passata, la pubblicità in Italia è stata purtroppo un continuo déja-vu di opere straniere: spot, film, videoclip e virali, perché le regie coinvolte tendevano a essere estere e si era creato un gap di talenti nostrani.
Ecco perché sostengo che in Italia l’arte pubblicitaria ha ancora molta strada da fare. Resto nel campo per fare il mio dovere e per desiderio di un cambiamento, finché avrò energia per farlo, approfittando della crisi economica che ha obbligato tutti a cercare soluzioni al risparmio, tra le quali il coinvolgimento di giovani italiani nostrani più economici e dal mio punto di vista più freschi nell’uso narrativo della macchina da presa. Seppure per demerito economico, l’Italia si sta preparando per i prossimi anni a sviluppare una propria arte autoctona anche in pubblicità, sempre che gli investimenti restino in ambito nazionale e che i gusti e le culture non vengano uniformati globalmente.

Casalini
La copertina del nuovo romanzo di Casalini

Il tuo romanzo diversamente noir: un ritorno agli archetipi del genere, romanzo gotico e visionario?
Da innovatore quale sono, non mi vedrete mai seguire le tendenze. Cavalco sempre nuove strade o rinfresco correnti passate, che abbiano ancora molto da raccontare. “Otto” è la storia di un uomo che si ritrova ad affrontare la separazione tra il suo corpo e la propria immagine. È un libro che può essere considerato una spaccatura tra la narrazione attuale, ormai satura di vampiri e di erotismo gratuito, e la voglia di intraprendere nuove strade narrative. Con “Otto”, scardino la convenzionale attenzione verso il personaggio principale; il lettore ne subisce la trasformazione e lo scardinamento in più entità, ne prova odio fino a cercare un appiglio nella empatia con la sua compagna più rassicurante nella sua contrapposta dolcezza alla violenza che si fa sempre più assidua. La percezione del male da parte del lettore è fluida, la coglie subito o dopo, a seconda della propria suggestione o accettazione alla sofferenza. “Otto” porta il lettore ai propri limiti della sopportazione emotiva. È un romanzo gotico, visionario, violento, dove il male veste i panni del potere e del successo senza confini, portandoci a riflettere sulla mancanza del controllo della propria immagine quando questa diventa l’espressione esasperata dell’avidità umana. Più che a un ‘archetipo’, già riconoscibile in Lovecraft, Walpole, Shelley, Stevenson, Wells e Wilde, mi riferirei ad un ‘ectipo’ inteso come l’involontaria e incontrollabile drammaticità nella sequenza degli eventi iniziali; la causa e gli effetti diventano gli spunti della fuga, della supplica inconscia, dell’enigma, della follia, della rivalità, dell’ambizione, dell’amore non corrisposto e del conflitto con il se, che ne fanno un’opera dalla lettura a più livelli.

Programmi futuri?
Sto lavorando sulla stesura del secondo romanzo. È un progetto che conferma il mio dna letterario, visionario, gotico, tenebroso, disinibito, cruento dove il male si insinua tra le pagine. E’ un romanzo di fantascienza, genere che ho amato e divorato da piccolo. Nel frattempo sto definendo la scaletta eventi-sinossi per il seguito di “Otto” perché da più lettori colgo con l’editore la richiesta di aprire un sequel.

 

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Roby Guerra


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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