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Ferrara “città d’arte e di cultura” appare oggi un significante senza significato, un contenitore incontinente, un’indossatrice che deve apparire interessante senza accendere nessun altro interesse che non sia rivolto solo ed esclusivamente alla forma esteriore delle vesti con cui viene vestita, presentata e offerta al pubblico pagante.

Di fronte all’uso esteriore banalmente seduttivo che viene fatto dell’arte e della cultura a Ferrara e per arginare il dilagante fenomeno di narrazioni incomplete, decontestualizzate e alterate che ci sta portando alla nebulizzazione dei confini tra falso e vero e alla scomparsa del pensiero critico, verrebbe innanzitutto voglia di invocare la massima dello scrittore Karl Kraus: “Quando il sole della cultura vola basso, i nani hanno l’aspetto di  giganti”.

L’atteggiamento assunto dalla nostra città negli ambiti artistici e culturali ufficiali, fa sorgere interrogativi inquietanti. Impossibile non porseli.

Quanto dovremo attendere affinché azioni veramente culturali rendano la nostra comunità consapevolmente attiva e partecipe alla vita pubblica, unita nelle differenze, erede della propria tradizione, orgogliosa della propria storia e determinata a preservare il patrimonio materiale e immateriale da incurie, abbandono e speculazioni scorrette?

L’arte potrà nuovamente stimolare il dialogo sociale e politico, fungendo da catalizzatore per la riflessione e la discussione su questioni rilevanti?

Saprà di nuovo sfidare le percezioni esistenti, stimolare la curiosità, potenziare la creatività e invitare a considerare differenti prospettive di pensiero?

Se sì, come fare affinché tutto ciò avvenga o ri-avvenga di nuovo?

Una risposta teorica potrebbe arrivare da Marco Tullio Cicerone il quale sosteneva che le opere d’arte non sono solo ornamenta, ma sono da considerare monumenta: non luoghi di svago e passatempo, ma luoghi di costruzione della società civile, attraverso i quali non solo difendere il passato, ma costruire il futuro.
Ma quando il sole della cultura vola basso, mai così in basso come oggi a Ferrara, talmente raso terra da illuminare solo piccole forme e lunghissime ombre, è perché ci troviamo in presenza di nani o di giganti?

In entrambi i casi, cosa fare?

Una risposta pratica che è tutto un programma – anzi è il programma delle cose da fare – arriva da Bernardo di Chartres il quale sosteneva che quando “Siamo come nani sulle spalle dei giganti, possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”.

In altre parole, se anche fossimo in presenza di veri e propri giganti, la cosa da fare è innalzarci per vedere meglio e più lontano di loro.

Cominciando da BANKSY, non autorizzato e tradito

Nella grafica del manifesto/copertina catalogo della mostra a cura di Stefano Antonelli, Gianluca Marziani e Acoris Andipa organizzata da Fondazione Ferrara Arte e Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, in collaborazione con Associazione Culturale MetaMorfosi, la dicitura UNAUTORIZED (non autorizzata) risulta illeggibile

Il concetto che è stato alla base dell’evento espositivo “Un Artista Chiamato Banksy ospitato presso la Civica Galleria Comunale di Arte Moderna Palazzo dei Diamanti di Ferrara dal 30 maggio al 27 settembre 2020, è il primo che merita di essere riproposto per i motivi che hanno sollevato critiche sulla sua non autenticità, sulla sua liceità e sull’effettivo valore dei contenuti espressi  all’interno di un contenitore di eccellenza apprezzato a livello internazionale proprio per le metodologie espositive totalmente differenti sino ad allora adottate.

Vittorio Sgarbi, in qualità di neoeletto presidente della Fondazione Ferrara Arte e di artefice della mostra, è stato criticato apertamente nei contenuti e nella forma fin dal momento in cui, in campagna elettorale, ha cominciato a speculare sul fatto sensazionale che lui, se eletto, avrebbe portato Banksy a Ferrara.

La nuova gestione della giunta Fabbri sì è pertanto presentata con una proposta espositiva a pagamento che ha avuto come risultato finale una delle più grandi truffe dell’arte moderna contemporanea, contemporaneamente rifilata all’artista, al pubblico e all’arte.

Un atto inaugurale di un nuovo corso politico-culturale che non ha preannunciava niente di buono e che presagiva qualcosa di ancora peggio, lasciando intravvedere fin da subito precise volontà di orientare – se non di dirottare – l’arte e la cultura ferrarese in direzioni demagogiche, personalistiche e clientelari.

Aderendo in pieno al solito cliché che quando si parla di Banksy e quando si organizzano mostre sulle sue opere si parla di un artista inglese vivente la cui vera identità è sconosciuta, considerato uno dei maggiori esponenti di quella che viene genericamente definita Street Art (disciplina considerata giuridicamente illegale e vandalica), nell’ambito della mostra sono state esposte 100 opere provenienti da collezioni private sotto forma di serigrafie, manifesti, poster, copertine di dischi, adesivi, t-shirt e memorabilia che riproducono le solite icone, la bambina con il palloncino, il lanciatore di fiori, l’elicottero militare con il fiocco rosa, giocatori che anziché con le bocce giocano con bombe a mano, pensando così di dare in pasto al gusto del pubblico quello che s’aspetterebbe se fosse presentato solo come un simpatico vignettista satirico diventato genio per l’abilità dimostrata nel gestirsi al limite della legalità e rimanendo nascosto e anonimo per convenienza e strategia mediatica.

Cosa non ha mostrato la non mostra su Banksy è che la maggior parte delle sue opere sono nate in funzione dei e per i luoghi in cui sono realizzati, che le “tele” su cui le ha dipinte sono i muri e che i muri su cui ha dipinto le sue opere più significative – cioè quelle gratuite e pubbliche che lo hanno consacrato come uno dei massimi esponenti sì della street art, ma della street art di denuncia e di protesta – si trovano nel Lower East Side di New York, cioè in uno dei luoghi di nascita e diffusione del Graffitismo Metropolitano degli anni ’70; nella baraccopoli di Calais, cioè nella “Jungle” umana che raccoglie i migranti in fuga dai più cruenti scenari di violenze e crimini di guerra subiti da popolazioni civili in Medioriente e Africa; in Palestina, all’interno della Striscia di Gaza e, in maggior parte, in Israele sul muro di oltre settecento chilometri che l’esercito israeliano che lo ha costruito chiama Barriera di Separazione o Security Fence; la popolazione civile palestinese che lo subisce -nonostante l’illegalità riconosciuta a livello mondiale dall’Assemblea Generale dell’ONU e dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja- lo chiama Muro della Vergogna o Muro dell’Apartheid.

Quello che a Ferrara è sfuggito dal clichè è stato colto in maniera spontanea e approfondita (vedasi i commenti dello stesso Banksy sulla bacheca della sua pagina ufficiale Instagram @banksy, la pagina Facebook “Banksy a Fe a Fake” e la pubblicazione da parte della casa editrice ferrarese La Carmelina di un catalogo non ufficiale definito “apocrifo” curato da Franco Ferioli e Federico Felloni “Palestine Bad Art: Massima destinazione del writing”, video di Nicola Jesu Cattani della presentazione del libro visibile a questo indirizzo.  Critiche anche su tutta una serie di stridenti differenze di stile, dal momento che la mostra che avrebbe dovuto raccogliere tutto il pensiero e tutta l’opera artistica di Banksy, oltre ad essere stata organizzata senza la sua presenza e contro la sua volontà, non è nemmeno stata in grado di programmare alcuna iniziativa collaterale.

Nessun incontro, nessuna conferenza, nessun coinvolgimento ludico-didattico o laboratoriale, solo comprensibili insoddisfazioni da parte di coloro che si sono recati alla cassa per pagare un biglietto di ingresso dal costo di molto superiore a quello che gli avrebbe garantito i medesimi risultati di una connessione telefonica per poter accedere alla pagina on line dell’artista e scaricare liberamente gran parte dei contenuti cartacei esposti in sala.

Non ha nemmeno avuto luogo la sbandierata presenza – annunciata direttamente dal sig. Sindaco Alan Fabbri a coronamento del “grande successo” della mostra – del celebre musicista e dj inglese Daddy G, talmente vicino all’ambiente artistico del misterioso Banksy, da rifiutarsi di prendere parte ad un evento anche da lui giudicato falso, offensivo e lesivo.

Quando si organizzano e si propongono mostre di un artista vivente che le considera inappropriate, non ufficiali e non autorizzate, cioè condotte senza il suo coinvolgimento, senza la sua presenza e contro la sua volontà, è l’atteggiamento etico e morale degli artefici che inizia a vacillare, aprendo il campo a dubbi legittimi sul vero significato, sul valore e sull’appartenenza dell’arte, fermo restando che svincolare l’arte e la produzione artistica dall’artista cui appartiene, è un’operazione di pirateria condotta sia a livello personale e individuale che a livello collettivo e pubblico.

L’opera d’arte ridotta a variabile decorativa

L’uso strumentale degli artisti in chiave personalistica fa emergere il ruolo del culturale contro la cultura, il valore della quantità contro la qualità, il vantaggio del privato contro il pubblicoL’opera d’arte, ridotta a variabile decorativa, diviene illustrazione del pensiero critico.

La mostra espositiva, declinando in mostra propagandistica da “leggere” per farsi eleggere, risalta quello di sensale come unico compito del curatore, attribuisce il merito della paternità a un demagogo populista e diviene evento che scorre attraverso narrazioni non appropriate, pubblicazioni poco approfondite, saggi per niente «saggi», per poi sfociare in una molteplice offerta di vendita prodotti di merchandising e di oggettistica da art-shop.

Appena Banksy ha bollato la mostra un fake, cioè falsa e non autorizzata, si è compreso che ad essere falsi e non autorizzati sono stati il titolo, la mostra, la sede che l’ha ospitata, l’artefice e i curatori che l’hanno presentata in modo scorretto, incompleto e strumentale, compiendo un oltraggio artistico, una speculazione economica e una prevaricazione intellettuale che offende i concetti di libertà di espressione artistica e di libertà di pensiero politico e sociale.

Quello che è emerge dalle sale comunali d’arte moderna a Ferrara è un vero tradimento, la perdita di un doppio concetto:
– ogni artista è sempre stato libero di stabilire chi, come e dove possa ritenersi autorizzato a diffondere il significato e il valore della propria opera;
– il metodo conoscitivo offerto dalla storia dell’arte è sempre stato attento a considerare qualsiasi fenomeno di espressione artistica in relazione all’ambiente e al contesto storico, sociale e culturale di riferimento.

Tutto questo con riflessi negativi non solo a livello locale, provinciale o regionale, ma anche a livello nazionale e internazionale, in tutti quei contesti in cui ogni esempio apportato dalle precedenti esperienze e attività espositive del Palazzo aveva brillato di luce propria come ognuno dei Diamanti scolpiti sulle proprie pareti esterne. 

Franco Farina ed Andy Warhol 

Ciò che risulta inconcepibile è che non si sia riusciti a comprendere come la Galleria Comunale d’Arte Moderna Palazzo dei Diamanti non possa avere come scopo istituzionale quello di operare contro la volontà degli artisti e quello di strumentalizzarne l’operato. Oltretutto, fingendo di seguire le orme dei “giganti” del passato, facendo esplicito riferimento ai meriti conseguiti dal lavoro svolto dalle equipe dei predecessori e da uno dei suoi direttori più emeriti come il Maestro Franco Farina, colui cioè che invitò Andy Warhol a venire a Ferrara quando era considerato, al pari del Banksy odierno, l’esponente più conosciuto della Pop Art.

Nell’autunno del 1975, Ferrara era come New York e Corso Ercole d’Este come la 47a Strada: Andy Warhol passava il tempo tra il Palazzo Diamanti e il ristorante La Provvidenza.

“Ladies and Gentlemen” era il titolo della mostra, organizzata dal direttore Franco Farina e dai suoi collaboratori, dedicata ai ritratti dei travestiti afroamericani che animavano le notti del The Gilded Grape, uno dei locali più frequentati dall’ambiente underground newyorkese negli anni ’70.

Sbarcato per la prima volta in Italia e in Europa, Andy Warhol trascorse qualche settimana a Ferrara per allestire la mostra, presenziare all’inaugurazione e e incontrare il pubblico, gli intellettuali, gli artisti e i giornalisti, tra i quali anche Pier Paolo Pasolini, che venne invitato a scrivere un testo critico sulla sbalorditiva esposizione dei duecento ritratti di donne transgender afro e portoricane.

Vitorio Sgarbi e Robert Mapplethorpe

Nell’autunno del 2023, quello che avrebbe dovuto essere l’evento di punta della programmazione espositiva di Palazzo dei Diamanti a Ferrara, la mostra-dialogo tra il fotografo Robert Mapplethorpe e il pittore Filippo de Pisis, la cui inaugurazione avrebbe dovuto tenersi il 23 marzo 2024, è stato annullato.

Mapplethorpe, autoritratto, Robert Mapplethorpe Foundation ©

A spingere la Robert Mapplethorpe Foundation a far saltare tutto è stata la scelta del titolo della mostra, proposto dal Presidente di Ferrara Arte Vittorio Sgarbi: “Fiori e cazzi”.

A nulla sono valsi i tentativi da parte degli organizzatori di modificare il titolo della mostra, tramite una nota pubblicata dal Comune di Ferrara in occasione della Fiera Internazionale del Turismo di Rimini: “Fallo coi fiori” oppure “Filippo de Pisis e Robert Mapplethorpe, tra grazia e dannazione”.

La nota ufficiale a firma di Vittorio Sgarbi Segretario alla Cultura e Presidente della Fondazione Ferrara Arte, Alan Fabbri Sindaco e Marco Gulinelli Assessore alla Cultura, si conclude speranzosa che Sarà un inedito viaggio tra fotografia e pittura con sorprendenti parallelismi tra i due giganti delle rispettive arti”.
Ma il contenuto della nota e i nuovi titoli non sono serviti a fare cambiare idea alla Robert Mapplethorpe Foundation e al suo direttore Joree Adilman“estremamente turbato dal titolo”– nemmeno quando Sgarbi ha argomentato le motivazioni che lo hanno spinto a proporre come primo titolo Fiori e cazzi: a ispirarlo sarebbe stata un  frase dello stesso Mapplethorpe, che, secondo Sgarbi, sarebbe questa: “cerco la perfezione nella forma, lo faccio con i ritratti, lo faccio con i cazzi, lo faccio con i fiori”.

Mentre invece la frase è questa: «Cerco la perfezione nella forma. Lo faccio con i ritratti. Lo faccio con i peni. Lo faccio con i fiori. Non c’è differenza da un soggetto all’altro. Cerco di catturare tutto quello che mi appare scultoreo”.

E dall’interno di questi due poli iniziali e finali, Banski e Mapplethorpe , entrambi negativi, che si è composta la nuova forma di fare arte e cultura nella Ferrara di Alan Fabbri e del grande ispiratore Vittorio Sgarbi. 

Se vorremo riprendere il cammino culturale che la città di Ferrara merita, dovremo rialzarci e cambiare strada. E guardare a quanto di originale, di nuovo, e di importante la nostra città ha rappresentato per la cultura e per l’arte internazionale.

Per approfondire:

https://www.palazzodiamanti.it/mostre/un-artista-chiamato-banksy/

https://www.mapplethorpe.org/foundation

https://www.kermes-restauro.it/salta-la-mostra-de-pisis-mapplethorpe/

https://www.comune.fe.it/it/z/1931/view?modelClass=elitedivision%5Camos%5Cnews%5Cmodels%5CNews&view=detailNews

https://www.fanpage.it/spettacolo/persohttps://www.kermes-restauro.it/salta-la-mostra-de-pisis-mapplethorpe/naggi/vittorio-sgarbi-pronta-una-mostra-che-si-chiama-fiori-e-caz-ma-i-moralisti-non-me-la-faranno-fare/

Per leggere tutti gli articoli e gli interventi su Periscopio di Franco Ferioli, clicca sul nome dell’autore, oppure visita la sua rubrica Controcorrente

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Franco Ferioli

Ai lettori di Ferraraitalia va subito detto che mi chiamo, mi chiamano e rispondo in vari modi selezionabili o interscambiabili a piacimento o per necessità: Franco Ferioli Mirandola. In virtù ad una vecchia pratica anagrafica in uso negli anni Sessanta, ho altri due nomi in più e in forza ad una usanza della mia terra ho in più anche un nomignolo e un soprannome. Ma tranquilli: anche in questi casi sono sempre io con qualche io in più: Enk Frenki Franco Paolo Duilio Ferioli Mirandola. Ecco fatto, mi sono presentato. Ciao a tutti, questo sono io, quindi quanti io ci sono in me? tanti quanti i mondi dell’autore che trova spazio in questo spazio? Se nelle ultime tre righe dovessi descrivere come mi sento a essere quello che sono quando vivo, viaggio, scrivo o leggo…direi così, sempre senza smettere di esagerare: “Io sono questo eterno assente da sé stesso che procede sempre accanto al suo proprio cammino…e che reclama il diritto all’orgogliosa esaltazione di sé stesso”.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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