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Nella primavera del 1960 si tiene a Torino un ciclo di conferenze su “Trent’anni di storia d’Italia: 1915-1945” (Einaudi). Il corso di lezioni fu così seguito, specie fra i giovani, che lo si dovette spostare in un grande teatro, e neppure il teatro bastò. Peccato, però, che non una delle conferenze fosse dedicata alla deportazione e allo sterminio. Questo ricordo fa scattare un’associazione con un capolavoro: il romanzo di Giorgio Bassani “Il giardino dei Finzi – Contini” (Einaudi, 1962).

Giorgio Bassani
Giorgio Bassani

In un luogo significativo del romanzo si svolge un confronto teso tra il comunista Malnate e il protagonista. Il saccente Malnate, a fronte delle famigerate leggi razziali del 1938, dice: la situazione degli ebrei è particolare, senza dubbio. Però il vostro torto è quello di ritenervi membri dell’unica minoranza che in Italia è perseguitata, senza rendervi conto che ce ne sono parecchie altre, di minoranze, a soffrire come e più di voi. Per esempio, gli operai dello stabilimento dove lavoro… Ad un certo punto il narratore, che di solito ascolta e non replica mai alle prediche ideologiche di Malnate, esplode di fronte all’accusa di non reagire e di non essere coraggiosi: perché ci si aspetta da noi un comportamento d’eccezione? Lasciamo perdere: una delle forme più odiose di antisemitismo è precisamente questa: lamentare che gli ebrei non sono abbastanza come gli altri, e poi, viceversa, constatare la loro pressoché totale assimilazione all’ambiente circostante, lamentare l’opposto: che siano tali e quali agli altri, cioè, nemmeno un poco diversi dalla media comune.

Primo Levi
Primo Levi

I due riferimenti ci dicono ciò che significa il ‘Giorno della Memoria” che celebriamo ogni anno dal 2001: il riconoscimento dell’unicità dello sterminio nazista di un popolo e di altre comunità; la presenza di tante forme di antisemitismo nel modo di ragionare sugli ebrei. Bisognerà fare attenzione affinché l’evento annuale non si trasformi in celebrazione retorica. Uno degli anticorpi è la serietà e il rigore nel ricostruire il processo storico che ha consentito questa tragedia. Ci sono dei regimi responsabili: il nazismo e il fascismo. C’è un’antica e sedimentata mentalità antisemita che si forma nei secoli e cresce dentro i paesi più diversi. C’è l’indifferenza della ‘zona grigia’. Di quest’ultima categoria, inventata da Primo Levi per descrivere zone di opacità, silenzio, paura, omertà, bisogna farne un uso cauto e preciso.
Il rischio maggiore è attraversare il delicato confine che distingue la vittima dal carnefice. E’ ciò che ha fatto, per esempio, Liliana Cavani nel film “Il portiere di notte”: “Siamo tutti vittime o assassini (…) In ogni ambiente, in ogni rapporto, c’è una dinamica vittima-carnefice generalmente vissuta a livello non cosciente.” Ancora più esplicito è il filosofo Giorgio Agamben che nel 1998 scrive: “La zona grigia è il simbolo e l’area in cui le vittime diventano carnefici e i carnefici vittime, in cui l’oppresso diventa oppressore e il carnefice appare a sua volta come vittima.” Il commento di Primo Levi a queste interpretazioni fu fermo e duro: “Non mi intendo di inconscio e di profondo, ma so che pochi se ne intendono, e che questi pochi sono più cauti. Non so, e mi interessa poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità.” Parole severe, scritte da un uomo che non ha mai concesso niente alla retorica e, come un Cechov della memoria , ha dedicato l’intera vita a liberare la scena della tragedia della Shoah da tutti gli elementi che potrebbero confonderne o falsarne il significato. Questa lezione è ben presente nel programma di iniziative che, anche quest’anno, si tengono nella nostra città.

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Fiorenzo Baratelli

È direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara. Passioni: filosofia, letteratura, storia e… la ‘bella politica’!

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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