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di Eraldo Affinati

Prima di morire don Lorenzo Milani, ricoverato all’ospedale Careggi di Firenze, disse al cardinale Ermenegildo Florit che, dopo averlo tanto ostacolato, era andato a trovarlo: “Io sono più avanti di lei di cinquant’anni”. Era vero perché aveva intuito cose che noi ancora oggi stentiamo a comprendere sul ruolo centrale che la scuola dovrebbe avere in ogni consorzio umano, sul necessario rinnovamento del linguaggio della Chiesa, sul rapporto coi giovani, sulla giustizia sociale, sulla storia italiana, sul pacifismo e sull’obiezione di coscienza.

I lavori di questo convegno lo confermano appieno. Don Milani ci ha fatto comprendere che, al di là dei metodi, che possono essere molto diversi e magari ugualmente efficaci o dannosi, a fare la differenza a scuola è la qualità della relazione umana fra il docente e lo studente: se non si instaura fra di loro un rapporto di reciproca fiducia e rispetto, qualsiasi obiettivo didattico è destinato a fallire.

“Chi insegna pedagogia all’università”, scrisse don Milani in Lettera a una professoressa, “i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline”: con ciò voleva comunicare il suo scetticismo per ogni visione teorica e precostituita.

Al contrario, è necessario partire dalle esigenze del singolo studente, accompagnandolo verso la meta prefissata ed essendo pronti a scomparire quando lui o lei l’ha raggiunta. Bisogna sapere che ogni apprendimento ha una sua forma e un suo tempo. È fondamentale premiare il movimento che i ragazzi fanno registrare dalle loro posizioni di partenza, prima ancora dei traguardi che devono raggiungere, ai quali tuttavia non dovremmo mai rinunciare.

Credo che Lettera a una professoressa sia un testo ancora decisivo, al di là dei fraintendimenti che continua a suscitare. Pierino e Gianni, i due bambini protagonisti di quell’opera, uno avvantaggiato, l’altro svantaggiato, hanno cambiato nome, ma sono sempre gli stessi.

Da una parte abbiamo oggi Giulia e Marco, figli di coppie benestanti; dall’altra Mohamed o Ibrahim, analfabeti nella lingua madre: non possiamo di certo affrontarli nel medesimo modo! Tenendo presente che non stiamo parlando di medici e ingegneri, bensì di adolescenti in via di formazione.

Don Milani, insegnando le parole, costruiva le persone, conduceva alla maturità, formava la coscienza dei futuri cittadini, educava allo spirito critico. Del resto, i grandi linguisti ce l’hanno spiegato: se non avessimo un sistema verbale ben strutturato, ogni nostra emozione sarebbe soltanto un grumo emotivo, qualsiasi esperienza resterebbe inespressa e noi esseri umani non ci distingueremmo dagli animali.

Il priore di Barbiana, prima ancora di qualsiasi ricetta o istruzione per l’uso, ci ha lasciato una grande energia vitale e propositiva: in tale direzione molti insegnanti lo hanno messo a frutto e continuano a farlo, ma l’istituzione scolastica, nella sua struttura complessiva, l’ha ignorato, restando legata a una valutazione standardizzata che, di fronte alla rivoluzione digitale, rischia di penalizzare le nuove generazioni. Basti pensare agli alti tassi di dispersione scolastica presenti in Italia, specie nelle regioni meridionali, per renderci conto di quanto don Milani sia rimasto inascoltato.

I ragazzi di Barbiana di oggi si chiamano Omar e Faris, vengono da ogni parte del mondo, hanno lo stesso problema linguistico che avevano i bambini dell’Appennino ai quali si rivolgeva il priore. Sono loro i nuovi italiani, come hanno più volte affermato, in perfetta sintonia, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Papa Francesco il quale, nel giugno 2017, recandosi a pregare sulla tomba di don Milani, pose fine a una stagione di lunghi e dolorosi equivoci. L’ultima cosa che avrebbe voluto il prete fiorentino, questo ribelle ubbidientissimo, sarebbe stata quella di venire definito un eccentrico ai margini della Chiesa, come invece purtroppo ancora oggi molti lo considerano.

I numerosi convegni scaturiti dal centenario della nascita, importanti soprattutto per diffondere fra i più giovani la sua conoscenza, non ci dovrebbero comunque illudere sul superamento delle questioni sollevate dal priore. Basti pensare alle polemiche derivate dalla nuova denominazione istituzionale del Ministero della scuola e del “merito”.

Siamo di fronte a un tema ad alto tasso di fraintendimento e strumentalizzazione. Ogni insegnante vuole scoprire e premiare i ragazzi meritevoli. Ci mancherebbe altro che non lo facesse! Don Milani puntava proprio a questo. Ma non si sarebbe mai sognato di selezionare o isolare il vincitore dal resto del gruppo, ben sapendo che non soltanto i deboli hanno bisogno dei forti, vale anche il contrario.

Un gruppo scolastico composto di tanti secchioni sarebbe tristissimo, oltre che improduttivo, come pure uno che riunisse i soli ripetenti. Le migliori classi, nell’esperienza di chi ha trascorso la vita in aula, sono quelle eterogenee, composte da bravi e negligenti, maschi e femmine, lenti e rapidi, bianchi e neri, ricchi e poveri.

Se non facciamo parlare fra loro i nostri allievi, non riusciremo mai a creare la coscienza del bene comune, nucleo imprescindibile di ogni cultura democratica, nel solco di quanto ci hanno insegnato i padri costituenti. Ecco perché il motto più bello della scuola di Barbiana resta quello che ci spinge all’azione collettiva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia

Come docenti abbiamo il dovere e la responsabilità di restare fiduciosi. In un mio libro dedicato alla figura di questo straordinario sacerdote (se non fosse entrato al Cestello, il seminario in riva all’Arno dove prese i voti, niente sarebbe accaduto), profeta (la foto in cui tiene in braccio un bambino africano resta plasticamente emblematica), maestro (colui che spezza il pane dell’istruzione) e scrittore (epistolare, nel solco più puro della letteratura italiana, pensando a Francesco Petrarca, Santa Caterina da Siena e Ugo Foscolo), intitolato proprio L’uomo del futuro, ho raccontato i molti don Milani da me incontrati in ogni parte del mondo.

Erano il maestro di villaggio africano impegnato a controllare decine di allievi, il volontario berlinese teso a recuperare l’adolescente naziskin, il padre giuseppino di Città del Messico che giocava a pallone coi bambini di strada, la suora di Madre Teresa di Calcutta che a Benares accoglieva le giovani cerebrolese, l’obiettore di coscienza russo…

Nessuno di questi educatori sapeva chi fosse stato il priore di Barbiana ma io, guardandoli in azione, lo vedevo rivivere grazie a loro.

 

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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