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20 anni di Permission To Land, l’esordio folgorante dei Darkness

Il rock è morto, viva il rock.
Le presunte, e a volte forzate, resurrezioni del rock’n’roll ci accompagnano da almeno trent’anni, solleticando quel mix di nostalgia e curiosità che risiede in ciascuno di noi. La verità è che il rock non se n’è mai andato, così come qualsiasi altro genere musicale. Si è semplicemente trasformato, adattandosi all’evoluzione della società e alimentandosi della sua stessa linfa vitale.

Una delle tappe più sfavillanti e autoreferenziali di questa trasformazione risale a vent’anni fa, e precisamente all’irresistibile Permission To Land, disco d’esordio degli inglesi The Darkness. Nella decade dell’indie e dell’hip hop, la band di Lowestoft dette una bella spolverata a tutti quei cliché che associamo al rock degli anni ’70 e ‘80: sound robusto, vocalizzi e abiti glam, assoli selvaggi e presenza scenica travolgente. Insomma, ascoltando Permission To Land è difficile non divertirsi.

Sì, i suoni, la struttura e i testi degli undici brani li abbiamo già sentiti, eppure, funzionano senza alcun intoppo. E poi, soprattutto, l’estensione vocale di Justin Hawkins colpisce sin dal primo ascolto, così come il crescendo emotivo delle due ballate Love Is Only A Feeling e Holding My Own. Il pezzo a cui sono più affezionato è la scanzonata Friday Night, la cui ricetta è più o meno la seguente: prendete le sonorità e il gusto melodico di Brian May, aggiungeteci la spensieratezza del cantato di Robert Smith, e il gioco è fatto.

Dopo Permission To Land, il successo commerciale dei Darkness vivrà una parabola discendente, complice la dipendenza dalla cocaina di Justin Hawkins – un altro cliché del rock’n’roll da aggiungere alla lista. Tuttavia, negli ultimi dieci anni la band inglese ha pubblicato ben cinque album, e lo stesso Justin Hawkins si è fatto notare per il suo canale YouTube Justin Hawkins Rides Again [Qui], nel quale il frontman dei Darkness commenta con leggerezza, ironia e un bel po’ di competenza tutto ciò che gli passa davanti: dai singoli più chiacchierati del momento alle discussioni sul futuro dell’industria musicale, passando per le immancabili provocazioni acchiappaclick. Il risultato è uno show godibile e interessante, oltre che sufficientemente strambo. Un po’ come la musica dei Darkness, insomma.

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Paolo Moneti

Sono un pendolare incallito a cui piacciono un sacco le lingue straniere e i dialetti italiani. Tra un viaggio e l’altro passo il mio tempo a insegnare, a scrivere articoli e a parlare davanti a un microfono. Attualmente collaboro con Eleven Sports, Accordi & Spartiti, Periscopio e Web Radio Giardino.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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