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Il mio Natale. (un racconto)

Il mio Natale.
(un racconto)

Alla Biblioteca Bassani incontro l’amico Checco Monini e mi fa: «Ti andrebbe di scrivere qualcosa sul Natale?» Non dico nulla, ma immagino che il mio sguardo esprima un «Oddio…». Allora lui aggiunge: «Puoi anche parlarne male». La cosa finisce lì, senza una mia risposta – che comunque lo è – e ci salutiamo.

Un attimo dopo sono in macchina, sto tornando a casa, e quell’idea di poterne parlare male mi stuzzica… Il Natale per me, da molti anni, è come quel minuscolo pezzettino di pellicola Domopak che ti resta appiccicato alle dita quando ci vuoi avvolgere una mezza cipolla perché una intera nel soffritto sarebbe troppa: il maledetto lacerto di polivinile si è elettrizzato e non c’è verso di liberarsene. Appunto, ecco che anche il Natale, con le sue sfolgoranti luminarie e i suoi convulsi eccessi, si elettrizza ogni anno… e per quanto io tenti di restarne indenne ai margini, mi si appiccica e non c’è verso di liberarmene.

Sono un po’ orso. Provo a non darlo a vedere, ma credo sia evidente. Soffro di demofobia e claustrofobia. La gente, intesa come massa indefinita di persone che ti circonda e sgomita nelle vie del commercio, o come astratto insieme di esseri umani che popolano la Terra depauperandola dei suoi meravigliosi doni, mi fa mancare l’aria e, se posso, la evito. Sono le persone che mi interessano, che mi coinvolgono e possono piacermi o meno, ma una per volta, ciascuna con l’attenzione e il rispetto che merita secondo i miei fallibili gusti e (pre)giudizi. Il perché l’ho indagato e scoperto, ma lasciamo perdere. Figuriamoci quindi come posso vivere il Natale, quello che è diventato ciò che è oggi: un frenetico circo Barnum, un evento essenzialmente commerciale vocato al consumismo che subito dopo Halloween, senza nemmeno una pausa, passa per il Black Friday e si protrae fino a Carnevale, con in mezzo la Befana e i saldi. Una follia! Già, ma questo lo sappiamo, lo pensiamo e lo diciamo tutti, non è una novità, è la retorica del Natale, quindi non vale la pena insistere perché sarebbe il solito e noioso argomento che ogni anno ritorna, trainato dalle renne di Santa Claus. Ci siamo dentro, lo dobbiamo comunque attraversare.

Allora, sempre mentre guido, mi do pace e cominciano ad affiorare i ricordi dei miei Natali. Il primo che mi viene in mente è quello dei miei otto anni. Mio padre era morto due anni prima. Mia madre e le mie sorelle maggiori si facevano in quattro (quanti numeri ho citato: 8, 2, 4… magari gioco un terno sulla ruota di Venezia), facevano del loro meglio, dicevo, per non privarmi della magia del Natale. Da noi veniva Gesù Bambino perché mio padre era di fede cattolica. Solitamente i regali sotto l’albero non c’erano e io fremevo per l’attesa della sua visita. Verso la mezzanotte qualcuno bussava alla porta (?) e correvo ad aprirla: non c’era nessuno, ma i pacchetti infioccati erano lì sullo zerbino: Gesù Bambino non mi aveva dimenticato! In quel 1966, però, al rintocco delle campane a festa che annunciavano la venuta del Messia io ero da solo in bagno, in pigiama, seduto sul water con la diarrea, i brividi lungo la schiena e trentanove di febbre. Mi sentii un reietto e piansi a dirotto. Senza mio padre non sarebbe mai più stato Natale.

Poi venne il Natale del 1980. Dopo lunghe sofferenze, mia madre si era spenta in novembre e a me spettava affrontare per la prima volta il periodo festivo in solitudine, padrone del mio destino. La notte della vigilia presi due bicchieri di cristallo, una bottiglia di Veuve Cliquot e andai in Certosa. Scavalcai il cancello e mi incamminai verso la tomba di famiglia. Il gelo mi saliva dalla schiena fino alla cute della testa, facendomi percepire i bulbi dei capelli. All’inizio pensai che fosse meglio guadare avanti e procedere velocemente senza badare alle tombe e ai presunti spettri che mi circondavano, ma poi l’attrazione fu fatale: rallentai e mi misi a guardare di qua e di là, per pormi in solidale ascolto delle voci dei morti, convinto che in tal modo nessuno di loro mi avrebbe aggredito alle spalle. Allo scoccare di mezzanotte, davanti alle foto dei miei genitori riuniti, aprii la bottiglia e brindai con loro. Fuochi fatui non ne vidi. Il loro bicchiere di cristallo lo lasciai sulla tomba, ancora pieno, pensando che mia madre non ne sarebbe stata contenta perché ai suoi preziosi bicchieri teneva molto e così erano diventati dispari, ma ora potevo fare quel che mi pareva. Fuori dalla Certosa guardai il mio che avevo in mano… era una bella coppa da champagne, decorata in stile Liberty. Pensai che durante la Belle Epoque si diceva che il seno perfetto di una donna doveva stare in una coppa di champagne. Ero d’accordo, mi sarebbe piaciuto vivere a quei tempi. La gettai per terra e si infranse. Ora erano di nuovo pari. Ognuno è libero di festeggiare con i propri cari come meglio crede.

Fu ancora Natale, molti anni dopo, quando da padre del mio bambino era toccato a me il rituale dell’albero e dei doni. A casa nostra veniva Babbo Natale perché ci eravamo fatti laici, e comunque perché Gesù Bambino era una cosa d’altri tempi e si doveva stare al passo. All’epoca non avevo ancora rivelato a mio figlio che il Buon Vecchio con la barba bianca vestito di rosso era un personaggio pubblicitario della Coca Cola, mica San Nicola. Anch’io stavo alle usanze della mia famiglia d’origine e ho sostenuto l’esistenza di Babbo Natale finché ho potuto. La cerimonia era però più semplice: Babbo veniva di notte, quando si dormiva, e i doni comparivano sotto l’albero il mattino seguente. Il mio bambino aveva sei anni, come me quando persi mio padre, e quell’anno lui aveva perso sua madre. Per chi abbia motivi di sofferenza, il Natale è come alcol su una ferita aperta. Per fortuna c’era – e c’è ancora! – il ricco pranzo di Natale dai nonni materni con i piatti della tradizione, dove Andrea trovava altri doni e il calore di una famiglia più numerosa di noi due soltanto.

A quei tempi avevamo anche tentato di sostituire il vecchio abete di plastica con un albero vero, perché a noi piacciono le cose vere. Dico “tentato” perché l’ardita scelta si protrasse solo per un paio di Natali, prima di dichiaraci vinti e tornare alla plastica. La prima volta, una mattina intorno al 20 dicembre, ci svegliammo e trovammo tutti gli aghi dell’abete a terra. Un “collasso” dovuto al fatto che l’alberello non aveva radici, stava vicino a un radiatore e probabilmente l’avevo annegato d’acqua. Le palline di vetro colorato stavano sconsolate appese ai rami nudi e secchi, una tristezza! Allora l’anno seguente mi procurai un piccolo abete con le radici, ma mentre lo stavamo addobbando mi chinai per attaccare una pallina e un ago mi si conficcò in un occhio. Un male cane! Pronto soccorso, pomate e benda alla Moshe Dayan fino a Capodanno. Se non ricordo male, prima di tornare alla plastica, il Natale successivo feci un finto albero bidimensionale di cartone, su cui il mio bambino disegnò palline colorate.

Ma di nuovo, molti anni dopo e con piena soddisfazione, ho avuto l’occasione di tornare a quei bei momenti infantili a cui gli adulti amano partecipare quando intorno ci sono dei bambini: con solo il cappello di Babbo Natale, ero solito portare alle mie nipotine acquisite un sacco di juta colmo di regali. La loro mamma mi aveva definito “un aiutante di Babbo Natale” e loro ci avevano creduto. Ecco, la gioia del Natale è questa, il Natale è e dovrebbe restare una festa dei bambini. I regali tra adulti sono diventati una consuetudine, direi fuori luogo, solo da qualche decennio. È il mercato che crea bisogni che non abbiamo. Dovremmo stare più attenti.

Infine, sempre in macchina e quasi arrivato a casa, ho visualizzato una stalla di un luogo lontano, più di venti secoli fa… Dentro c’erano una giovane incinta col suo sposo, lei stesa su un giaciglio di paglia e lui a tenerle le spalle. Le contrazioni si facevano sempre più frequenti e le fitte di dolore acute. Lui le carezzava la testa e lei cercava invano di trattenere i gemiti. Non dicevano nulla, erano soli, la notte era mite. Poi uno sforzo… e un primo vagito: un bambino era venuto al mondo. Tutto qui. Tutto qui? Era il nostro Salvatore? Se sì, da cosa ci ha salvato? Importa saperlo? Importa crederci? A me francamente no. A me importa il miracolo della nascita come espressione dell’incommensurabile forza che ha la Vita, che ha la Natura. Un evento che ha in sé qualcosa di prodigioso, che si ripete in ogni tempo e in ogni luogo e che non avrà mai fine. Forse non ha un fine nemmeno inteso come scopo. Forse è così e basta. E questo io lo vedo accadere soprattutto nel grembo delle donne e poi con la nascita. Un bambino che nasce è un inesplorabile “miracolo naturale”, è gioia allo stato puro e primordiale. Il Divino è in noi e in ogni cosa. Non lo si può toccare né vedere, ma lo si può sentire. Non importa dargli un nome e una fisionomia immaginaria. Importa non consideralo esterno da sé, attribuendogli responsabilità che sono nostre. La nostra “salvezza” è nelle nostre mani, è compito nostro, nei nostri limiti, darle modo e forma nelle scelte quotidiane. L’Inferno e il Paradiso sono qui e ora, non chissà dove e dopo. L’aldilà è una faccenda misteriosa che tale ha da restare. E il senso del Natale, neanche a dirlo, è la natività in sé, lo sguardo ancora vuoto di due umidi occhietti neri che si aprono a questo strano mondo.

Buon Natale, di cuore!

(5 dicembre 2025. Mio padre Mario, scrittore, mi lasciava oggi, 61 anni fa.)

In copertina: immagine di Gisela Merkuur da Pixabay

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Roberto Giacometti

Roberto Giacometti vive pigramente a Ferrara, che dice stare nel trattino che separa, unendole, l’Emilia dalla Romagna, ossia in un luogo che non sta né qui né là, dove si armonizzano le contraddizioni.

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