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“La convinzione che sia l’efficienza economica dei mercati liberalizzati e globali a portare all’aumento del benessere collettivo, è alla radice dell’esplosione di populismi e particolarismi nazionali”. Lo scrive Francesco Saraceno su ‘Il Mulino’ (1/2019).

Al di là dei responsi delle elezioni europee e amministrative dello scorso 26 maggio, che pure non hanno decretato l’annunciato sfondamento della destra populista e nazionalista, almeno a livello continentale, se non si capisce il motivo di quest’avanzata, che pure c’è, chi intende porvi argine rischia una navigazione senza bussola. E quindi di combattere contro i mulini a vento.
Il punto di partenza è l’aumento vertiginoso delle disuguaglianze prodotto dalla crisi deflagrata nel 2008, cioè l’anno in cui falliva Lehman Brothers. Aumento spaventoso che vede vincitori un ristretto gruppo chiamati dagli esperti i “plutocrati globali” e un chiaro perdente che è la classe media e inferiore dei paesi avanzati, usciti da questo terremoto con meno redditi, meno welfare e meno reti di protezione.
Per la verità, il crollo iniziato nel 2008 è solo il risultato di scelte che risalgono a decenni prima. È l’affermazione – nelle università, nella politica, nei governi e cancellerie – del modello neoliberista.
Il politologo polacco Jan Zielonka, allievo di Ralf Dahrendorf, parla (‘L’Espresso’ 26 maggio) della resa incondizionata all’ineluttabilità del Tina: l’acronimo di conio thatcheriano per dire che ‘There Is No Alternative‘.
Non c’è alternativa alla vittoria inarrestabile della “dittatura dei mercati”. Lo scrive, da liberale, anche sul suo libro ‘Contro-rivoluzione. La disfatta dell’Europa liberale’ (Laterza 2018).
Lo scrive Alessandro Somma commentando le elezioni europee (‘La Nuova Ferrara’ 30 maggio): “il quadro politico è monopolizzato da due modi di interpretare il neoliberalismo come ideologia fondativa dell’Unione Europea: un neoliberalismo nazionale e un neoliberalismo cosmopolita”.
Lo sta scrivendo da tempo anche Claudio Pisapia su Ferraraitalia.
Si può continuare con gli esempi, ma non è questo il punto.

All’adagio “Non c’è alternativa” si sono accodati per anni partiti e governi indistintamente conservatori e progressisti.
Il capitalismo predatorio e deregolato, degli animal spirits, è stato assecondato e pettinato nelle varie declinazioni, credendo alla teoria che gli studiosi chiamano dello ‘sgocciolamento’: ridistribuire in favore dei più ricchi favorisce la crescita, perché remunerando chi è più produttivo da un lato aumenta risparmi e investimenti e dall’altro fornisce i giusti incentivi per l’accumulazione del capitale.
Un circolo virtuoso che si è imposto nella sua autoevidenza meccanica, ma che gli economisti giudicano dotato di pochissimo supporto empirico.

Questo ha portato acqua al mulino di chi sostiene che efficienza ed equità sono alternative, non possono stare insieme.
Carlo Triglia (‘Il Mulino’ 2/2019) scrive che sono ancora parecchi coloro che sostengono che “il capitalismo non sarebbe compatibile con una democrazia politica forte e ben salda, perché quest’ultima, perseguendo inevitabilmente obiettivi di riduzione delle disuguaglianze, finirebbe per intralciare la libertà dei capitalisti di ricercare il profitto”.
E qui arriviamo al punto.
Se non c’è alternativa, hanno cominciato a dire in tanti, a cosa serve andare a votare? Se il nostro voto non serve a cambiare marcia, che ci andiamo a fare?
Il fenomeno corrosivo dell’astensionismo nelle democrazie occidentali, troverebbe in questo dilemma una sua spiegazione.
Si arriva così a quella che è stata chiamata ‘democrazia a bassa intensità‘.
Se non c’è altra strada all’inevitabile contrazione della spesa sociale, all’impossibilità di redistribuire la ricchezza, ai tagli e all’erosione progressiva del welfare, la politica stessa abdica al suo ruolo fondamentale di riequilibrio e le distanze sociali sono lasciate correre.
Si fa strada la narrazione secondo la quale la proliferazione di istituzioni non elettive provochi una sensazione di confisca del meccanismo decisionale, di un suo inaridimento verso un binario laterale, se non morto di certo burocratico.

Le reazioni di un Matteo Salvini alle ‘letterine’ di Bruxelles e, più in generale, il dilagare dell’eurosceticismo, non dicono niente?
Non fanno forse più breccia in opinioni pubbliche stremate e impoverite queste letture, di quelle più articolate, e spesso fumose, di moderati e progressisti alla ricerca di complicate misure di contenimento, equilibrio, rispetto di parametri, tutte comunque dentro a quel There is no alternative?
C’è bisogno che qualcuno dica che capitalismo e giustizia, e quindi democrazia politica, possono stare insieme, come sostiene Carlo Triglia.
C’è bisogno di dimostrarlo nelle aule universitarie di mezzo mondo, tante delle quali, come ci ricordò Luciano Gallino, restano contrarie.
C’è bisogno di dimostrarlo sul piano politico, perché queste idee si traducano in proposte, in azioni che stiano in piedi, come, per esempio, scrive Fabrizio Barca (‘L’Espresso’ 26 maggio), declinando il concetto di giustizia sul piano sociale e ambientale.
E c’è bisogno che lo dimostrino i governi, nazionali ed europei, perché dicano che un’alternativa invece c’è e che sarebbe bene che lo Stato ritrovasse il proprio ruolo regolatore, perché questo ha garantito stabilità .

Altrimenti?
Altrimenti si fa strada il morbo populista e nazionalista, che con i suoi slogan d’assalto rimane l’unico giocatore in campo a sostenere che un’alternativa c’è. L’unico giocatore in campo che sfilando dalle mani il tema per antonomasia della sinistra, come disse Norberto Bobbio, ossia l’uguaglianza, trova orecchi sempre più stufi, arrabbiati e disposti a rivoltare il tavolo.
E proprio qui, in questo rumore assordante di parole d’ordine, si rischia di non prestare l’attenzione dovuta alla vera posta in gioco.
Papa Bergoglio lo chiama discernimento.
Non ci si accorge che l’onda sovranista, finalmente liberata dai vincoli di burocrati e banchieri, vorrebbe declinarsi in un nuovo ordine internazionale, mentre è un controsenso, un ossimoro: come sta in piedi un’internazionale sovranista, quando è basata sulla difesa, ciascuno e prima di tutto, dei propri interessi nazionali? Come può reggere un ordine basato sul “Prima i nostri”?

È esattamente il motivo per il quale l’Unione Europea di adesso non funziona, perché ancora prigioniera di un assetto intergovernativo che la trattiene dall’essere completamene foedus .
Come non capire che misure come la flat tax sono musica per le orecchie degli straricchi, cioè nuova linfa allo strapotere dei plutocrati globali e di quel neoliberismo destinato a moltiplicare le distanze?
Qualcuno vuole ancora credere alla teoria dello sgocciolamento?
L’unica sovranità possibile è quella europea, come scrive Massimo Cacciari (‘L’Espresso’ 19 maggio), perché sbandierare la difesa degli interessi nazionali fuori da quel perimetro, significa “ridursi a nani impotenti nei confronti dei grandi Imperi contemporanei”.
Come altrimenti interpretare l’esultanza di un Donald Trump di fronte alla Brexit, cioè al tentativo riuscito di disarticolare l’Ue con la promessa di accordi commerciali mirabolanti, o l’iniziativa cinese di insinuare la propria via della seta?
Lo spirito europeo non è nato per generare sviluppo di scienza, tecnica ed economia, disgiunte dal sistema di libertà e giustizia. Per quanto, purtroppo, il percorso appaia decisamente in salita, è su questo piano, non su quello nazionale e tantomeno locale, che si gioca la vera sfida di questo incremento.
Se vincono populismo e nazionalismo si continua cioè a viaggiare, con l’illusione di rovesciare regole e parametri e di disintermediare corpi intermedi e rappresentanze, sul binario neoliberista, nel quale la ricchezza esclude democrazia e giustizia.
Se in Cina il problema nemmeno si pone, negli Usa di Trump non si pensa lontanamente di redistribuire la ricchezza in senso egualitario.
Senza parlare di un Orbán che da tempo predica una democrazia illiberale.

Così la democrazia a bassa intensità viaggia diritto verso l’assenza d’intensità e verso l’assenza di democrazia.
E tutto accade lentamente, come dovrebbe insegnare la storia, con la legittimante acquiescenza di opinioni pubbliche abbagliate dal ritorno degli Stati-nazione, euforicamente salite sul treno populista, utile veicolo per trasbordare in modo non traumatico l’oggi verso un futuro tremendamente simile a un passato che è sbagliato pensare definitivamente alle nostre spalle.
Dopodiché, noi sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale …, cantavano Dario Fo, Enzo Iannacci e Giorgio Gaber.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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