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Una partita di baseball dura in media tre ore ed è scandita da un sacco di pause, durante le quali il pubblico statunitense è solito prendersi il centro della scena: infatti, oltre a consumare grandi quantità di cibo, sugli spalti ci si bacia di fronte alla kiss cam, si fanno bizzarre proposte di matrimonio e, soprattutto, si canta. Ebbene, il brano più conosciuto dal pubblico nordamericano è senza dubbio Take Me Out To The Ball Game, la cui storia merita un approfondimento.

Si tratta di una semplice canzonetta in 6/8, scritta nel 1908 dal paroliere Jack Norworth e dal pianista di origine polacche Albert von Tilzer, entrambi non particolarmente interessati al baseball. Senonché, un cartellone pubblicitario affisso nella metropolitana di New York dette l’ispirazione a Norworth, le cui liriche leggere e spensierate divennero ben presto una canzone vaudeville, ossia un brano adatto a essere interpretato in uno spettacolo teatrale perlopiù satirico. Il genere vaudeville, infatti, raccontava l’attualità dell’epoca attraverso melodie orecchiabili e un po’ d’ironia. Sta di fatto che Take Me Out To The Ball Game riscosse un gran successo nei teatri statunitensi, ma l’apertura dei primi cinema e la progressiva diffusione della radio contribuirono al declino del suddetto genere.

Così, nel giro di qualche anno la canzone di Norworth e von Tilzer passò dai teatri alle arene sportive: nel 1934 fu suonata per la prima volta in uno stadio di baseball a Los Angeles, e precisamente in una partita tra studenti delle scuole superiori; l’anno successivo, invece, venne addirittura proposta durante la fase finale del campionato MLB. Diventò infine popolarissima a partire dagli anni ’70, cioè quando lo speaker Harry Caray iniziò a far cantare al pubblico il ritornello del brano durante il cosiddetto seventh-inning stretch, la breve pausa del settimo inning.

Caray lo intonò dapprima di fronte al pubblico dei Chicago White Sox, poi, a partire dal 1982, fece lo stesso assieme ai tifosi dei Cubs, ossia l’altra squadra di Chicago. Fatto sta che al Wrigley Field, stadio dei Cubs, non c’è pausa del settimo inning senza Take Me Out To The Ball Game: tifosi celebri quali Eddie Vedder, Ozzy Ousbourne, Vince Vaughn e Bill Murray [Qui] l’hanno cantata, e continueranno a cantarla, assieme al pubblico di Chicago, proprio come faceva Caray. Basti pensare che al di fuori dello stadio dei Cubs è presente da più di vent’anni una statua che ritrae lo stesso Harry Caray nella sua posa più iconica, cioè quella in cui porge simbolicamente il microfono agli spettatori [Qui].

Insomma, l’intenzione originaria dei due autori del brano – adattarlo agli spettacoli vaudeville – è stata fagocitata dal trascorrere del tempo e dalla popolarità del baseball. Eppure, le due dimenticate strofe di Take Me Out To The Ball Game conservano un collegamento con il genere teatrale di cui sopra: in quei versi, infatti, si parla di una certa Katie Casey, pseudonimo inventato da Norworth per riferirsi all’attrice vaudeville Trixie Friganza, con cui lo stesso paroliere newyorchese ebbe una relazione durante la stesura del testo.

Norworth descrive tale Katie Casey come una donna intraprendente, progressista, disinibita e apparentemente appassionata di baseball: caratteristiche che secondo gli storici nordamericani corrispondono a quelle mostrate, sia sul palco che nella quotidianità, dalla suddetta Trixie Friganza, la quale contribuì all’ascesa del movimento femminista negli Stati Uniti.

D’altronde, Friganza partecipò attivamente a numerose campagne per i diritti delle donne, sovvenzionando le suffragette e parlando più volte in pubblico. Durante l’enorme manifestazione a favore del suffragio universale del 28 ottobre 1908, pare che la stessa attrice abbia arringato la folla di New York con le seguenti parole: “Non credo che ogni uomo – o perlomeno nessun uomo che io conosca – sia più idoneo a formare un’opinione politica di quanto lo sia io”

Cover: foto di WGN-TV

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Paolo Moneti

Sono un pendolare incallito a cui piacciono un sacco le lingue straniere e i dialetti italiani. Tra un viaggio e l’altro passo il mio tempo a insegnare, a scrivere articoli e a parlare davanti a un microfono. Attualmente collaboro con Eleven Sports, Accordi & Spartiti, Periscopio e Web Radio Giardino.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
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PAESE REALE
di Piermaria Romani


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