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Cinzia Carantoni, giovane laureata in filosofia

Parlando di valori da difendere si può essere portati a pensare che ciò contro cui si sta difendendo appartenga al nuovo che avanza, a qualcosa di estraneo che inizia ad intaccare gli elementi di civiltà ormai dati per acquisiti. Può capitare, invece, che alcuni valori nascano sorretti da un certo equilibrio ma che, se portati all’estremo, perdano la loro stabilità e diventino essi stessi il principio di un problema.
Se volessimo trovare un elemento ricorrente, un concetto cardine capace di riassumere la storia della nostra cultura occidentale, probabilmente lo troveremmo nell’idea di “rappresentazione”. Nella nostra civiltà, tutto è riconducibile a una forma di rappresentazione: dall’arte alla politica, dalla religione alla scienza, ogni ambito in cui l’umano si è espresso è andato nella direzione di una mediazione tra sé e il mondo, una mediazione fatta principalmente di immagini, raffigurazioni e interpretazioni. Una tendenza che risponde alla costante esigenza di mettere ordine tra l’apparente caos delle cose della natura che ci circonda e di cui facciamo parte. Che cos’è, infatti, la rappresentazione se non una decisione del soggetto su ciò che lo circonda? La scelta, più o meno consapevole, di interpretare il reale in un modo, di farsi sostenitori di una certa visione delle cose, l’affermazione di un modo di vivere piuttosto che di in un altro. L’adesione ad ogni forma di rappresentazione è, quindi, sempre faziosa, è un essere di parte. Ma dalla parte di che cosa e contro chi?
Se si ponesse il discorso in termini filosofici, potremmo fare ricorso a due concetti molto cari alla storia della filosofia dicendo che il partigiano della rappresentazione è colui che predilige la forma (intesa come l’insieme degli schemi razionali che strutturano il reale) alla sostanza (intesa come la materia informe del reale). Queste due categorie risultano essere particolarmente concrete sul piano politico.
Quando si parla di rappresentanza politica, si parla di quell’insieme di regole e di procedure formali che vanno a costituire il cuore dello Stato. Queste sono il frutto del riconoscimento da parte della società dell’imprescindibile esigenza di un’istanza guida capace di raccogliere e di ordinare dentro di sé tutta quell’energia che esplode quotidianamente dal nostro relazionarci con l’altro e che può sempre sfociare nel conflitto. Ma come ogni forma di decisione, anche questa si accompagna di pro e di contro. Da una parte acquisiamo il valore della giustizia, il diritto, un tema che al di fuori della società non ha alcun senso, per dirla con Hobbes: in natura il diritto è potenza, ovvero vince sempre il più forte. Dall’altra siamo costretti alla rinuncia della propria autenticità, della propria immediatezza, vivere in società comporta la fatica degli obblighi e della sottomissione alle istituzioni. Così la forma prevale sulla sostanza, rinunciando non solo al lato conflittuale della socialità, ma ad ogni forma di relazionalità libera. Essendo però proprio la costitutiva relazionalità dei soggetti il cuore della politica, perché è quello il luogo d’origine del potere politico, è necessario giungere ad un compromesso tra forma e sostanza, perché possano conciliarsi in una loro armonia.
Fino ad un certo punto la nostra politica si è basata sulla ricerca di un equilibrio tra questi due estremi e mai si è potuto pensare di prescindere dall’idea di un primato della sostanza sulla forma, dove per sostanza si intende quel modo di interpretare la politica in cui l’informe moltitudine è il soggetto originario che ha preso la decisione su se stessa di diventare uno Stato. Un soggetto politico questo che anche quando sembrava scomparire dallo scenario politico, chiusa nella morsa di uno Stato autoritario, ricompariva con la forza della minaccia rivoluzionaria verso quelle autorità che, in virtù della propria intransigenza, rendevano più debole il loro principio di obbedienza.
Poi è arrivato un mondo nuovo e la tensione tra forma e sostanza si è spezzata. Per citare Baudrillard, siamo approdati nell’epoca del transpolitico, dove la politica non è più uno scambio tra le parti alla ricerca di un equilibrio, ma ricatto sotto forma di terrore. Il terrore di una legge che non si pone più come ricerca di una razionalità estrema in cui potersi riconoscere, ma come il caso d’eccezione di un costante stato d’emergenza, che ci porta ad essere una società di spettatori passivi di quel meccanismo di rappresentanza che, invece, avevamo scelto come specchio di noi stessi. Con un totale sbilanciamento verso la forma più estrema di rappresentanza, siamo diventati osservatori attoniti, incollati allo schermo televisivo per subire una politica che va avanti senza di noi, una politica senza soggetto né contenuti, un puro ingranaggio spinto all’estasi della forma che ci domina senza ragioni. Forse per ripristinare questo antico equilibrio tra forma e sostanza varrebbe la pena di combattere, per riemergere dall’accidia, per rifiutare questo stato di perenne attesa e ritornare a lottare ancora una volta come soggetto attivo della nostra società.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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