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Che la nostra scuola avesse abdicato al suo ruolo di ascensore sociale, lo sapevamo ormai da tempo. Ma i dati del rapporto OCSE 2014 sullo stato dell’istruzione nel nostro Paese disegnano un sistema scolastico di figli e figliastri, un sistema scolastico gruviera che perde soprattutto i più deboli.
Dal 2008 al 2012 la popolazione NEET, vale a dire le persone tra i 15 e i 29 anni che sono disoccupate e che non sono inserite in un percorso di istruzione o formazione professionale è cresciuta di cinque punti, dal 19,2% al 24,6%, collocandoci al terzultimo posto, prima solo della Spagna e della Turchia, nell’area OCSE.
Gli abbandoni scolastici nella fascia 15-19 sono ancora in crescita, seppure lieve. Nel 2012 solo l’86% dei 17enni era ancora iscritto nel sistema scolastico, una delle percentuali più basse dei Paesi dell’OCSE. Sempre meno giovani accedono all’università, perché essenzialmente scoraggiati dalle prospettive occupazionali.
Come è possibile in un paese da sempre all’avanguardia dell’integrazione scolastica, con un’iscrizione alla scuola dell’infanzia quasi universale, il 93% delle bambine e dei bambini di tre anni, 96% per quelli di quattro anni, contro la media OCSE del 70%, se è vero che frequentare la scuola dell’infanzia è una premessa fondamentale al successo formativo?
La nostra scuola è come una macchina che perde benzina, ma quando si lasciano per strada ragazze e ragazzi il codice non può che essere rosso, perché gli abbiamo rubato i sogni, la fiducia in se stessi, la possibilità di realizzarsi, abbiamo tolto futuro a loro, ma anche a tutti noi, a tutto il Paese.
E allora sforziamoci di capire meglio, addentriamoci in questo Education at a Glance 2014, sguardo sull’istruzione, che a leggerlo pare tutto un ossimoro nel suo susseguirsi di dati tra loro contrastanti.
Sì, perché, se complessivamente il livello di istruzione è aumentato, specie per le donne, i giovani italiani hanno comunque livelli di istruzione inferiori ai loro coetanei della maggior parte degli altri Paesi.
Sostanzialmente si frequenta la scuola più a lungo, ma si impara di meno. Gli anni di studio non compensano la qualità. È come dire che c’è un furto del tempo di vita che i nostri giovani investono sui banchi di scuola e nelle aule universitarie, una responsabilità pesante di chi in tutti questi anni si è riempito la bocca con vuote riforme, della necessità di tagli alla spesa per l’istruzione, senza mai presentare al Paese uno straccio di bilancio sociale su un’istruzione pubblica sempre più ridotta in stato comatoso.
«La qualità dell’istruzione di base sta migliorando costantemente» è l’ossimoro più preoccupante del rapporto OCSE, perché la conclusione dopo una ventina di righe è che «Nonostante i recenti miglioramenti registrati, il livello medio di competenze in comprensione dei testi scritti (lettura) e matematiche in Italia resta basso rispetto ad altri Paesi».
C’è da vantarsi? Solo degli irresponsabili possono pensare che la scuola italiana migliora, come i titoli montati da stampa e televisione in questi giorni ci vorrebbero far credere. Chi non si interroga sui ritardi accumulati e sulla distanza che ci separa dagli altri paesi. Solo chi non considera che a pagare il prezzo di questa situazione sono come sempre le fasce sociali più deboli, il pesante costo che un Paese irresponsabile fa pagare ai suoi figli.
C’è da chiedersi cosa è successo nella patria di Maria Montessori, di Lorenzo Milani, di Loris Malaguzzi, (Don Bosco lasciamolo da parte, per cortesia), chiamati ad essere gli ispiratori della “buona scuola”, perché se non si comprende questo è come evocarli in una seduta spiritica.
Forse è successo che questo Paese viene da decenni in cui l’interesse a fornire a tutti i suoi cittadini una scuola ben fatta è stato pressoché nullo, tanto chi può sa come provvedere.
Forse è successo che, nello smantellamento dello stato sociale, le prime conquiste da colpire erano proprio quelle compiute sul terreno del diritto all’istruzione negli anni ’70 e ’80.
Il nostro paese era all’avanguardia nel mondo per i suoi asili, per le scuole a tempo pieno e per la sua scuola primaria. La riforma della scuola elementare nel 1985 portava la firma del ministro Falcucci. La Falcucci non era proprio una rivoluzionaria, tutt’altro, ma era donna di scuola, capace di dialogare con chi ogni giorno si forma nel rumore d’aula.
Sono bastati due ministri, la Moratti e la Gelmini, per distruggere quella riforma e tornare, per una scelta tutta ideologica, al maestro unico. Ed ora, ecco i risultati!
Tra il 2008 e il 2011, dicastero Gelmini, la spesa per studente, dalle elementari alle superiori è scesa del 12%, collocandoci al penultimo posto dell’area OCSE, dopo di noi solo l’Ungheria.
Sostanzialmente l’Italia mostra uno dei profili più piatti nelle uscite dedicate al percorso di studi dei suoi studenti, tanto che l’esborso per la scuola dell’infanzia e primaria e spesa per l’istruzione universitaria pressoché si equivalgono. Nel 2012, la spesa per studente delle scuole elementari è in linea con la media dell’OCSE. Ma la spesa per studente della secondaria di primo grado è inferiore del 7% rispetto alla media dell’OCSE, mentre per le superiori la differenza è ancora maggiore, al di sotto del 28%, sempre rispetto alla media dell’OCSE.
L’Italia è il solo Paese che registra una diminuzione della spesa pubblica per le istituzioni scolastiche tra il 2000 e il 2011, ed è il Paese con la riduzione più marcata (5%) del volume degli investimenti pubblici tra il 2000 e il 2011.
Come si è potuti andare avanti? Ce lo dice il rapporto OCSE, informandoci asetticamente che in questi anni a pareggiare i conti è stato l’aumento dei contributi privati.
La percentuale del finanziamento totale per le scuole e le università che proviene da fonti private è quasi raddoppiata tra il 2000 e il 2011. In termini relativi, nel 2000, il 94% del finanziamento per le istituzioni proveniva da fonti pubbliche. Entro il 2011, il finanziamento pubblico è stato ridimensionato al 89%.
Poiché noi sappiamo bene che il nostro è un paese dove non c’è l’otto per mille da devolvere alle scuole, non ci sono fondazioni che finanzino l’istruzione e neppure la detassazione per questo tipo di elargizioni, le conclusioni sono presto tratte. A pagare di più sono state le famiglie. Elementare, direbbe Holmes.
Aumento delle tasse universitarie, i vituperati, dai ministri responsabili dei tagli, contributi volontari dei genitori alle scuole frequentate dai loro figli, ricordate le squallide polemiche sulla carta igienica portata da casa?
Allora complimentiamoci dei nostri risultati, per la scuola dei nostri figli che avanza come i gamberi.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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