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La vera emergenza in Emilia-Romagna: una classe dirigente innamorata di asfalto e cemento

Sta facendo cerchi nell’acqua – l’acqua sporchissima del post-alluvione – la notizia dell’ultimo blitz pro-cemento della giunta regionale emiliano-romagnola, quella capeggiata da Stefano Bonaccini.

Blitz fatto ad agosto, come da cliché, quando l’attenzione generale, tra canicola e vacanze, perde colpi. Infatti il caso è esploso un mese più tardi: prima una lettera di Italia Nostra poi un articolo di Paolo Pileri su Altreconomia hanno attirato l’attenzione su questa mossa esecranda.

Cos’hanno fatto?

Il 7 agosto scorso, con una delibera peraltro illegittima, la giunta ha emendato in senso peggiorativo una legge regionale già molto discutibile se non famigerata, la 24/2017 sull’urbanistica.

Legge che doveva essere «contro il consumo di suolo», ma che fin da subito si è rivelata un intrico di deroghe, espedienti e scappatoie per le lobby del mattone, del cemento e dell’asfalto, e per le amministrazioni locali che a quelle lobby consentono di spadroneggiare.

Fino a un mese fa, la legge prevedeva che un comune sottoponesse il proprio piano urbanistico alla valutazione di sostenibilità ambientale e territoriale (Valsat), passaggio che spettava a province e città metropolitane sulla base di una relazione istruttoria dell’Arpae, l’agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia. Nel caso di “bocciatura” da parte dell’Arpae, il comune doveva assumersi in tutto e per tutto la responsabilità – anche politica – del proprio piano urbanistico, presentando una controrelazione scritta.

Nella maggior parte dei casi, poco più di una formalità. Per motivi che qui sarebbe lungo elencare, l’Arpae difetta di reale indipendenza. Da sempre costretta al contorsionismo tra molteplici esigenze istituzionali e di realpolitik economica (immaginiamo le reazioni se dopo le alluvioni del maggio scorso avesse dichiarato l’Adriatico non balneabile), ha dimostrato più volte di non poter fermare gli scempi ambientali. Tant’è che questi proseguono imperterriti.

Eppure, anche quel blando “ostacolo” posto sulla strada dei cementificatori era di troppo per la sensibilità del PD, o meglio, per l’economia che il PD rappresenta e acriticamente tutela. Un’economia sbagliata da cima a fondo, ecocida in ogni sua articolazione, che devasta il territorio, esponendolo ed esponendoci a sempre più disastri. Un’economia le cui presunte “eccellenze” saranno sempre più riconosciute come orrori.

La delibera 1407 esautora l’Arpae in più modi: la sua istruttoria sui piani urbanistici non è più un atto dovuto; nel caso poco probabile in cui venga comunque consultata, la sua relazione non può includere alcuna «valutazione circa la positività o negatività» del piano; in ogni caso, un comune potrà consultare l’Arpae soltanto «sulla base di specifiche convenzioni a titolo oneroso da stipularsi, caso per caso, sulla base di specifico accordo tra le parti». Cioè dovrà pagare.

In questo modo, la valutazione di piani e varianti urbanistiche resta in mano unicamente a province e città metropolitane. Soggetti che certamente hanno meno competenze sui temi ambientali di quante ne abbia l’Arpae, ma il vero problema non è nemmeno quello.

Con la legge n. 56/2014 del governo Renzi  – la cosiddetta «Legge Delrio» – le deleghe di governo sono passate dalle vecchie giunte provinciali ai consigli provinciali e metropolitani, che oggi sono organismi eletti a suffragio ristretto – e quasi sempre composti direttamente – da sindaci e consiglieri dei comuni. Cioè gli stessi che propongono i piani e le varianti urbanistiche. In pratica, si valuteranno da soli, senza l’intralcio di soggetti terzi.

Tutto questo, si diceva, è illegittimo: la giunta non può modificare una legge approvata dall’assemblea regionale. Solo l’assemblea stessa può farlo. Ma, a quanto pare la vicepresidente di regione Irene Priolo – che è anche assessora alla «transizione ecologica e difesa del suolo», chi ha presente il suo curriculum riconosce subito la neolingua – e gli assessori Paolo CalvanoVincenzo CollaAndrea CorsiniPaola Salomoni e Igor Taruffi non hanno avuto scrupoli.

Cosa li spinge a farlo?

Al di là dei precisi risvolti tecnici e amministrativi, a noi tutto questo interessa come  ennesimo sintomo. Ogni manifestazione sintomatica conferma l’eziologia del male, la diagnosi dell’ecodisastro in Emilia-Romagna che, non certo da soli, abbiamo cercato di formulare.

Per chi vive da queste parti, il cursus honorum dei succitati personaggi parla da sé. Ci è toccato nominarli altre volte. Sono tutti inveterati amanti di cemento e asfalto. Ogni colata d’asfalto è loro oggetto del desiderio, ogni loro discorso sullo “sviluppo” è un’eccitata apologia dell’impermeabilizzazione del suolo.

L’intelligenza del suoloSuolo di cui, come ricorda Pileri in un suo libro divenuto imprescindibileignorano praticamente tutto. Non sanno che il suolo è un ecosistema la cui sopravvivenza è indispensabile alla nostra. Non sanno che una sola cucchiaiata di terra contiene miliardi di forme di vita. Non sanno che il suolo è raro e la sua esistenza andrebbe preservata con ogni mezzo necessario. No, per loro c’è solo superficie da ricoprire, “vuoto” da riempire di edifici, spazio sul quale far passare una strada.

Basta vedere quante nuove autostrade, raccordi, “bretelle”, svincoli e sottovie vogliono realizzare nei nostri territori, dal Passante di Bologna – cioè il raddoppio fino a diciotto corsie di tangenziale e A14 nei tredici chilometri in cui procedono affiancate in piena città – alla Nuova Romea Commerciale, la cosiddetta «Orte-Mestre».

Quest’ultima, solamente tra Emilia-Romagna e Veneto, impatterebbe su oltre venticinquemila ettari di zone protette, tra siti di interesse comunitario (Sic), zone a protezione speciale (Zps), parchi regionali e altre zone di grande pregio paesaggistico e naturalistico.

Su questo progetto l’assessore Corsini – quello che dopo le alluvioni voleva bere un bicchiere di acqua dell’Adriatico – ha una sola riserva: il tratto che passa in Emilia-Romagna non deve essere a pedaggio. Son priorità.

Corsini è romagnolo, della provincia di Ravenna, una delle più cementificate d’Italia. Proprio dalle sue parti l’indifferenza della classe dirigente ha appena consentito un altro oltraggio, “la svendita a privati di cinquecento ettari di area protetta” [pubblicato su Periscopio il 15 agosto scorso, NdR] nel parco del Delta del Po, incluse le zone umide dell’Ortazzo e dell’Ortazzino. C’è un risvolto inquietante, che riferiamo con le parole di Linda Maggiori:

«La cosa più grave è che la Giunta de Pascale affermava nel 2017 di star lavorando per un’acquisizione dall’immobiliare, tanto che nel giugno 2021, erano stati stanziati fondi per l’acquisto dell’area.
Nel Documento Unico di Programmazione 2021/2023 (pagina 258) c’e’ infatti un riferimento all’ “Acquisto area naturalistica denominata: “Ortazzo/Ortazzino” a nord di Lido di Classe” con 514.400,00 EUR per il solo 2021. Il 2022 e 2023 non sono valorizzati […] Nel Documento Unico di Programmazione 2023/2025 però non ci sono accenni all’Ortazzo. Come mai questo improvviso cambio di rotta?
Come mai il Comune, nonostante i soldi fossero stati stanziati, decise di non comprare l’area protetta e successivamente non concesse neppure un misero prestito al Parco? Chi e perché ha impedito che Ortazzo e Ortazzino tornassero al Comune?»

A costoro, le alluvioni del maggio scorso non hanno insegnato né potevano insegnare nulla, perché gente così nulla è disposta a imparare. È abituata a pensarsi impunita, a non pagare mai un prezzo politico reale, a esercitare un continuo ricatto morale perché «altrimenti vince la destra». Intendono dire la destra dichiarata, mentre loro devono usare il termine «sinistra».

Ma non è solo calcolo, c’è anche del sentimento. Questa gente, ne siamo convinti, è sinceramente innamorata di cemento e asfalto. Di conseguenza, ha in autentico odio, o quantomeno in autentico spregio, gli alberi, il suolo libero, gli ecosistemi. Questo spregio lo esprime in parole e azioni, da noi documentate più volte. Nei limiti del possibile, certo. Anche se lo facessimo a tempo pieno, stargli dietro sarebbe comunque un’impresa sfiancante: non c’è praticamente giorno in cui non abbattano alberi, non aprano cantieri, non decidano nuove urbanizzazioni, non tutelino gli interessi di chi manomette il territorio.

Cosa dobbiamo fare di loro?

Di questa gente è indispensabile liberarsi.

Per liberarcene, dobbiamo rifiutare il ricatto morale.

Per rifiutare il ricatto morale, dobbiamo far crescere dal basso alternative a entrambe le destre, quella dichiarata e la «sinistra», e dunque al capitalismo, perché è quello il nome del male.

Suona difficile, e lo è, ma le altre opzioni si riducono tutte al piccolo cabotaggio in un esistente orripilante.

Per far crescere alternative, dobbiamo rifuggire le formule astratte, l’elettoralismo, i ragionamenti su come incollare pezzi di ceti politici residuali.

È necessario partire dalle lotte reali che hanno luogo sul territorio e che, con tutti i loro limiti, cercano di aggredire le contraddizioni primarie del nostro tempo, schivando diversivi, bagatelle identitarie e polemiche in bicchieri d’acqua.

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