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La cosa interessante dell’aver fatto tanti mestieri è che arrivi a conoscere tantissima gente. Gente varia, persone provenienti da realtà diverse, magari opposte, vite che scorrono parallele, spesso assai vicine ma destinate a restare separate, vite che ho avuto la sorte di incrociare.
Una sera, chiacchierando al pub con un paio di amici, rivelo la mia “strana voglia” di riscrivermi all’Università. Paolo, che sta seduto al mio fianco, mi dà una pacca sulla spalla ed esclama: «Evviva! Lo sapevo che non saresti morto ragioniere!»
Paolo è quello entusiasta e da lui non mi aspetterei una reazione diversa. Andrea, prima di dire la sua, mi guarda negli occhi: «Ma è vero?» chiede «E Cri cos’ha detto?»
«Ha detto che se può servire a farmi star meglio, per lei va benissimo!»
Certo, stare meglio… A cinquant’anni e dopo aver perso il lavoro l’unica cosa che ti può fare stare meglio è trovarne subito un altro! Ma, se non hai santi in paradiso e soprattutto se non hai qualche buona raccomandazione in terra, l’ipotesi di ricominciare a lavorare in tempi brevi, e soprattutto a quest’età, è quanto mai improbabile.
Ho iniziato l’ennesima “cassa”, che con buona probabilità sarà anche l’ultima, i primi di aprile, adesso era già metà settembre e se non mi sbrigavo a decidere scadevano i termini dell’immatricolazione. Così ho deciso e mi sono iscritto.
Strana cosa tornare a fare lo studente alla mia età, passare rapidamente dal divertimento all’imbarazzo come se fossi di nuovo ventenne, sentirmi ogni volta fuori posto e fuori tempo, e poi accorgermi, mentre cammino per i corridoi della facoltà con la borsa dei libri sottobraccio, che i ragazzi che incrocio mi scambiano per un professore. In effetti, finora ho visto un buon numero di professori assai più giovani del sottoscritto, e anche di questo dovrò farmene una ragione.
«Sì… ma come farai quando ricomincerai coi turni?» riattacca Andrea.
«Tra un po’ avrò un sacco di tempo libero!» gli rispondo.
Così, fatalmente, l’argomento della serata si fa serio, e dal divertente dibattito su chi avesse il culo migliore tra la Belen e la Hunziker si passa di colpo all’avvilente rendiconto dei problemi del sottoscritto, ovvero alla chiusura ormai certa e definitiva dello stabilimento in cui ho lavorato negli ultimi tredici anni, alla mia imminente perdita del lavoro, nonché a quella particolare condizione esistenziale propria del cassintegrato: una sorta di limbo in cui ti inducono a non fare niente e aspettare, in attesa che qualcuno decida quale sarà il tuo destino.
Ebbene, io non avevo nessuna intenzione di aspettare e, con l’argomento lavoro messo nel congelatore, ho pensato che poteva essere l’occasione giusta per riprendere un vecchio discorso rimasto in sospeso: la mia laurea mancata!
Vabbè non era proprio di questo che volevo parlare, casomai dell’altra cosa. Cioè del lavoro che ho perso e di come sia potuto succedere, dei miei vecchi colleghi, e dell’incredibile e imprevisto passaggio dalla rassicurante e noiosa routine di un lavoro a tempo indeterminato all’inquietudine e all’incertezza di un domani tutto da reinventare.
Torniamo indietro di qualche mese.
Le assemblee di fabbrica erano ormai un appuntamento fisso. Sarebbe stato utile forse sentire la voce degli operai, ma questo non era quasi mai all’ordine del giorno, si trattava per lo più di assemblee tecniche con tanto di resoconti della situazione aziendale e con annesse istruzioni per i dipendenti in tema di ammortizzatori sociali e simili. In quelle assemblee c’ero anch’io e lì ho avuto modo di parlare per la prima volta con molti colleghi che prima ignoravo o mi limitavo a salutare frettolosamente nei consueti incroci dentro i vari uffici, come nelle corsie e nei reparti dello stabilimento.
Iniziai non so come a interessarmi a loro, ad ascoltare le loro storie, le loro opinioni, i loro sfoghi, a cercare di interpretare gesti, atteggiamenti, di intuirne gli stati d’animo, gli umori. Scoprii di non conoscerli affatto, di aver lavorato tanti anni circondato non da persone ma da maschere, probabilmente identiche alla mia. Ho pensato che sarebbe stato utile scoprire cosa c’era dietro quelle maschere, in fondo stavamo condividendo lo stesso problema.
Sapevo che si era alla fine, che restava soltanto da capire come sarebbe finita, con buona pace di tutti quelli che ancora speravano in un miracolo, ed erano ancora tanti. Io invece mi sentivo già fuori, già rassegnato, stranamente sereno e disponibile ad ascoltare tutti, e forse è proprio per questo che mi parve d’intuire che molti dei miei colleghi, da quelli amici a quelli che nemmeno avevo mai salutato prima, con me si aprivano volentieri. Ne ho approfittato annotando le parole di alcuni di loro, a volte testimoni passivi e a volte protagonisti attivi dei fatti e dei misfatti legati al declino di una fabbrica dal passato glorioso.
Quindi racconterò sommariamente la parabola dell’azienda in cui ho lavorato, che è stata a lungo uno dei tanti fiori all’occhiello della bassa bolognese e che ora è ridotta ad un enorme guscio vuoto. Descriverò alcuni momenti di vita dentro e fuori la fabbrica, vissuta e raccontata dai suoi protagonisti. Uomini e donne, italiani e stranieri, che prima hanno condiviso insieme gli spazi e l’esperienza del lavoro in fabbrica, e che ora devono, ognuno nel proprio mondo separato, condividere quella del non lavoro, in attesa di un futuro indefinito.

1 – CONTINUA [leggi la seconda parte]

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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