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Vite di carta. La musica di una vita

Dopo un bel po’ di anni da quando ci è stato consigliato ho letto il bel libro La musica di una vita di Andrei Makine, che è uscito in Francia nel 2001 e poi in Italia presso Einaudi nel 2003 con la traduzione esperta di Annamaria Ferrero. Meno male che la lettura, così come il paesaggio interiore che è dentro di noi, fanno a meno del tempo scandito dal calendario e ne adottano uno più libero, in cui tempi non contemporanei possono convivere.

Nell’anno scolastico 2009-2010 lo scrittore e giornalista Valerio Varesi viene al Liceo Ariosto, invitato dal nostro gruppo di lettura Galeotto fu il libro: il dialogo con lui riguarda il suo romanzo Il commissario Soneri e la mano di Dio, appena uscito presso Frassinelli e, come da noi richiesto, il libro che lui considera galeotto nella sua vita di lettore perché leggerlo lo ha segnato, è stato mallevadore di una passione che da lì in poi è esplosa, magari fino a farlo diventare scrittore. Il libro galeotto indicato da Varesi è La musica di una vita.

Gli studenti leggono entrambi i libri, alcuni allargano la lettura ad altre opere di Varesi e si preparano le domande da fargli durante l’incontro; ad ascoltarli ci sono alcune classi, qualcosa come cento altri studenti che hanno letto il libro del nostro ospite. Non ho lavorato io a questo incontro, non posso ritrovare i materiali preparatori e la lista delle domande. Maria, la mia amica straordinaria, che come me ha lavorato per anni al progetto e ha preso parte a questo gruppo, ha trovato le parole giuste per dire quanto i ragazzi siano stati efficaci nel condurre l’intervista: come ‘domandologi’ esperti hanno messo l’autore nella condizione di dare il meglio di sé.

Venendo ora a questo mese di novembre, mentre parliamo di cento altri libri e autori Maria mi nomina Makine e mi passa la sua copia del libro. Sono trascorsi dieci anni, sono l’ultimo anello di una catena di lettori, il gradimento che il libro ha avuto risulta per me tracciabile perché lo ha scelto uno scrittore che stimo, è piaciuto agli studenti e ora Maria mi dice che è molto intenso. Mi faccio delle aspettative importanti. Maria ha tra le altre anche una intensa passione per la musica e io mi aspetto che la musica pervada le pagine, a cominciare da ciò che promette il titolo. Invece no.

Ciò che si diffonde nel piccolo libro è la storia di Aleksej Berg, un giovane musicista sovietico che deve rinunciare alla sua arte per sfuggire alla persecuzione di Stalin; alla vigilia del suo primo concerto è costretto a fuggire da Mosca in Ucraina, ma il suo rifugio non lo salva dalla guerra. È costretto a entrare nell’esercito russo e si appropria del nome di un compagno ucciso per mettersi una volta di più al riparo dalle retate della polizia di Stalin. Con la nuova identità combatte i lunghi anni del secondo conflitto, lacerato dai tagli fatti alla sua vita di prima.

Sono le privazioni e le mutilazioni che subisce la sua identità a riempire le pagine. La sua vita, per lunghi anni privata della musica, ci viene raccontata dal narratore della storia, un uomo che recupera dal suo passato il ricordo dell’incontro col musicista avvenuto un quarto di secolo prima, attorno alla metà degli anni Settanta, in un faticoso viaggio in treno verso Mosca durante un inverno gelido: nella lunga attesa del treno alla stazione di una città imprecisata il compagno di viaggio suona al pianoforte una musica meravigliosa, quando il treno parte può iniziare il racconto della sua vita.

Il libro è costruito col discorso indiretto: Aleksej, il musicista, non prende la parola, il narratore senza nome assume il compito di riportare a noi le sue parole. La narrazione, così amplificata tra i ricordi di chi racconta e i ricordi di chi si racconta, finisce per dare spessore e attrattiva al libro: le mie attese sono soddisfatte da questa e da altre coordinate su cui si dipana la storia.

Prendiamo le pagine che descrivono i momenti della guerra, quando Aleksej sotto falso nome combatte nell’esercito russo contro i Tedeschi e impara che “in guerra la verità e la menzogna, la generosità o la durezza, l’intelligenza o l’ingenuità non erano così distinte come nella vita di prima”.

In marcia verso Mosca, dopo essere arrivato a combattere fino in Austria, Aleksej “in mezzo ai campi deserti e bianchi, in mezzo a tutta quella terra straziata dalla guerra, annusava l’aria, credendo di discernere come un breve alito di tepore. Percepiva che tutto ciò che gli restava della vita era concentrato in quel soffio tenuemente primaverile…e non nel suo corpo scheletrico che non sentiva nemmeno più le bruciature del vento”.

Parole così mi richiamano i momenti esiziali di ogni vita e mi ricordano le parole di Italo Calvino quando definisce i classici; non mi chiedo fino in fondo se questo libro lo sia, certo davanti a pagine così “ogni prima lettura è in realtà una rilettura”.

A guerra finita lo ritroviamo a Mosca, ora ha ventisette anni e conosce il grande amore, Stella, la figlia del generale Gavrilov, a cui egli continua a fare da autista. È un amore impossibile che lo vivifica e allo stesso tempo lo espone di nuovo al pericolo di essere scoperto come impostore perché porta un nome che non è il suo.

La musica lo tradisce: alla festa del suo fidanzamento Stella, che lo crede un principiante, lo invita a suonare una facile canzoncina al pianoforte e a quel punto Aleksej non potendo contenere la musica, che da anni è nascosta in lui, suona meravigliosamente, tra lo stupore generale.

Molti anni dopo, alla fine del viaggio in treno in compagnia del nostro narratore, egli confessa cosa gli è costato svelarsi: dieci anni in un campo di prigionia senza godere dell’amnistia concessa alla morte di Stalin, altri anni al confino nella Siberia orientale intervallati da alcuni viaggi clandestini a Mosca per ritrovare le proprie radici, un nuovo conseguente arresto e altri tre anni di prigionia scontati vicino al circolo polare in mezzo a un “inferno di neve”.

Proprio là ha appreso la morte dei suoi genitori, così a lungo cercati ma senza successo. Una vita così, direbbe il filosofo Aleksandr Zinoviev, rivela il carattere nazionale russo, è la vita dura che l’Homo sovieticus sopporta con stoica rassegnazione.

Arrivati nella immensa stazione ferroviaria di Mosca, proprio là “dove nulla di personale sembra potersi dire”, Aleksej confida di avere sempre seguito il destino di Stella, caduta in disgrazia nel periodo della destalinizzazione a causa del lavoro del marito e poi morta di cancro, lasciando un figlio di pochi anni. Confida di avere passato un po’ di soldi ogni mese per il mantenimento del bambino.

Ora egli non vuole lasciare il suo compagno di viaggio in balia della stazione, c’è una intera giornata di attesa prima della coincidenza che lo porterà a casa, presumibilmente a San Pietroburgo. Le ultime ore le trascorrono nella stessa stanza di hotel e infine a un concerto alla casa della cultura delle ferrovie.

Ecco che la musica conclude la storia con queste parole del narratore: “Mi volto verso Berg per porgergli il pieghevole del programma. Ma l’uomo sembra assente, le palpebre abbassate, il viso impassibile. Non è più là”.

L’ultima pagina rende più chiaro il senso della bella pagina iniziale, in cui il narratore sente suonare per la prima volta Aleksej alla stazione sconosciuta. E’ notte fonda, seguendo la musica egli ha lasciato la sala d’attesa intrisa di corpi dormienti e ha raggiunto al piano superiore lo sconosciuto pianista:

“un uomo, che vedo di profilo, è seduto davanti a un pianoforte a coda, una valigia dagli angoli nichelati accanto alla sedia…Una torcia elettrica, posata a sinistra della tastiera, gli illumina le mani. Le sue dita non hanno nulla a che vedere con le dita di un musicista. Grosse falangi ruvide, gibbose, coperte di rughe scure.

Queste dita si spostano sulla tastiera senza appoggiarvisi, segnano delle pause, si accalorano, accelerano la loro corsa silenziosa, si precipitano in una fuga febbrile, si sente il tocco delle unghie sul legno dei tasti.

All’apice di quel muto frastuono, una mano, non dominandosi più, si abbatte sulla tastiera, in un’esplosione di note. Vedo che l’uomo, divertito forse da questo cedimento, interrompe le sue scale inudibili e si lascia andare a qualche risatina soffocata, da vecchio monello. Alza perfino una mano e se la mette sulla bocca per trattenere quella specie di tossicchiare…Di colpo, capisco che piange”.

Il saggio di Calvino a cui faccio riferimento nel testo dà il titolo alla raccolta:

  • Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, 1991

Per leggere gli altri articoli di Vite di carta la rubrica quindicinale di Roberta Barbieri clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autrice

 

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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