Il ‘pancismo’, ritrovato della stagione politica che ha investito il paese, non è poi così tanto da esecrare, se, a detta del neurologo portoghese Antonio Damasio, emozione e ragione hanno entrambe origine e si interfacciano nella fucina del nostro corpo e del suo sistema nervoso alla ricerca continua di un equilibrio tra l’interno e l’esterno, tra il noi e il fuori di noi. Semmai dovremmo darci alle dottrine nirvaniche visto che il loro ispiratore in quanto a pancia non scherzava.
Ragionare delle nostre esistenze in termini sempre più biologici e sempre meno metafisici ci aiuta a prendere la misura e le distanze da noi stessi.
È che anche la cultura accumulata per generazioni non è poi tutto questo stupore, prodotto di geni irripetibili, visto che più della genialità e della creatività in quanto tali hanno influito miliardi di batteri e di microrganismi, i quali non ci rendono poi molto diversi dagli altri esseri viventi del pianeta, se non per il grado di coscienza e di sentire che noi umani abbiamo elaborato.
Avremmo bisogno di prenderci meno seriamente e più umanamente, vale a dire biologicamente, perché un giorno potremmo scoprire che le nostre grandi idee, le nostre grandi gesta politiche fino all’arte di governare la polis, altro non sono che il prodotto di ciò che abbiamo mangiato e di come abbiamo digerito. Eccolo lì il pancismo, e non c’è certo da stupirsi se poi furoreggiano le prove del cuoco, i programmi di cucina, i Fico e gli Eatitaly.
Finalmente la neurologia rende onore a Ludwig Andreas Feuerbach, coniatore dell’espressione “l’uomo è ciò che mangia”, la storia della filosofia mai aveva conosciuto un leitmotiv così carnale, relegando l’uomo alla sua corporeità.
Renderci più realistici, riportarci alla carne e al sangue, come fa con il suo ‘Lo strano ordine delle cose’ Antonio Damasio, non può che farci bene, aiutandoci a prendere le distanze dall’ontologia dello spirito per ritornare a quella della filogenesi.
Non siamo figli degli dei, ma più umilmente di batteri e di organismi unicellulari privi di mente e di cervello. Da loro abbiamo appreso i comportamenti che usiamo e abbiamo usato per confezionare le nostre culture, incluse le forme più avanzate di socialità e di cooperazione, l’inconscio di Freud e gli archetipi di Jung lì affondano le loro radici.
È scoprirci fragili, noi e la nostra cultura, non abbiamo spiriti guida e sacre scritture da seguire. Tutto ciò che produciamo è provvisorio, non è il frutto di astrazioni e pensieri superiori, ma, molto più terra a terra, dell’equilibrio tra il nostro corpo con i suoi visceri e il mondo che ci circonda.
È questa fragilità biologica che dovrebbe renderci più attenti, avvertirci dall’innamorarci troppo delle nostre idee, dallo spenderci in battaglie estenuanti tra equilibri, omeostasi, come le definisce Damasio, tra i noi corporei e la corporeità del mondo.
Non può più bastarci la cultura che fino a qui abbiamo narrato, la grande sfida che ci sta di fronte è riflettere su come elaboriamo la cultura, dalla cultura alla metacognizione, a come si produce la conoscenza e a come la si confeziona, sulla base di quali equilibri tra il noi e il fuori di noi. La relatività si estende alla biologia del corpo, dei sentimenti e della ragione.
Il difficile della nostra epoca non sta tanto nell’appropriarsi della cultura per via del moltiplicarsi dei luoghi della sua diffusione, ma piuttosto nell’accedere alla sua confezione, al controllo di come essa nasce e muore.
Ciò che noi chiamiamo cultura, la sua narrazione, percorre la strada della conoscenza, una strada che cambia ma non finisce mai. È importante non dimenticare che per questa strada non ci muoviamo solo con il pensiero come potevano pretendere le filosofie platoniche e aristoteliche, ma con tutto il nostro organismo che contiene un corpo, un sistema nervoso e una mente la quale deriva da entrambi. Pensare che tutto questo non costituisca la laboriosa fucina della nostra esistenza al mondo come bio organismi sarebbe davvero una grave distrazione.
Ma se i nostri pensieri e le nostre scelte sono il prodotto dell’operoso laboratorio chimico del nostro corpo e, oltre alla conoscenza, non possiamo più prescindere da come conosciamo, allora la spia rossa che si accende sul pancismo non è da sottovalutare, da relegare a fenomeno sociologico. Ci avverte della febbre, che il pancismo non è più solo un fenomeno, ma una grave malattia dalla quale urge curarsi.
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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
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(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
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