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Otto anni oggi. Metà mattina, arrivò la telefonata di un comune amico: è morto Stefano. Sono in riunione (niente di strano, le riunioni sono un mio destino). Mi alzo con il cellulare all’orecchio ed esco dalla stanza senza salutare, scendo le scale, accendo la macchina. Non ho bisogno di decidere dove andare, arrivo a Pontelagoscuro, salgo sull’argine. Sono sceso dall’auto, il telefono mollato sul sedile, e sono rimasto lì, fermo, a guardare quell’acqua marrone che portava via tutto.

Aspettavamo quella notizia, io e i suoi molti amici, da tanto tempo; nella sua Ferrara, a Bologna, la sua nuova città, e in tutti gli angoli di mondo dove aveva aggiunto volti, parole, progetti, numeri di telefono alla sua grossa agenda. Una morte annunciata da lui stesso: a tutti gli amici aveva raccontato subito di essere ammalato, di avere un cancro, di quelli brutti. Senza lacrime, senza perdere troppo tempo in quel racconto: c’era moltissimo altro da fare e pensare. Aveva un nuovo progetto di cui voleva parlarti, il commento sulla situazione politica italiana (allucinante), sul presente e futuro della Sinistra italiana (deprimente), e c’era un autore, un libro che aveva appena scoperto (devi assolutamente leggerlo), la voglia di capire il libro che avevi scoperto tu, e come va la tua cooperativa le pagine (stai facendo grandi cose). La cosa che stava cercando di scrivere lui e quella che stavi cercando di scrivere tu. La immancabile cronaca in differita dell’ultima partita dell’amatissima Spal (no, Stefano, la cronaca no, sai che sono un tifoso tiepidissimo). Le notizie incrociate sugli antichi amici persi di vista, spersi per il mondo e per la vita. E poi, sempre, tutte le volte che lo incrociavo, a Ferrara o a Bologna, dopo un abbraccio stretto, quel grosso fascio di ricordi da pescare dal pozzo della memoria.
Il pozzo era davvero profondo, sempre più fondo mentre ci allontanavamo, quasi senza accorgercene, dal prato verde della nostra giovinezza. Stefano e io, in quel prato verde stavamo seduti, vicini, dentro un grande cerchio di ragazzi e ragazze. A scuola, insieme alle lezioni, ai compiti in classe, ai proffe (Uno su dieci è perfino decente, ci puoi anche parlare), avevamo incontrato la passione e l’impegno politico.
Quel fuoco veniva da un Sessantotto che nessuno di noi aveva vissuto – eravamo quasi a metà degli anni Settanta – ma che qualche amico più grande, e anche qualche operaio del Fabbricone (già, c’erano anche gli operai) ci aveva raccontato per filo e per segno, bibliografia inclusa.
Quel fuoco ognuno lo portava anche a casa. Ricordo che fu allora che a mia madre, di buonissima famiglia ma anticonformista naturale, diedi il nomignolo di ‘Pasionaria’ (Dolores Ibarrubi per la storia), a lei parlavo degli nuovi amici, anche di quel Stefano Tassinari, poco più grande di me: “Stefano Tassinari? Ma certo, è il figlio della … era una mia amica da ragazza”. Così succede nella piccola Ferrara dove tutti si conoscono.

Stefano, io e tutto il gruppo (ci sentivamo in tantissimi: eravamo una piccolissima minoranza) stavamo dalla stessa parte, e naturalmente, siccome eravamo a sinistra del Grande Partito Comunista, eravamo in disaccordo su molte cose. Io appartenevo al gruppo del Manifesto che proprio allora figliava il micro-partito del Pdup, Stefano invece di Avanguardia Operaia. Fratelli? Cugini piuttosto; che tentarono anche un matrimonio (Democrazia Proletaria si chiamava il nuovo partito, lo dico per i ragazzi di oggi: a patto che non si mettano a ridere), ma fu un unione di poca fama e scarso successo.
Ma insomma, nessuno di noi due era o voleva diventare un politico, forse proprio a causa di quella ‘passione per la politica’ che ci animava.  Finita in un lampo la galassia extraparlamentare, fummo noi ad abbandonare la militanza (allora quella parola non suonava così male) e ‘la vita di partito’. Io subito, lui poco dopo di me. Ci interessavano altre cose, e in questo eravamo finalmente d’accordo: i libri, la letteratura,  leggere e scrivere. Di questo parlavamo, per ore, quando ci incontravamo e ci sentivamo al telefono.
Non era però ‘a Cultura per la Cultura’, la cultura acquistava un senso, una direzione, un movimento vitale, solo se era mischiata con le persone, il sociale, l’impegno contro il pensiero dominante e per un mondo giusto. Di questo abbiamo continuato a parlare, di questo abbiamo provato a scrivere. Stefano, molto meglio di me, con più coerenza, con più cocciutaggine.

Aveva letto, visto, capito, forse anche vissuto, molte più cose di me. E molto mi ha insegnato. Ma la sua personale lezione, almeno cosi io l’ho intesa, stava nella sua vita, Nel suo atteggiamento, nella curiosità di tutto e tutti, nell’ascolto che lui riusciva a dare alle persone. Stefano non parlava mai da un punto più elevato dal luogo dove ti trovavi tu, era sempre al tuo livello, di fianco, di fronte a te. O nella circonferenza del cerchio, mai al centro, quando era insieme a tanti. Neppure sul palco del teatro gli riusciva di parlare ex cathedra.
Gli spettacoli che per anni ha ideato e messo in scena a teatro, un progetto-laboratorio a cui teneva tanto e che ha portato avanti fino all’ultimo, erano anche essi il frutto di un lavoro collettivo. Un esperimento ambizioso e riuscito: leggere la storia dall’altro verso, smontando le bugie mainstream, svelando il non detto, tirando fuori la polvere che il Pensiero Unico (il capitalismo, lo Stato omertoso, i poteri forti) avevano nascosto sotto il tappeto della storia ufficiale. Lo stesso intento, lo stesso programma, Stefano lo metteva nei tanti campi in cui era impegnato: nei saggi come nei romanzi e nei suoi racconti, nella rivista che aveva fondato inseme ad alcuni amici bolognesi, nel lavoro teatrale con un piccola e affiatata squadra di musicisti, attori e videomakers.
Non era mai solo Stefano. Si sentiva vivo, sentiva di avere un significato, solo dentro un movimento più grande, un progetto, una passione collettiva. La gloria personale? Avrebbe risposto: Che miseria, che piccola cosa, e soprattutto: Che noia! Le cose, o le facevi insieme, o il gusto svaniva. Ridotto in due righe, era questo ‘il modo di far politica’ che Stefano ha applicato alla sua vita.

Ricordo, ma ci vorrebbe un’altra pagina bianca da scrivere, l’unico viaggio fatto insieme. Più di trent’anni fa. A fine inverno, stipati in quattro in una macchina poco più che presentabile, ma che a piedi non ci lasciò. Ferrara Vienna andata e ritorno, tre giorni e due notti: ostello della gioventù, ma tanto è vietato dormire. Il castello del Belvedere, Klimt, La Secessione, la collina dello Steinhoff, una interminabile e inconclusa discussione sulla Finis Austriae, un’altra su Thomas Bernhard.
Partiamo da Ferrara verso le dieci di sera, con l’idea di cambiarci alla guida e arrivare a Vienna nell’ora dell’alba. Una luna enorme illumina il nostro viaggio. Passiamo il confine italiano, decidiamo di evitare le autostrade, guidiamo piano dentro boschi e prati gelati dalla brina. Passiamo una curva a gomito e una famiglia di cervi sta attraversando la strada. Lentamente. Regalmente. Due adulti e un cucciolo. Si fermano, abbagliati dai fari, e anche noi ci fermiamo, spegniamo il motore e scendiamo dall’auto. Guardiamo i cervi e i cervi guardano noi, in un silenzio perfetto, la luna esattamente sopra le nostre teste. Siamo alla fine dell’inverno e c’è per terra qualche macchia di neve, Stefano si abbottona il giaccone, mi avvolge le spalle con un braccio.

A marzo del 2012, meno di due mesi prima della sua morte, era uscito allegato al Sole 24 ore un libriccino  con gli ultimi scritti inediti di Dino Buzzati con il titolo Il reggimento parte all’alba. Scrittore di metafore, l’autore milanese, malato di cancro, era vicino alla morte: ne aveva estratta dal suo catalogo una molto esplicita. Le ultime settimane Stefano stava molto male, non so se dal letto d’ospedale abbia avuto la forza o il tempo per leggere quelle magnifiche e durissime pagine. Ma Stefano aveva scelto proprio Dino Buzzati nel 2010 per chiudere la sua rassegna teatrale e multimediale Raccontando. Dino Buzzati era un conservatore, Stefano Tassinari un comunista. Stefano aveva il cancro come Dino Buzzati e sapeva anche di essere come lui vicino al suo epilogo, credo però che la scelta di Stefano rispondesse ad altro, al riconoscimento della grande arte di Dino Buzzati, tutta intessuta di quell’intimo rovello: ‘sollevare il tappeto’ per raccontare cosa c’è laggiù, in fondo, dentro gli uomini.

Nell’estate del 1971, con già in mano l’ordine di partenza, Dino Buzzati scrive: “L’avviso arriva tutti, con maggiore o minore anticipo, che talora è di ore, o di giorni, talora è di mesi o addirittura di anni: eccezioni non ne esistono. Senonché quasi nessuno se ne rende conto. Questo perché nella maggioranza dei casi l’annunzio non consiste in un modulo esplicito come la chiamata alle armi bensì in piccoli segni che facilmente si possono scambiare per fenomeni casuali e del tutto indifferenti. Ma soprattutto perché gli uomini ripugnano selvaggiamente all’idea del loro fatale destino”. Al suo di destino, in vita e all’appuntamento finale, Stefano è andato incontro a mani vuote, aveva solo due cose in tasca, due oggetti preziosi, nella tasca destra la coerenza, in quella sinistra la passione. Spero che Stefano non se le sia portate tutte con sé, perché da questa parte del tappeto ne vedo sempre meno. Poco nelle strade e nelle piazze, zero nei partiti e nei politici di mestiere.

Tutte queste, troppe, parole, per dire quante cose ho imparato da Stefano. Un amico così diverso da me, da come sono fatto io. Ma succede proprio così, o almeno a me così è successo: non è dal simile che impari qualcosa. E’ dagli ‘amici diversi’ che impari di più. Ma impari cosa? A fare cosa? A guardare, a vedere le cose che prima non vedevi. A vivere.  Oh, quanto mi manchi amico mio.

C’è un bellissimo sito a lui dedicato, messo insieme pezzo per pezzo dai suoi amici. Raccoglie un numero incredibile di scritti, documenti visivi, progetti, testimonianze, forse un decimo di quello che Stefano ha sognato di fare e ha fatto nella sua vita operosa, un centesimo della persona che è stato e che tanti hanno avuto modo di conoscere. Il sito è bellissimo, con in cima la sua firma in rosso. Se volete visitarlo lo trovate[Qui]

La foto di copertina è di Luca Gavagna, le tre foto nel testo di Raffaella Cavalieri. Un grazie ad entrambi.

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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