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Il calcio è moribondo. Ma a morire saranno sempre gli stessi.

Il calcio è in coma da alcuni decenni, perché al suo interno aveva i semi della propria autodistruzione, citando Carlo Marx – ma potrebbe essere anche Carlo Petrini. In effetti l’ex sport più bello del mondo è davvero una rappresentazione della nostra società malata, che parte come commedia, si tramuta in farsa, per divenire tragedia (citazione rovesciata). Ormai la serie A, la Liga, Ligue 1, la Premier, sono proto spettacoli per appassionati e appassiti da divano. Gli stadi di proprietà? Non più popolari nemmeno nei popolari, in curve con prezzi spesso inaccessibili. Un mondo patinato, dove forse anche io, a vent’anni e un buon procuratore, sarei costato una milionata, perché chi è quello sfigato che guadagna meno di un numero a sei cifre. Certo esistono le serie minori, dove i poveri se la giocano tra loro, anche se magari un qualche “americano” lo abbiamo pure in serie C.

Adesso arrivano i petrol-dollari Gli arabi, stanchi di acquistare squadre nel vecchio continente, portano il vecchio continente nei loro deserti, comprando campioni al crepuscolo e facendoli esibire in stadi con l’aria refrigerata.

E in Italia, provincia dell’impero calcistico (al tramonto) vecchio continente, come va? Scuole calcio con bimbi di dieci anni che hanno il procuratore, ragazzini quindicenni che ambiscono alla serie A, diciottenni che esigono il posto in squadra. Un mondo di pazzi.

Nessuno di questi ragazzi ha mai giocato in strada, tra le macchine, nei cortili chiusi su tre lati, in parchetti affollati tra i palazzoni, dove si imparava la legge della sopravvivenza, dove il calcio era operaio, classista all’incontrario e violento. Non c’erano palestre, mister patentati, accompagnatori e genitori che pretendevano la maglia per il loro pupillo.

Oggi, bambini con la maglia numero dieci diventano genitori dei loro genitori.

Il capitalismo sfrenato, feroce, compulsivo, distruttivo, fagocita ogni passione: il business, il target, plus valore, plus valenze, si nutre di quella sfera che ci ha stregati fin da bambini.

Un mondo di deroghe e contro deroghe, dove il valore ed il prezzo non coincidono più, dove ragazzi in braghini corti fatturano come una s.p.a. metalmeccanica che dà lavoro a centinaia di persone, sport? Ma quale sport? Fondamentalmente, un enorme giro di carta.

Società storiche del calcio mondiale con debiti inenarrabili, miliardi di profondo rosso, che in qualche modo se la cavano sempre, mentre ad un artigiano o ad un commerciante in difficoltà lo Stato stesso da il colpo di grazia.

Sacrifici, allenamenti, macchinari che gestiscono ogni fibra muscolare, culturisti che giocano al calcio. Dei mostri.

Schemi, tattiche, tattici, computer, analisti. Il calcio di oggi non è paragonabile a quello di quaranta anni fa, certo che no, allora esisteva la fantasia, esistevano atleti magri con lo zucchero nelle scarpette.

Che valore avrebbero oggi, i ragazzi di ieri? Edson Arantes Do Nascimento, Maradona, Eusebio, Artur Antunes de Coimbra, Crujiff, Puskas, Platini, Falcao, Rivera, Mazzola (padre e figlio), Baggio, Van Basten, Gullit, Totti, Del Piero e mille altri, quanto sarebbero monetizzati con il metro odierno? Come il P.I.L. del Belgio?

Nauseante, ma questo paradigma della società odierna esploderà, così come il capitale. Forse. A terra rimarranno però sempre gli stessi, quelli morti in guerra, quelli morti in fabbrica, i morti di fame, i morti ammazzati dai padroni del vapore, uguali tra loro nella conta dei dollari. Loro, i soliti, moriranno di sicuro, come sempre. Il puzzo dell’avidità ha ammorbato tutto, compreso il mio gioco, quello dove bastava una maglia bianca e un numero scritto col pennarello nero sulla schiena, per essere un giocatore.

Forza, vecchio cuore biancoazzurro.

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Cristiano Mazzoni

Cristiano Mazzoni è nato in una borgata di Ferrara, nell’autunno caldo del 1969. Ha scritto qualche libro ma non è scrittore, compone parole in colonna ma non è poeta, collabora con alcune testate ma non è giornalista. E’ impiegato metalmeccanico e tifoso della Spal.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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