Giorno: 26 Giugno 2021

DUE TESORI
Fuga verso Oriente

 

A volte capita di scoprire un tesoro. Per un colpo di fortuna o per un’improvvisa intuizione. Può anche essere un oggetto che rappresenta un ricordo significativo o un  banale oggetto che, con il tempo, diventa sempre più importante per chi lo possiede. E questo accade quando quello che si è scoperto lascia un segno profondo nell’animo.
A me è capitato casualmente di trovare due tesori. Si tratta di due libri di viaggio, preziosi anche solo per le introduzioni scritte da due grandi viaggiatori: Tiziano Terzani e Paolo Rumiz.

Durante la prima fase della pandemia, costretta come tanti dalle limitazioni e dall’isolamento a reprimere un profondo desiderio di viaggiare, avevo preso in prestito nella Biblioteca Cornelia di Roma un libro di Einaudi, oggi introvabile nelle librerie: Il giardino luminoso del re angelo di Peter Levi. Ne avevo intuito il valore potenziale e l’aura di mistero, anche grazie al sottotitolo Un viaggio in Afghanistan con Bruce Chatwin, con la prefazione di Terzani. L’autore, Peter Levi, un giovane gesuita di origine ebraica nonché poeta, con il bagaglio di una cultura smisurata, alla fine degli anni ’60 decide di intraprendere un viaggio in Afghanistan con il suo amico Chatwin. Li lega la passione per l’archeologia e la capacità di entrare “nell’anima dei posti, dei popoli, delle culture altrui”.
Un progetto simile non poteva accettare i limiti temporali e organizzativi fissati da un’agenzia di viaggio. Bisognava essere disposti a sopportare la fame, la sete, il caldo, il freddo, le intemperie, gli imprevisti, le complicazioni burocratiche e a farsi massacrare dalle zanzare, dalle cimici e dalle pulci. Gli ‘hotel’, presenti più che altro nei centri di una certa importanza, erano stati concepiti per commercianti e l’apertura al turismo era solo un’ipotesi.

Un turismo ancora più ipotetico è quello raccontato dall’altro illuminante libro di uno svizzero di lingua francese, Nicolas Bouvier: La polvere del mondo, edito da Feltrinelli, con la prefazione di Paolo Rumiz. Bouvier nei primi anni ’50 decide di partire dalla Svizzera con un suo amico, pittore e fisarmonicista, a bordo di una Fiat Topolino e di attraversare i Balcani, la Grecia, la Turchia, l’Iran, l’Afghanistan, il Pakistan fino in India. Cercando, per mantenersi, di vendere quadri dipinti sul posto, articoli per giornali e riviste o tenendo conferenze. Anche in questo caso bisognava essere disposti a sacrifici fisici, ma principalmente essere pronti a capire che “la virtù di un viaggio è di purgare la vita prima di riempirla” e che bisogna privarsi “di ogni lusso eccetto il più prezioso: la lentezza”.
E così Bouvier e il suo amico Thierry Vernet, per svernare, decidono di concedersi lunghe soste anche di mesi, come a Belgrado e a Tabriz, in Iran, per poi affrontare il resto del viaggio in condizioni migliori. O per far riparare l’auto da meccanici tanto improvvisati quanto geniali, capaci di smontare camion per creare pezzi di ricambio da vecchie lamiere o altri arnesi di metallo, in mancanza di autentici ricambi occidentali, impossibili da trovare. Perché quello che manca, o almeno mancava in quei luoghi, era la tecnologia occidentale: quella gente non aveva “ occhi che per i motori, i rubinetti, gli altoparlanti e le comodità”. Invece Bouvier e il suo amico volevano “uscire dal vicolo cieco” della troppa tecnologia, “da quella sensibilità saturata dall’Informazione, da quella Cultura distratta, ‘di seconda mano’. Noi contiamo sulle loro ricette per rivivere, loro sulle nostre per vivere.”  Difficile non pensare, oggi, al numero crescente di migranti ridotti alla fame ma disposti anche a morire, attratti da possibili, migliori condizioni di vita che l’occidente tecnologico potrebbe offrire loro.

Le strade. Negli anni ’50 in quei paesi non c’erano strade come noi oggi le conosciamo, ma piuttosto piste, carreggiate, percorse per millenni da popoli antichi, nomadi, pastori, conquistatori, invasori o commercianti e, all’epoca, percorse da rari camion variopinti che, a volte, incrociando una piccola auto in panne, spinta da due giovani, la salutavano col clacson e si fermavano per offrire mele, sigarette o nocciole e fare due chiacchiere. Come prevedere la durata del viaggio in paesi dove non esisteva la concezione occidentale del tempo e delle distanze…  In quelle strade ciò che era degno di importanza, e dunque di segnalazione,  era il passaggio alla ‘civiltà,’ – un ‘hic sunt leones’ al contrario –  e allora  ecco apparire un cartello con su scritto “Qui strada asfaltata”, prima di entrare a Quetta, in Afghanistan.

Quetta, “città sparsa, leggera come un sogno, piena di pause, di imponderabili cianfrusaglie e di frutti acquosi”.  Città dove si potevano trovare “negozi dalle dimensioni di un armadio che vendevano zucchero di canna, sapone, una manciata di albicocche posate sopra della carta stagnola, oroscopi e piccoli sigari”.
E chissà se nel bazar di Herat c’è ancora una bottega con dentro “un polveroso dromedario con i paraocchi che fa girare un grande frantoio da olio pieno di semi di sesamo” (Levi). O se esistono ancora dei vecchi cantori ciechi che salmodiano il Corano guidati da ragazzi…

Solo con un lungo viaggio si poteva riuscire ad entrare nel fascino e nel mistero, oltre che dei luoghi, anche del caleidoscopio delle persone: abitanti di luoghi prescelti da molte civiltà, che si sono incontrate e si sono combattute, per poi inevitabilmente fondersi.
Non è un caso che persone come Alessandro Magno, Marco Polo, Robert Byron, Bruce Chatwin e Tiziano Terzani, tanto per citarne alcuni più o meno famosi, hanno deciso di percorrere questi luoghi, che affondano le loro radici nella storia dell’umanità. Da qui la presenza di numerosi siti archeologici e di antichi monumenti achemenidi e sassanidi, resti dell’arte timuride e safavide, siti Kushana, nonché greci.

Una delle ragioni che ha spinto Levi a visitare l’Afghanistan, l’antica Battriana, è stata la ricerca delle tracce della civiltà greca nel nord del paese, lasciate dall’esercito di Alessandro Magno nella conquista dell’impero Persiano e di nuove terre. Alessandro si era spinto sempre più a oriente fino nella valle dell’Indo, considerata allora l’ultimo confine del mondo. Numerosi siti conservano i segni architettonici e linguistici lasciati dai macedoni, poi ripresi da altre civiltà e altre culture.

Alessandro Magno aveva costruito in pochi anni il più grande impero mai apparso nella storia dell’umanità e aveva voluto che fosse patria cosmopolita di tutte le genti del mondo. Come Balkh, città importante prima di Alessandro e della civiltà persiana, non avamposto militare, ma ricca città mercantile, “luogo di incontro unico per popoli e culture”. La città venne poi rasa completamente al suolo da Gengis Khan nel 1220 e i suoi abitanti massacrati. Alessandro conquistò anche Herat, Kandahar e Ghazni, “città islamiche con resti buddhisti di epoca kushana su vestigia greche e probabilmente anteriori. Tutti questi luoghi avevano ospitato colonie ebraiche almeno nell’alto medioevo”.

Levi si sofferma anche nel Wachan, regione all’estremo nord est del paese, corridoio di terra attraversato da antichissime piste commerciali che si protende verso la Cina. Questa striscia di terra, con montagne e valichi altissimi, sotto la catena del Pamir, fu creata alla fine del XIX secolo dagli inglesi per proteggere il loro impero da possibili mire russe verso l’India. Probabilmente non pochi soldati macedoni decisero di restare lì, come nel Nuristan e in altre regioni dell’Afghanistan, e di fondersi con la popolazione locale. A volte è capitato a Levi e Chatwin di incontrare bambini con occhi azzurri e capelli biondi, possibili tracce di questo antico incontro tra popoli così lontani.

Purtroppo diversi decenni di occupazioni e guerre e la devastazione pressoché sistematica dei musei e dei siti archeologici da parte del radicalismo islamico hanno lasciato un segno indelebile. Noi, lettori contemporanei, dobbiamo accontentarci di rivivere il fascino e la magia di queste civiltà attraverso le immagini e il racconto di libri preziosi come questi. Non c’è internet, TV, social o altro che possano competere con la bellezza e la profondità che ci può riservare la lettura. Devo ringraziare, per questo, la Biblioteca Cornelia di Roma per avermi offerto il dono della lettura del libro di Levi.

In copertina: Enrica Prosperi, tecnica mista, Petra

PRESTO DI MATTINA
Francesco, “pastore degli sguardi”

 

Cerco il tuo felice volto,
Ed i miei occhi in me null’altro vedano
(Ungaretti, Vita d’uomo, 206).

A questo ermetico verso, che ci ricorda come il linguaggio degli occhi sia il più istantaneo, ‘primordiale’, nel riflettere l’altro e il suo mistero, è sembrato a me fargli eco un’espressione non meno ermetica e profonda, «Nei tuoi occhi è la mia parola», di quel “pastore degli sguardi” che è papa Francesco, specie quando sollecita la chiesa ad essere capace di tessere sguardi di attenzione, di prossimità e tenerezza. Egli infatti è convinto che «lo sguardo di Gesù ridoni dignità ad ogni sguardo. Gesù li aveva guardati e quello sguardo su di loro è stato come un “soffio sulla brace”; hanno sentito che c’era “fuoco dentro” e hanno anche sperimentato che Gesù li faceva salire, li innalzava, li riportava alla dignità», (Santa Marta, 21/09/2013).

E lo sguardo d’altri poi.

Dai loro occhi silenziosi scaturiscono parole nuove, vere. Un incontro di sguardi che fa rinascere le nostre parole logore; che feconda le nostre parole sterili, ripetitive, senza gioia, rendendole parole di affezione, prossimità e condivisione: e dunque credibili per annunciare la gioia del vangelo. Lo stesso che si cela nello sguardo altrui: un vangelo nascosto dentro la vita degli altri, come un tesoro nascosto una perla preziosa, dal quale occorre lasciarsi evangelizzare.

Uno sguardo evangelico lo riconosci subito. Non è uno sguardo anonimo: vive in relazione all’altro, da persona a persona, tramite sguardi di reciprocità, che si voltano quando chiamati per nome. Da loro passa la grazia e il mistero della Parola e delle parole nostre, quelle capaci di generare. Non per caso Nei tuoi occhi è la mia parola è il titolo di un libro che raccoglie le omelie di Bergoglio quando era vescovo a Buenos Aires. Ed esprime l’attenzione di papa Francesco a cercare negli occhi dell’altro le parole da rivolgergli, affinché esse ne riflettano la realtà e non già l’idea che abbiamo di lui. Più grande dell’idea che abbiamo di lui, infatti, è la realtà che parla attraverso i suoi occhi.

Questo sguardo inclusivo, che alimenta e trattiene la presenza dell’altro dentro di noi, è capace di generare parole così autentiche da diventare ‘preghiera di intercessione‘. Tanto che, anche quando non hai più l’altro davanti agli occhi, o perché egli e lontano, o perchè non lo vedi da tanto tempo, quelle parole ne ricordano la presenza accanto a te. Quando chiudi gli occhi nella preghiera, come se chiudessi, evangelicamente, la porta della tua stanza, si apre uno sguardo interiore, che continua a vedere i luoghi, i volti, gli sguardi; a sentire le parole di coloro che hai incontrato nel tempo e nello spazio. E proprio lì non si è più soli, ma vi è anche il Padre tuo che vede nel segreto ed ascolta. L’intercessione, in tutte le sue molteplici forme ed espressioni, situa te e gli altri nella sorgente della preghiera di Gesù al Padre – nei tuoi occhi di Padre le parole mie – e quelle ascoltate fermandosi con le persone incontrate lungo la via.

Durante la discussione sul documento finale di Aparecida alcuni vescovi volevano inserire all’inizio del primo capitolo l’espressione “con uno sguardo crudo sulla realtà”. Fu invece approvata la mozione di Bergoglio che sottolineava la dimensione contemplativa del discepolo missionario di fronte al mondo. Quello che non affronta in modo anonimo la realtà, che si affida a uno sguardo generalizzato privo d’anima e di relazionalità con i volti e persone reali e situazioni concrete, ma ascolta  nel profondo le narrazioni delle storie di ciascuno.

Lo sguardo della fede è sguardo in relazione, che nasce dalla contemplazione. Cresce ogni volta contemplando la Parola e praticandola nell’intreccio, o meglio nell’abbraccio con le parole altrui. Contemplativa e poetica insieme, la parola della fede si origina negli occhi del vangelo e si incarna nelle parole e negli sguardi della gente per poter “vedere”, “discernere” ed “agire” nella realtà, nella storia, aprendo strade per la condivisione dell’annuncio.

«Lo sguardo che voglio condividere con voi è quello di un pastore che cerca di approfondire la propria esperienza di credente, di uomo che crede che “Dio vive nella propria città”. Perché lo sguardo di fede scopre e crea la città. Le immagini del Vangelo che più mi piacciono sono quelle che mostrano ciò che Gesù suscita nella gente quando la incontra per la strada. Lo sguardo della fede ci porta ad uscire ogni giorno e sempre di più all’incontro del prossimo che vive nella città. Ci porta ad uscire all’incontro, perché questo sguardo si alimenta nella vicinanza. Non tollera la distanza, perché sente che la distanza sfuma ciò che desidera vedere; e la fede vuole vedere per servire e amare, non per constatare o dominare. Uscendo per strada, la fede limita l’avidità dello sguardo dominatore e aiuta ogni prossimo concreto, al quale guarda con desiderio di servire, a focalizzare meglio il suo “oggetto proprio e amato”, che è Gesù Cristo fatto carne».

Lo sguardo della fede che spera «non discrimina né relativizza perché è misericordioso. La misericordia crea la maggiore vicinanza, che è quella dei volti e, poiché vuole davvero aiutare, cerca la verità che più fa male – quella del peccato – ma per incontrare il vero rimedio. Questo sguardo è personale e comunitario. Si traduce in agenda, segna tempi più lenti di quelli delle cose (avvicinarsi ad un ammalato richiede tempo) e genera strutture accoglienti e non repulsive, cosa che esige anch’essa del tempo».

Lo sguardo della fede che ama «non discrimina né relativizza perché è sguardo d’amicizia. Gli amici si accettano così come sono e gli si dice la verità. È anche questo uno sguardo comunitario. Porta ad accompagnare, a riunire, ad essere qualcuno in più al fianco degli altri cittadini. Questo sguardo è la base dell’amicizia sociale, del rispetto delle differenze, non solo economiche, ma anche ideologiche. È anche la base di tutto il lavoro del volontariato. Non si può aiutare chi è escluso se non si creano comunità inclusive. Lo sguardo dell’amore non discrimina né relativizza perché è creativo», (Incornare Dio nella città, Omelia, 2011).

Papa Francesco riprenderà questo tema anche nell’Esortazione Evangelii gaudium del 2013: «In una civiltà paradossalmente ferita dall’anonimato e, al tempo stesso, ossessionata per i dettagli della vita degli altri, spudoratamente malata di curiosità morbosa, la Chiesa ha bisogno di uno sguardo di vicinanza per contemplare, commuoversi e fermarsi davanti all’altro tutte le volte che sia necessario, per rendere presente la fragranza della presenza vicina di Gesù ed il suo sguardo personale».

“Arte dell’accompagnamento”, la chiama Francesco nello stile di Mosè che si toglie i sandali di fronte a quel roveto ardente, che è ogni persona. Uno sguardo, dunque, «rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo che sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana», (EG 169).

Così Francesco riconosce ammirato come innumerevoli siano le risorse offerte dal Signore e i carismi suscitati dallo Spirito, per dialogare con il suo popolo e renderlo partecipe della missione e del Regno: «Credo che il segreto si nasconda in quello sguardo di Gesù verso il popolo, al di là delle sue debolezze e cadute: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32); Gesù predica con quello spirito. Benedice ricolmo di gioia nello Spirito il Padre che attrae i piccoli. Il Signore si compiace veramente nel dialogare con il suo popolo e il predicatore deve far percepire questo piacere del Signore alla sua gente» (EG 141).

A una chiesa in stile sinodale e in riforma missionaria Francesco chiede anzitutto una “conversione dello sguardo”, capace dire sì alla realtà e riconoscerla come più importante dell’idea. Sì al tempo come superiore allo spazio. Sì all’unità che non si rassegna alle divisioni, ma cerca vie per ricomporre i conflitti. Sì alle diversità sapendo che le parti formano e vivono nell’orizzonte e nell’interesse del tutto che è superiore alle parti, il bene comune al di sopra degli interessi di parte.

Alla conclusione del Sinodo sulla famiglia nel 2015, che ha determinato una discussione libera tra i vescovi e per questo non priva di contrasti e conflittualità, è seguita l’esortazione di Francesco Amoris laetitia del 2016. Che si prefigge di portare avanti un processo di riforma pastorale capace di guardare con realismo alla situazione delle famiglie nel mondo attuale, così da ridare ai pastori uno sguardo e tempi lunghi per continuare ad approfondire con libertà le questioni ancora aperte. Nel documento si chiede una “conversione dello sguardo” sulle abitudini familiari, sulla dottrina matrimoniale, sul conseguente agire pastorale. Lo stile di questo discernimento è all’apparenza molto semplice: occorrerebbe adottare lo stesso sguardo che Gesù riservava alle persone che incontrava in Palestina. Ma farlo con coerenza è tutt’altro che semplice, esigendo una conversione del cuore e della vita al vangelo.

Anche per il recente sinodo regionale Pan-amazzonico del 2019, l’esortazione apostolica di Francesco, Querida Amazonia del 2020 [Qui] riprende lo stesso stile aperto, proprio di chi è consapevole di esser di fronte a un processo di coscientizzazione delle questioni problematiche emerse. La sua è un’esortazione, che incoraggia a proseguire un cammino. Non si pone come chiusura del documento finale dei vescovi, quasi fosse l’ultima parola, ma si mette accanto ad esso. È lo sguardo del Papa sull’Amazzonia, che si unisce ad altri sguardi anche non coincidenti.

Scrive: «Tanti drammi sono stati legati ad una falsa “mistica amazzonica”. È noto infatti che dagli ultimi decenni del secolo scorso l’Amazzonia è stata presentata come un enorme spazio vuoto da occupare, come una ricchezza grezza da elaborare, come un’immensità selvaggia da addomesticare. Tutto ciò con uno sguardo che non riconosce i diritti dei popoli originari o semplicemente li ignora, come se non esistessero, o come se le terre in cui abitano non appartenessero a loro. Persino nei programmi educativi per bambini e giovani, gli indigeni sono stati visti come intrusi o usurpatori. La loro vita, i loro desideri, il loro modo di lottare e di sopravvivere non interessavano, e li si considerava più come un ostacolo di cui liberarsi che come esseri umani con la medesima dignità di chiunque altro e con diritti acquisiti», (QA 12).

Francesco invita così ad una mistica degli sguardi e delle relazioni che faccia entrare nei propri occhi il mistero di Dio rivelato negli occhi dell’altro. In contemplazione dei volti delle persone concrete, che incontriamo ogni giorno. Esorta al senso della contemplazione che per lui è senso “sinodico”, che cammina insieme e insieme si intona “sintonico al senso della poesia.

«Poesia: intendendo con questa bella parola proprio il senso della contemplazione, del fermarsi e donarsi un momento di apertura verso se stessi e gli altri nel segno della gratuità, del puro disinteresse. Senza quel “di più” della poesia, senza questo dono, senza la gratuità, non può nascere un vero incontro, né una comunicazione propriamente umana. Gli uomini “comunicano” non solo perché si scambiano informazioni, ma perché provano a costruire una comunione. Le parole devono essere quindi come dei ponti gettati per avvicinare le diverse posizioni, per creare un terreno comune, un luogo di incontro, di confronto e di crescita». In Fratelli tutti si afferma la possibilità di un cammino di pace tra le religioni perché «il punto di partenza dev’essere lo sguardo di Dio. Perché Dio non guarda con gli occhi, Dio guarda con il cuore» (FT 281).

Nello sguardo poetico e contemplativo di papa Francesco, la profezia del Regno e la realtà storica devono nuovamente incontrarsi come narra il salmo 85: «La sua salvezza è vicina a chi lo teme e la sua gloria abiterà la nostra terra. Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno». L’incontro inizia sempre di nuovo quando donne e uomini alzano lo sguardo per vedersi l’uno nell’altro.

Querida Amazonia ha anche inserito nel testo parole di poeti e scrittori; Francesco è convinto che l’arte della parola poetica abbia la capacità di comunicare una più alta visione del reale. «Le parole devono divenire come dei ponti gettati per avvicinare le diverse posizioni, per creare un terreno comune, un luogo di incontro, di confronto e di crescita», (Nei tuoi occhi è la mia parola, Rizzoli Milano 2016).

Dove abitò la tortura

Molti sono gli alberi
dove abitò la tortura
e vasti i boschi
comprati tra mille uccisioni.
(Ana Varela Tafur, Timareo, in Lo que no veo en visiones, Lima 1992)

Esiliano i pappagalli

I mercanti di legname hanno parlamentari
e la nostra Amazzonia non ha chi la difenda […].
Esiliano i pappagalli e le scimmie […]
Non sarà più la stessa la raccolta delle castagne.
(Jorge Vega Márquez, Amazonia solitária, in Poesía obrera, Cobija-Pando-Bolivia 2009).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Letture estive: gli appuntamenti di luglio con il Microfestival delle storie

 

In attesa dell’evento in presenza con Massimo Carlotto domenica 27 giugno alle 21 nel parco di villa Morosini a Polesella, e prima della pausa estiva, il Microfestival delle storie propone un calendario di presentazioni ancora online per il mese di luglio, sempre alle 21.

Giovedì 1 luglio Roberto Venturini presenta L’anno che a Roma fu due volte Natale, edizioni Sem, romanzo che è stato tra i candidati al premio Strega. Roberto Venturini sarà intervistato da Riccarda Dalbuoni.

Lunedì 5 luglio, Leonardo Raito dialoga con Domenico Ippolito, autore di L’ultima primavera del secolo, Aporema edizioni. Gli ultimi due eventi del mese saranno per il ciclo MicroNerofestival con interviste a cura di Consuelo Pavani:

giovedì 15 luglio alle 21 Marina Visentin con Cuore di rabbia, Sem edizioni;

martedì 27 luglio alle 21 Patrizia Zappa Mulas con L’ombra di Nora, Sem edizioni.

Le dirette delle interviste saranno trasmesse sulla pagina facebook del Microfestival delle storie e di Ferraraitalia.

Vicenda biblioteche, 25 giugno: l’assessore ha promesso un incontro…

 

Nella mattinata di oggi (25 giugno 2021) una delegazione del Gruppo Cittadine e cittadini a difesa delle biblioteche pubbliche si è recato presso l’ufficio dell’assessore alla cultura Gulinelli per sollecitare la ripresa del confronto sul futuro del sistema bibliotecario cittadino.
Si è svolto un breve colloquio tra la suddetta delegazione e l’assessore, al termine del quale l’assessore Gulinelli si è impegnato a convocare un incontro con il Gruppo cittadine e cittadini a difesa delle biblioteche pubbliche nell’arco di una decina di giorni.

Andremo a tale appuntamento con l’intenzione di esporre la proposta da noi elaborata e con l’auspicio che l’Amministrazione dia vita ad un reale Tavolo partecipativo e che solo al termine dei lavori dello stesso si proceda alle decisioni relative al futuro del sistema bibliotecario cittadino.

GRUPPO CITTADINE E CITTADINI A DIFESA DELLE BIBLIOTECHE PUBBLICHE

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