Un marchio storico, un nuovo inizio: è la nuova stagione di Vayra 1905 azienda ferrarese specializzata nella realizzazione di prodotti per la gelateria e l’arte dolciaria operativa nel suo stabilimento in via Zandonai.
Vayra affonda le sue radici agli inizi del secolo scorso (nel 1905) nella storica bottega di via delle Pescherie Vecchie a Ferrara dove il fondatore Mario Vayra inizia la produzione di gustosi sciroppi (famoso quell’amarena), coni e semilavorati per l’arte della gelateria. Un passato ricco di prestigiosi riconoscimenti internazionali. Poi intorno al 1970 il trasferimento nella zona di via Bologna dove alle tradizionali produzioni di semilavorati si aggiunge la commercializzazione di arredi e macchine del settore.
E’ Filippo Bortolini a fare il punto della situazione di questa azienda: “Intendiamo valorizzare al massimo questo storico marchio di Ferrara – commenta in qualità di amministratore delegato e socio affiancato da Mario Coppini con il quale ha rilevato l’attività – con lo scopo di mantenere l’altissima qualità artigianale dei prodotti e nel contempo introducendo innovativi processi tecnologici, come richiede il mercato in continua evoluzione”
Un lancio che vede la collaborazione di Ascom Ferrara e della FIPE provinciale. Una sinergia che si concretizzerà – in collaborazione con la Gelateria K2 e la Pasticceria Marzocchi – nella presentazione il 4 dicembre a partire dalle ore 16 al Borgo le Aie (Gualdo) – in anteprima ad un gruppo selezionato di operatori – di un ventaglio di prodotti specifici che poi verranno lanciati ufficialmente al Sigep di Rimini dal prossimo 19 gennaio.
“Per noi importante – commenta Davide Urban, direttore di Ascom Ferrara – sostenere concretamente aziende del settore ed in particolare i nostri imprenditori del territorio che decidono di dare nuova vitalità a brand appunto storici e significativi come appunto Vayra 1905 e che si muovono concretamente sul mercato”.
Già allo studio iniziative comuni tra Ascom e Vayra in ambito formativo anche nel settore dei privati utilizzando gli spazi di via Zandonai.
“Economia e Democrazia”, il ciclo di incontri in programma all’Oratorio San Crispino di piazza Trento e Trieste, organizzato dal Gruppo Economia in collaborazione con l’Associazione Stampa di Ferrara, prosegue con l’ultimo incontro in programma per il 2018 con Francesco Amodeo che mercoledì 05 dicembre alle 17:30 presenta il proprio libro “Il puzzle Moro”. Dialogheranno con l’autore Claudio Pisapia (Gruppo Economia) e Riccardo Forni (Assostampa).
Il libro, la vicenda Moro costituisce un caso internazionale per eccellenza, ancora da raccontare nei suoi risvolti più oscuri. Tra gli anni Sessanta e Settanta la politica estera morotea, soprattutto quella mediterranea, e il disgelo nella politica interna tra Dc e Pci rappresentarono un pericolo gravissimo per gli equilibri mondiali. L’Italia andava fermata a tutti i costi.
Sulla base di documenti desecretati a Londra e a Washington (e delle recenti acquisizioni dell’ultima commissione d’inchiesta parlamentare sul caso Moro), Giovanni Fasanella dimostra che una parte delle amministrazioni Usa, con gli inglesi e la complicità a vari livelli e in fasi successive di Francia, Germania e Unione Sovietica insieme con Cecoslovacchia e Bulgaria, avevano interessi convergenti a fermare Moro. Come confermano anche le testimonianze di ambasciatori e politici dell’epoca riportate in questo libro.
L’autore riesce a saldare in un racconto avvincente testimonianze e documenti inediti, offrendoci per la prima volta la ricostruzione completa del contesto internazionale e delle complicità interne in cui maturò il delitto Moro. Solo così possiamo capire davvero le cause che stanno alla radice di molti episodi terroristici e individuare chi aveva interesse a destabilizzare la nostra democrazia.
Giovanni Fasanella è giornalista, sceneggiatore, documentarista e scrittore. Inizia la sua carriera nel giornalismo lavorando a «L’Unità», dove negli anni di piombo, a Torino, si occupa di terrorismo. Si sposterà poi nella redazione romana in cui, a metà anni Ottanta, sarà resocontista parlamentare e notista politico. Si occuperà di politica anche dal 1988, quando passerà a «Panorama». Da qualche anno, Fasanella ha lasciato la carriera di giornalista per dedicarsi esclusivamente a libri e sceneggiature.
Lo zio di Bruno faceva il panettiere e per il trasporto aveva un carretto che utilizzava solo un paio d’ore al giorno. Per tutto il resto del tempo il carretto restava in sosta davanti al negozio e in paese chi ne aveva bisogno poteva usarlo liberamente: il bene di uno, dunque, era reso disponibile anche agli altri, secondo necessità, senza che il proprietario ne avesse alcun danno e senza pretesa di alcun diretto tornaconto. Il carretto era lì, e anziché starsene fermo tutto il resto della giornata era disponibile e veniva impiegato da chiunque, in base alla necessità, secondo un principio di mutuo soccorso. Lo zio di Bruno non ci guadagnava né ci perdeva nulla. Però maturava un credito di gratitudine, che in qualche modo fruttava benevolenza e favori perché, in genere, quando le persone sono aiutate tendono ad essere riconoscenti. Altri membri della comunità facevano altrettanto, comportandosi in maniera simile allo zio di Bruno: rendevano disponibili i loro beni quando non li impiegavano direttamente. Questo semplice sistema mutualistico, fondato su un’idea solidale della comunità e dunque sulla disponibilità alla reciproca assistenza (che talvolta magari si realizzava nelle forme del baratto), consentiva di massimizzare i benefici dei beni strumentali, rendendo concreto un valore che spesso resta solo potenziale, e dava così beneficio a tanti anziché a uno solo.
E’ quel che accade quando si esce dalla logica dell’egoismo proprietario di cui siamo vittime e si considera la possibilità di socializzare l’uso di ciò che è nella nostra disponibilità. Anche con semplici gesti quotidiani, che possiamo considerare di altruismo, ma che costituiscono potenzialmente un ribaltamento delle modalità padronali e predatorie con cui gestiamo i beni materiali (e talvolta purtroppo anche i rapporti con gli individui), si può – pure nella quotidianità – contrastare la china di una società che, anche nell’esaltazione del mito del possesso, scivola pericolosamente verso il baratro.
Peraltro, il possesso presuppone l’acquisizione; e la brama di avere ci spinge all’acquisto compulsivo, fomentando l’appetito che appaga il mostro del consumismo sul quale si reggono i cardini del nostro sistema economico. Ridurre i consumi e commisurarli alle nostre reali necessità è l’obiettivo da perseguire. Per dirla coerentemente con la ben nota massima profusa dalla saggezza di Erich Fromm, bisogna sfuggire le spire dell’opulenza fortificate dal possesso e ritrovare il senso autentico e realmente appagante dell’essere.
Fuor di metafora, cercando di inquadrare il fenomeno dello squilibrio distributivo, possiamo osservare che da una parte c’è sottoutilizzo, dunque spreco; dall’altra c’è invece carenza, quindi bisogno: razionalizzando l’uso dei beni colmiamo (o attenuiamo) il bisogno, semplicemente eliminando lo spreco.
È un po’ quel che in parte avviene con la sharing economy (e – in forme però pericolosamente deviate – con la gig economy). L’economia collaborativa induce le persone a scambiare beni e servizi attraverso differenti modalità che tendenzialmente implicano un corrispettivo, in termini di compartecipazione alla spesa o di temporaneo baratto di beni: così, come ben sappiamo, ci sono persone che rendono disponibile un passaggio in auto, la propria casa, un posto letto, o un qualsiasi altro genere di beni o servizi…
Il meccanismo di scambio è attualmente intermediato da piattaforme private, che fungono da nodo di incontro e smistamento fra domanda e offerta, ponendo in corrispondenza richieste e disponibilità. I nomi delle più affermate sono ben noti a tutti: Uber, AirBnb, Gnammo, BlaBlaCar… Molti le utilizzando, altri diffidano. Tanti sollevano il dubbio che, dietro l’etichetta di sharing economy, ci stia una nuova conformazione del modello capitalistico che, operando in un terreno ancora ampiamente deregolamentato, aggira così vincoli e imposizioni, attua forme di sfruttamento del lavoro e spesso elude le spire del fisco. Molti, anche per questo, diffidano. Il meccanismo, peraltro, genera a livello mondiale un enorme giro d’affari, stimato in 300 miliardi di dollari.
Il municipio intermediario pubblico fra bisogni e disponibilità
Immaginiamo, però, che la funzione di piattaforma – punto di incontro fra domanda e offerta, nodo degli scambi e fulcro del sistema – sia svolta da un ente istituzionale, il Comune per esempio; e che il conferimento delle disponibilità corrisponda dunque – letteralmente – a una messa ‘in comune’ di beni e servizi, con la tutela e la garanzia offerta dalla pubblica amministrazione.
In questo modo, potenzialmente, tutti i beni resi disponibili (a partire da quelli inutilizzati o sottoutilizzati), come pure la disponibilità individuale a svolgere servizi, verrebbero facilmente posti in corrispondenza con le corrispettive necessità, cioè con carenze e bisogni. E lo scambio sarebbe garantito dall’autorevolezza del mediatore, il Comune appunto, che in tal modo esalterebbe la propria funzione statutaria, quella di essere spazio di incontro e luogo comunitario di condivisione.
In fondo, già ora, il Comune preleva forzosamente dai singoli membri della comunità le risorse necessarie per garantire i servizi; e lo fa attraverso le leve fiscali e i relativi meccanismi di tassazione. Ma in tempi di crisi le risorse scarseggiano e così pure i trasferimenti dallo Stato, sicché molti servizi vengono drasticamente ridotti o tagliati.
Ecco, allora, che un sistema integrativo e complementare di erogazione di beni e servizi, fondato sullo scambio mutualistico volontario fra cittadini, ma favorito, garantito e supervisionato dall’ente pubblico, potrebbe in parte sopperire concretamente alle carenze, dando risposta anche a bisogni ai quali, attualmente, l’ente pubblico non è in grado di fare fronte.
I beni messi in comune dai cittadini e le potenziali prestazioni di servizio rese a titolo volontario sarebbero censite e raccolte in un’unica banca dati pubblica, preposta a porre in corrispondenza disponibilità e necessità, dunque con virtuali funzioni di luogo di incontro fra domanda e offerta. Non ci sarebbero, in tal modo, speculazioni né rischi, poiché i fruitori avrebbero la garanzia offerta dal Comune, cui spetterebbe il compito di censire gli utilizzatori del servizio e vigliare sulla correttezza di tutto il processo.
Non vale la pena, qui, addentrarsi nei dettagli organizzativi di un simile servizio. Sarebbe una rivoluzione, certo. E d’altra parte la situazione attuale impone a tutti, istituzioni comprese, rivoluzioni culturali e organizzative indispensabili per risollevarci dalla crisi e creare nuovi equilibri.
Una rivisitazione delle attualità modalità su cui si fonda l’economia di scambio, che ponesse al centro il municipio come perno e intermediario pubblico, potrebbe utilmente concorrere allo scopo.
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