Giorno: 25 Giugno 2014

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Laboratorio Cavone: in Assemblea legislativa l’assessore Gazzolo risponde a un’interrogazione del consigliere Favia

da: ufficio stampa giunta regionale Emilia-Romagna

Le parole dell’assessore: “L’attività di monitoraggio e raccolta dati consiste in operazioni normali e frequenti di verifica sui pozzi. Noi per primi vogliamo chiarezza, grave alimentare paure sulla base di informazioni inesatte”

“Al Cavone è stata avviata un’attività di monitoraggio e raccolta dati per conoscere l’esatta dinamica dei fluidi nel serbatoio e nelle rocce circostanti e aggiornare il modello geologico del sottosuolo. L’attività ha esclusivamente finalità scientifiche e dà seguito a una precisa richiesta della Commissione Ichese”. Così l’assessore regionale alla Difesa del suolo Paola Gazzolo ha risposto in Assemblea legislativa all’interrogazione presentata dal consigliere Giovanni Favia sul giacimento del Cavone.
“Si tratta – ha chiarito Gazzolo – di normali e frequenti operazioni di verifica sui pozzi, nei limiti autorizzati dalle Autorità competenti, eseguite sotto la supervisione del Ministero dello Sviluppo economico e della Regione”. Per garantire trasparenza e accessibilità dei dati, sul sito www.labcavone.it sono riportati gli esiti di tutte le riunioni effettuate e lo stato di avanzamento delle operazioni in campo.
“I dati raccolti, che sono circa un milione, saranno oggetto di approfondite valutazioni tecnico-scientifiche, sulla base delle quali saranno assunte le decisioni future – ha proseguito Gazzolo -. Noi per primi abbiamo sentito l’esigenza di rivolgerci ad esperti internazionali per acquisire ulteriori elementi di conoscenza utili a fare chiarezza. La Giunta sta operando con responsabilità e nella piena coerenza con le conclusioni del Rapporto Ichese: è grave alimentare paure sulla base di informazioni inesatte”.
Il Report della Commissione sottolinea come la mancanza di ‘esperienza sismica’ in Italia renda necessaria l’acquisizione di dati storici dalle compagnie e un monitoraggio capillare delle aree di produzione e reiniezione. Il Ministero dello Sviluppo economico sta definendo a livello nazionale tali attività, che anche sulla base dell’esperienza fatta al Cavone saranno presto messe in campo e progressivamente estese a tutti i giacimenti italiani rilevanti. “Il lavoro di ricerca scientifica condotto – ha concluso l’assessore – sarà quindi preso come modello di riferimento per il futuro”

Scatta a fine giugno l’obbligo del POS per i pagamenti: le iniziative di Ascom Ferrara

da: ufficio stampa Ascom Ferrara

Scatterà tra pochi giorni (dal 30 giugno) l’obbligo dell’uso dei pagamenti elettronici – i noti Point of Sale meglio conosciuti come POS (per intenderci ad esempio i pagamenti con le tessere bancomat) per i negozi, i pubblici esercizi ed anche i liberi professionisti per importi superiori ai 30 €uro.
“Una scadenza importante ed imminente alla quale ci dobbiamo adeguare e sulla quale Ascom Ferrara – ricorda il direttore generale Davide Urban – abbiamo messo in campo, a disposizione dei nostri associati, un’ apposita convenzione in partnership con Carisbo e Vodafone per l’ottenimento degli impianti POS da posizionare poi presso le singole attività. Chiunque avesse necessità di dotarsi delle apparecchiature, associati e non, potrà venire Giovedì 3 luglio alle ore 15,30 presso i locali dell’Accademia del Gusto (in via Giuseppe Fabbri, 414 a Ferrara) dove verrà presentata – nei dettagli tecnici ed economici – la nostra proposta POS”.

Cinema nell’Arena Parco Diamanti: primo appuntamento venerdì 27 giugno con il film “Gloria” di Sebastián Lelio

da: Arci Ferrara

L’iniziativa Cinema nel Parco, realizzata da Ferrara sotto le stelle e Arci Ferrara con la collaborazione dell’Amministrazione Provinciale e del Comune di Ferrara, propone venerdì 27 giugno alle 21.30 nel parco adiacente a Palazzo Diamanti (ingresso da via Dosso Dossi 8) GLORIA di Sebastián Lelio.

Gloria è una cinquantottenne che si sente ancora giovane. Cercando di fare della sua solitudine una festa, trascorre le notti in cerca d’amore in sale da ballo per adulti single. La sua fragile felicità viene però a galla il giorno in cui incontra Rodolfo. L’intensa passione che nasce tra loro spinge Gloria a donare tutta se stessa, come se sentisse che questa è la sua ultima occasione, facendola volteggiare tra speranza e disperazione. Gloria dovrà ritrovare il controllo di sé e attingere ad una nuova forza per scoprire che ancora una volta riuscirà a brillare più che mai.

Biglietto intero: 6 euro, ridotto: 4 euro. La riduzione è valida per i soci Arci, studenti Università di Ferrara.
In caso di maltempo la proiezione si terrà presso la Sala Boldini, in via Previati, 18.
Abbonamenti 10 ingressi 50 ¤
Abbonamenti 10 ingressi soci Arci 30 ¤
Gli abbonamenti saranno validi dal 27 giugno al 24 agosto.

Informazioni: www. cinemaboldini .it – www.arciferrara.org,
t. 0532.241419 / Sala Boldini t. 0532.247050 / Parco Diamanti 320.3570689

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Si riunisce a Bologna dal 26 al 28 giugno la Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo

da: ufficio stampa giunta regionale Emilia-Romagna

La riunione della Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo dal 26 al 28 giugno. I temi: la riforma della legge di settore, la nuova emigrazione, un focus sul Venezuela, l’Expo 2015 e la formazione dei giovani

Si svolgerà a Bologna dal 26 al 28 giugno la riunione della Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo. Si parlerà della riforma della legge regionale, che regola il funzionamento della Consulta; di nuova emigrazione, legata ai giovani, spesso laureati, in cerca di lavoro; della situazione in Venezuela ma anche di cosa possono fare le comunità italiane all’estero in merito all’Expo di Milano. Infine la formazione dei giovani, tema molto caro alla presidente della Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo Silvia Bartolini. I lavori della mattinata di giovedì e di venerdì saranno visibili in streaming sul sito della Consulta ( http://emilianoromagnolinelmondo.regione.emilia-romagna.it)

Il programma

I lavori si aprono giovedì 26 giugno alle ore 9,30 del nell’Aula Magna della Regione Emilia-Romagna ( viale Aldo Moro,30 a Bologna) con i saluti istituzionali di Luciano Vecchi, assessore regionale alle attività produttive, della presidenza della Assemblea legislativa regionale e della prof.ssa Carla Salvaterra, pro rettore per le relazioni internazionali dell’Università di Bologna. Introdurrà i lavori, come di consueto, la relazione della presidente della Consulta Silvia Bartolini alla quale seguirà la valutazione dei progetti di legge di riforma della legge regionale di settore n. 3/2006. Alla discussione parteciperà Monica Donini, presidente della IV commissione dell’Assemblea legislativa regionale e sono stati invitati i consiglieri regionali firmatari delle proposte di riforma della legge.
Il pomeriggio sarà invece dedicato, dalle ore 14.30, al Venezuela, al focus tematico “Ci stiamo dimenticando del Venezuela?” , che intende rompere il silenzio intorno a uno dei Paesi più italiani nel mondo, oggetto di una profonda crisi istituzionale ed economica. Oltre a Silvia Bartolini e ai rappresentanti delle associazioni italiane in Venezuela e delle comunità di venezuelani in Emilia-Romagna, forniranno il loro contributo alla discussione il deputato Davide Baruffi, firmatario della risoluzione parlamentare sul Venezuela, Margherita Salvioli Mariani, segretaria generale Cisl Reggio Emilia, Giovanni Mariella, vicepresidente del Consiglio Generale dei Pugliesi nel mondo, e Loris Zanatta, docente di Scienze politiche e sociali dell’Università degli Studi di Bologna. Sono previsti anche collegamenti via skype con il Venezuela.
Alle 17,30 si svolgerà la commemorazione di tre importanti protagonisti del mondo dell’emigrazione emiliano-romagnola recentemente scomparsi: Antonio Parenti, Marco Achille Marmiroli e Juan Carlos Lazzarini.

La giornata di venerdì 27 giugno inizierà alle ore 9,30 con il seminario “ Emigriamo di nuovo? Analisi della nuova emigrazione italiana”. Aprirà i lavori Matteo Lepore, assessore all’economia e promozione della Città, Turismo, Relazioni Internazionali del Comune di Bologna. Conduce il dibattito Silvia Bartolini. Gli interventi saranno di: Delfina Licata, curatrice del Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes; Ester Dini, responsabile del settore Lavoro e Rappresentanza del Censis; Paolo Balduzzi, ricercatore in Scienze delle Finanze presso l’Istituto di Economia e Finanzia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Anna Ascani, direttrice dell’Agenzia Umbria Ricerche; Maria Chiara Prodi, componente estera della Consulta e fondatrice di EXBO, la rete dei bolognesi nel mondo; Luisa Babini del Comitato esecutivo della Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo; Nicola Cecchi, vicepresidente vicario dell’Assemblea dei Toscani nel mondo. Parteciperanno anche i rappresentanti delle Consulte regionali dell’emigrazione.

Nel pomeriggio alle 14,30 si procederà all’elezione di due componenti del Comitato Esecutivo, mentre alle 14,45 sarà presentato il sito “Made of Italians”, progetto di promozione dell’Esposizione Universale dedicato agli italiani residenti all’estero e alle associazioni regionali nel mondo. Sarà presente Silvia Tracchi direttore marketing della società EXPO Milano 2015. I consultori esteri presenteranno i progetti realizzati dalle associazioni di loro riferimento. In conclusione di giornata, alle 16.30, sarà presentata la pubblicazione “In cerca dell’Altrove” realizzata dalla Consulta in collaborazione con l’Istituto Beni Culturali e l’URP della Regione. Sarà presente Sergio Tisselli, illustratore del volume.

Sabato 28 giugno alle ore 9,30, presso la sala riunioni dell’Hotel Camplus Living Bononia (Via Sante Vincenzi, 49), i consultori discuteranno dell’aggiornamento del programma annuale della Consulta per il 2014 e della proposta di programma per il 2015. Saranno fornite informazioni sulle opportunità formative per i giovani residenti all’estero. La chiusura dei lavori è prevista per le ore 13.

Nel pomeriggio, alle 14,30, solo per i presidenti e i consultori delle associazioni di Costa Rica, Messico, Repubblica Dominicana, Perù, Venezuela, si terrà la Conferenza delle associazioni di emiliano-romagnoli del Centro America.

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Alluvione e tromba d’aria: c’è la legge. La soddisfazione del presidente Errani e dell’assessore Vecchi

da: ufficio stampa giunta regionale Emilia-Romagna

Convertito in legge il decreto 74/2014 che destina 210 milioni di euro ai comuni colpiti da alluvione e tromba d’aria in Emilia. La soddisfazione del presidente della Regione Vasco Errani: “Ora abbiamo tutti gli strumenti e le risorse per far ripartire quei territori”

«Con la definitiva conversione in legge ora abbiamo tutti gli strumenti e le risorse per consentire la ripartenza di quei territori che, dopo il dramma del sisma, si sono trovati a dover fronteggiare i danni causati dall’alluvione e le trombe d’aria. E’ un atto importante e atteso, frutto del lavoro fatto insieme da Regione, enti locali, Governo e parlamentari. Ora continueremo a lavorare, d’intesa con i Comuni, per le esigenze del territorio a partire dal riconoscimento della fiscalità di vantaggio già oggetto, per altro, di un ordine del giorno presentato al Governo dai parlamentari».
Lo ha affermato il presidente della Regione Emilia-Romagna e commissario delegato per la Ricostruzione Vasco Errani, esprimendo la propria soddisfazione per l’approvazione al Senato del decreto legge con le misure in favore delle popolazioni dell’Emilia-Romagna colpite dal terremoto e dalle successive alluvioni.
La legge prevede di destinare complessivamente 210 milioni di euro, per gli anni 2014 e 2015 (di cui 160 milioni nell’anno 2014 e 50 milioni nell’anno 2015) per contributi per danni subiti nelle province di Modena e Bologna, colpite dalla alluvione del 17 e il 19 gennaio 2014 e dalla tromba d’aria del 3 maggio 2013. Le risorse serviranno a realizzare la messa in sicurezza idraulica dei territori alluvionati e ripristinare le preesistenti condizioni di vita e lavoro: gli atti per queste misure sono già stati avviati nelle scorse settimane.
Anche l’assessore regionale alle Attività produttive Luciano Vecchi ha espresso soddisfazione, sottolineando che «ora dovremo completare gli interventi nelle zone colpite dal sisma e poi da eventi calamitosi straordinari, proseguendo nella ricostruzione post terremoto. Nei prossimi giorni sarà varato il provvedimento del commissario Errani relativo ai contributi per risarcire le attività economiche colpite».
I comuni interessati
I Comuni colpiti dalla tromba d’aria del 3 maggio 2013 sono nella provincia di Bologna Argelato, Bentivoglio, San Giorgio di Piano e San Pietro in Casale e, nella provincia di Modena, Castelfranco Emilia e Mirandola mentre i Comuni (tutti modenesi) colpiti dagli eventi alluvionali verificatisi tra il 17 e il 19 gennaio 2014 sono Bastiglia, Bomporto, Camposanto, Finale Emilia, Medolla, San Felice sul Panaro, San Prospero (a cui si aggiungono in Comune di Modena le frazioni di Albareto, La Rocca, Navicello e San Matteo).

Venerdì, all’Ibs, primo incontro con la rassegna Drink a Book: Maura Chiulli presenta “Dieci giorni”

da: Responsabile Eventi Libreria IBS.it Ferrara

Scrittrice e performer classe ’81, Maura Chiulli a poco più di vent’anni inizia a interessarsi alla body art di Gina Pane e alla performance art di Marina Abramovic (“ma l’incontro migliore della sua vita è con il fuoco”). Tra i suoi libri, “Out. Storie di ordinaria discriminazione” (Editori Riuniti) “Maledetti Froci & Maledette Lesbiche” (Aliberti-Castelvecchi)

Sono i corpi i protagonisti di questo romanzo che si apre e si chiude nel tempo di dieci giorni. Sono i corpi a raccontare i carnefici e le vittime, e a mostrarci – per quanto annullati e camuffati – che le colpe, certe colpe, non si possono cancellare. Eppure esiste ancora uno spazio dove conservare – al riparo dal contagio – i ricordi più belli e la speranza. Accedervi richiede un sacrificio, il più atroce di tutti.

Seguiranno altri quattro incontri nel mese di luglio:

venerdì 4 luglio, Eduardo Savarese presenta Le inutili vergogne, E/O

venerdì 11 luglio, Cristiana Alicata presenta Ho dormito con te tutta la notte, Hacca

venerdì 18 luglio, Elvira Borriello presenta Il rumore del suo silenzio, Elmi’s World

venerdì 25 luglio, Walter Catoni presenta L’inutilità della lettera Q, Mondadori

Tutti gli incontri si terranno alle ore 21:30 sotto il porticato della libreria

“Learca: dal racconto a voce di Learca Tassinari”, domani alle 18 l’incontro con la protagonista della biografia presso la Camera di Commercio

da: ufficio stampa Ascom Ferrara

“Usate la vostra testa, ascoltando consigli, ma decidete sempre anche con il cuore” è la frase che fotografa meglio il carattere di Learca Tassinari, imprenditrice centese, classe 1934, protagonista della biografia “Learca: dal racconto a voce di Learca Tassinari” (edizioni Baraldi, 2014).
Learca, corporatura minuta ma all’interno del quale è presente un piglio deciso si racconta nel libro che verrà presentato al pubblico Giovedì 26 giugno (ore 18,00 sala conferenze della Camera di Commercio di Ferrara – in Largo Castello) in un appuntamento che vedrà il saluto istituzionale del presidente dell’ente camerale Paolo Govoni, del vicesindaco Massimo Maisto e chiaramente del presidente provinciale di Ascom Ferrara Giulio Felloni e del suo direttore generale Davide Urban che commenta “Una pubblicazione – con il nostro sostegno – che non solo è un’ omaggio ad un’imprenditrice , nativa di Renazzo, da sempre socia Ascom ma soprattutto vuole essere un esempio positivo da trasmettere ai giovani ed alle donne, a quanti hanno un impresa: di credere fino in fondo nel proprio progetto, di avere coraggio e determinazione per superare le avversità”.
Un racconto che si snoda in 270 pagine, fresche di stampa: “Il mio nome – racconta Learca – è un omaggio al ciclista Learco Guerra di cui mio padre era ammiratore perché proprio nel 1934, Guerra aveva vinto il Giro d’Italia”, tra aneddoti e curiosità si dipana la storia umana, familiare, professionale di una donna che insieme ai figli gestisce ancora oggi le attività imprenditoriali nei settori della ristorazione e del comparto immobiliare.
“Una donna che è una vera e propria bolla d’energia vivente – spiega Mariacristina Paselli, l’autrice consulente in management aziendale ed in alta formazione – che ha saputo seppure nata povera e rimasta orfana in tenera età cambiare il suo destino, possedendo una forte autostima. Con questo libro – conclude la scrittrice – ho inteso dare un mio contributo per far crescere l’universo al femminile che ha capacità e competenza per affrontare con successo l’esperienza manageriale, uno stimolo che nasce mostrando l’esempio di una donna determinata come Learca”.

Faggioli: “La chiesa-mondo di papa Francesco, progressista ma non liberal”

Italiano, ferrarese e americano, Massimo Faggioli è uno storico della chiesa, vaticanista conosciuto ormai a livello internazionale. Si specializza in Storia religiosa nelle università di Bologna, Torino e Tubinga tra 1994 e 2002, e dal 2008 vive negli Usa dove insegna Storia del cristianesimo alla University of St. Thomas a Minneapolis/St. Paul. Collabora con varie riviste e quotidiani, in Italia con Europa e l’Huffington Post. E’ appena uscito in Italia il suo ultimo libro intitolato Papa Francesco e la chiesa-mondo (Armando, 2014).

Abbiamo la stessa età, abbiamo frequentato entrambi il liceo Ariosto, difficile per me non cominciare con alcune domande “ferraresi” soft sugli anni della formazione, del tipo qual è stato il tuo background cattolico a Ferrara?
Il mio background cattolico a Ferrara si sviluppa all’interno di due ambiti: lo scoutismo da una parte e l’Istituto diocesano di scienze religiose dall’altra. Scoutismo, quindi una formazione cattolica caratterizzata certamente da fedeltà alla Chiesa ma anche da un certo senso di libertà verso l’Istituzione ecclesiastica. Io ho fatto lo scout per tanti anni, uno scoutismo molto intenso perché oltre all’attività coi bambini e i ragazzi si tentava di ragionare sul ruolo della Chiesa nella società italiana. I primi dodici anni di scout sono stati con il gruppo “Ferrara 4”, alla parrocchia di san Luca; poi nell’89 sono passato a santa Francesca Romana, “Ferrara 5”, dove sono rimasto altri dieci anni circa. Sono stati anni bellissimi a cui devo moltissimo. Ho dovuto interrompere nel 1999, perché mi sono trasferito in Germania per un anno di dottorato all’estero. L’altro ambito del mio background ferrarese è per l’appunto l’Istituto di scienze religiose di via Montebello 8, dove ho studiato con Piero Stefani, monsignor Elios Giuseppe Mori e don Andrea Zerbini, personaggi a cui devo la nascita del mio interesse per la teologia e la scelta dei miei studi successivi, anche perché don Andrea era (è ancora, in un certo senso) il mio parroco, Piero Stefani un comparrocchiano e un amico di famiglia.

Dal punto di vista, invece, degli studi universitari, chi più di altri ha contribuito nella scelta di specializzarti in questa particolare area del sapere? Nella tua presentazione sull’Huffington Post dici che la tua alma mater rimane sempre Bologna: è perché “il primo amore non si scorda mai” o c’è qualcosa di più?
C’è decisamente qualcosa di più. Nell’estate 1989 faccio l’Interrail e nell’autunno dell’89 mi iscrivo a Scienze politiche a Bologna, indirizzo storico-politico, in un anno cruciale in cui stava cambiando il mondo. Ho come docente uno dei fondatori della facoltà, Giuseppe Alberigo, che era lo storico dei concili più famoso e più importante, e vengo presto attratto da questa area particolare di discipline storico-religiose. Altri miei docenti di grande spessore, oltre ad Alberigo, sono stati Mauro Pesce, famoso biblista e storico del cristianesimo, e Pier Cesare Bori, professore di “Storia del cristianesimo e delle chiese”, “Filosofia morale” e “I diritti umani nella globalizzazione”, che formavano un nucleo forte in quell’ambito di studi che purtroppo è completamente scomparso, o meglio è stato eliminato dalle politiche accademiche bolognesi: ora non esiste più nulla del genere all’Università di Bologna. Comunque è dal mio interesse per la storia in generale, per la storia politica e le questioni internazionali, e dall’incontro con questo nucleo forte delle discipline religiose, che si determina la mia scelta, nel senso che quei docenti cominciarono a spiegarmi allora qualcosa di quello che stavo facendo negli scout e il significato di certe cose che venivo sentendo, ossia dell’importanza delle identità religiose nel mondo contemporaneo, determinanti per capirne le dinamiche… e questo più di dieci anni prima dell’11 settembre 2001, tanto per intenderci. Gli anni dell’università, tra l’89 e il ’94, sono stati anni di enorme cambiamento dal punto di vista internazionale: il Muro di Berlino, la dissoluzione dell’Unione sovietica; in Italia, la fine della prima Repubblica, tangentopoli e la crisi generale del sistema politico. Studiare scienze politiche a Bologna in quegli anni è stata una delle occasioni fortunate della mia vita, perché mi ritrovavo a studiare cose che erano particolarmente rilevanti per quello che stava succedendo nel mondo. In quel quinquennio, quindi, studio scienze politiche, mi specializzo in Storia religiosa ma continuo ad osservare quello che succede fuori e a viaggiare, in particolare in Francia e nell’Europa dell’est. Dal 1995 inizio a lavorare all’Istituto per le scienze religiose di Bologna, allora impegnato nel progetto dei cinque volumi della “Storia del concilio Vaticano II”. Come studioso sono nato lì, in quell’istituto fondato da Giuseppe Dossetti nei primi anni cinquanta: trasversalità delle discipline, imparare a confrontarsi con epoche storiche diverse, imparare le lingue straniere, non accontentarsi dell’erudizione fine a se stessa. Da Bologna poi sono passato in Germania un anno, e poi in Canada, e nel 2008 in America.

Veniamo al tuo nuovo libro in cui tendi a dimostrare, come si evince fin dal titolo, che il gesuita Bergoglio, papa Francesco, rappresenta l’incarnazione di quella transizione verso una “chiesa-mondo” annunciata dal teologo gesuita Karl Rahner alla fine del Concilio Vaticano II. A che punto siamo della realizzazione di una chiesa a dimensione mondiale? Di una chiesa che, con le parole di Bergoglio, va verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali?
La Chiesa è stata sempre mondiale, per essenza: Gesù Cristo non ha mai predicato per una nazione o per un popolo soltanto. Ma la distanza tra l’universalismo del messaggio di Gesù e la dimensione concreta della Chiesa è stata sempre molto visibile, tanto che per quindici secoli il Cristianesimo è stato sostanzialmente europeo. Oggi, nel XXI secolo, anche il Vaticano e le istituzioni ecclesiastiche hanno capito che non si può misurare tutto il mondo della Chiesa con un metro europeo o un metro romano. In questo senso, l’elezione di Bergoglio rappresenta lo scatto: da Benedetto XVI, ossia dal Papa più europeo di tutti, non solo per formazione ma anche per ideologia – nella sua visione l’Europa era normativa -, si passa a papa Francesco e allo scioglimento anche di questo paradigma. Oggi l’Europa non è più paradigma di quasi niente e, con Bergoglio, neanche più del cattolicesimo. Il suo andare in Corea in agosto, nelle Filippine e nello Sri Lanka l’anno prossimo, e prossimamente in Albania, è il suo modo per dire che l’Europa non è più lo standard con cui misurare tutto il resto. E questo lo fa lui perché viene dall’Argentina, e perché è un gesuita: i gesuiti sono sempre stati con un piede dentro la Chiesa e un piede nel mondo, fin dal ‘500, e quindi sono particolarmente capaci di misurarsi con questa prospettiva. Terza cosa, lo fa lui perché viene eletto in un periodo particolarmente drammatico della storia della Chiesa, e parliamo degli scandali e della chiara inabilità di papa Benedetto XVI di interagire con tali questioni. E quindi Francesco opera in queste circostanze che, secondo me, hanno sbloccato la situazione della chiesa. Se Francesco avrà successo nel convincere vescovi e cardinali in questo senso, ancora non si può sapere; quello che è certo è che lui è chiaramente consapevole che la Chiesa futura non può modellarsi su un cattolicesimo europeo che andava bene nei secoli precedenti, ma che nel XXI secolo ha poco da insegnare, per l’oggi, ai cristiani dell’America latina o dell’Asia o dell’Africa.

L’elezione di Bergoglio spinge quindi, e ti cito, “a ricalcolare le geopolitica del cattolicesimo”. Dal tuo punto di vista privilegiato di italiano che vive negli Usa e che studia la Chiesa cattolica, come stanno reagendo Obama e gli altri grandi della politica mondiale?
Ricalcolare nel senso che la sua mappa è molto più mondiale, Bergoglio guarda specialmente al sud del mondo, nel senso che non ha una centralità europea e nord-americana. Come latino-americano, anzi, ha un punto di vista particolare degli Stati uniti e della politica: vede gli Usa, anche se non può dirlo apertamente, come quella nazione che ha tentato di mettere mano all’America Latina da sempre, specialmente a partire dalla fine dell’800 in poi; quella di Bergoglio è una geo-politica non politica, nel senso che con i precedenti papi, e specialmente con Giovanni Paolo II, si capiva esattamente da che parte stava la Chiesa cattolica, papa Francesco al contrario ha una visione molto meno geografica e più incentrata sul modello economico-sociale contemporaneo, quindi è una geopolitica che non dà grande peso agli Stati uniti o in generale a dove sta il potere. Papa Francesco è un radicale, certe volte con toni populistici, quindi è chiarissimo il suo tentativo di spostare il centro fuori dall’Europa, fuori dal nord-America, senza però metterlo da qualche altra parte, nel senso che la sua visione del mondo, della storia e della Chiesa non è una questione di alleanze, il suo non è un cattolicesimo “strategico”. E’ ancora un po’ presto per dirlo, ma io credo che il tempo ci confermerà questa sua attitudine e il mondo se ne sta accorgendo, anche gli Usa.

In un certo senso si può dire quindi che il suo cattolicesimo sia in linea con la globalizzazione?
Sì, ma nel senso che papa Bergoglio parla a nome dei perdenti della globalizzazione. La frase che lui ha coniato, “la globalizzazione dell’indifferenza”, viene da un vissuto passato affianco ai perdenti, soprattutto da quando, come vescovo di Buenos Aires, ha toccato con mano l’impatto della crisi finanziaria globale del 2001, e questo ha sicuramente plasmato la sua visione politica delle cose. Questo vissuto particolarissimo lo induce ad avere anche certi exploit, come invitare Abu Mazen e Peres, i due presidenti di Palestina e Israele, in Vaticano, che è una chiara denuncia dell’incapacità o della mancanza di volontà degli Usa di fare qualche cosa per la pace tra Israele e Palestina. Bergoglio, dunque, ha una sua visione politica che presenta però ancora diverse incognite per gli Usa e per l’Europa, è difficile averne una misura perché molto imprevedibile. Perché andare in Albania, per esempio? Non ci sono cattolici, è un Paese povero, non fa parte dell’Unione europea. Le motivazioni sono diverse da quelle di una geopolitica classica.

Facciamo un salto nel locale: Ferrara, con il nuovo vescovo Mons. Luigi Negri, come si sta ponendo secondo te in questo contesto di forte transizione?
Devo premettere, onestamente, che io non conosco bene cosa succede nella realtà locale ferrarese. Posso dire che Ferrara, come altre diocesi, è un buon esempio della difficoltà dei vescovi italiani di far proprio il cambiamento messo in opera da papa Francesco. Difficoltà che emerge anche negli Usa, peraltro. Ci sono vescovi che sono stati nominati per seguire certe parole d’ordine del periodo Wojtyla-Ratzinger, che negli ultimi trentacinque anni non erano essenzialmente mai cambiate. Stanno cambiando ora con Bergoglio. Molti vescovi italiani erano stati nominati sulla base di un messaggio ideologico, di un conservatorismo sociale e politico, di alleanze politiche-ecclesiali molto chiare. Credo che il caso di Ferrara sia un caso abbastanza tipico nel panorama italiano. Più tipico ancora è che certi vescovi vengano mandati in una diocesi non per quello di cui ha bisogno quella diocesi, ma perché certi ecclesiastici hanno “bisogno” di diventare vescovi. Spostare vescovi da San Marino a Ferrara o da Genova a Milano o da Venezia a Milano, ha un significato solamente burocratico e carrieristico; di teologico o programmatico non c’è nulla. Ma questo, purtroppo, lo sanno tutti. Certo è che questa transizione, per i vescovi nominati nei trentacinque anni precedenti all’elezione di Bergoglio, risulta particolarmente difficile per certi episcopati, come quello italiano e quello americano.

Ancora a proposito di geopolitica del cattolicesimo, mi è molto piaciuto il parallelismo che fai tra Giovanni Paolo II che aveva davanti a sé il Muro di Berlino, mentre papa Francesco ha il muro del confine tra Usa e Messico, ossia tra Usa e il resto delle Americhe. Spiegaci meglio i termini della questione e quali i nodi più spinosi a riguardo…
Non è ancora chiaro se il papa andrà negli Usa nel 2015 ma, in ogni caso, il confine tra Messico e Usa per papa Francesco è come Lampedusa, come l’Albania, sono luoghi cruciali. Se per Giovanni Paolo II l’asse del mondo era est-ovest (il Muro di Berlino, il blocco comunista, eccetera), per Francesco è l’asse nord-sud. Il nord-sud è l’asse di questo pontificato. Lui ha ben presente il fatto che se il mondo della globalizzazione ha risolto in qualche modo la spaccatura est-ovest, ha però reso più acuta quella nord-sud. Questo anche dal punto di vista del cattolicesimo, nel senso che il sud del mondo ne è il serbatoio: nell’emisfero nord il cattolicesimo è demograficamente esausto, il futuro sta a sud. Dal mio punto di vista privilegiato di cittadino italiano e presto anche statunitense, vedo che l’unica possibilità futura per il cattolicesimo nordamericano, dal punto di vista sociale e demografico, è l’influsso dal sud. Ma il papa non ne fa solo una questione di numeri, la sua è una visione economico-sociale, che si vuole concentrare dove si trovano le diseguaglianze, e lui sa benissimo che nell’era della globalizzazione il sud del mondo è stato più usato che valorizzato.

Nel definire Bergoglio non hai dubbi, dici che è un “cattolico-sociale”, portatore di un cristianesimo pro-life, e cito, “che non si accontenta di denunciare la mentalità abortista, ma include il discorso pro-life in un quadro di dottrina sociale cristiana sul lavoro, la salute, la giustizia sociale”. Ma dici anche che papa Francesco “non è liberal” e nemmeno liberale. Spiegaci meglio…

Liberal nel vocabolario anglosassone è qualcuno che è a favore delle libertà individuali, in senso progressista. In italiano, l’aggettivo liberale qualifica invece gli orientamenti individuali o di un partito relativamente alla politica economica, in sostanza oggi si può tradurre “meno Stato e più mercato”. In questo senso, papa Francesco non è né liberal né liberale. Non è un liberale perché non crede che ci voglia più mercato e meno Stato, anzi ha sempre detto che ci sono alcuni ambiti per i quali lo Stato deve fare qualcosa: scuola, sanità, assistenza, politiche economiche ecc. Lui non è come papa Benedetto che in sostanza diceva: essendo lo Stato uno stato laico, è meglio che si limiti a dare i soldi alle scuole private. Francesco non è neanche un liberal perché, nella sua accezione ideal-tipica, il liberal è uno che dice che il bene comune è la somma delle libertà individuali, e che questa sommatoria porta ad una società migliore. Papa Francesco dice, invece, che le libertà individuali sono secondarie rispetto al bene comune. Lui è decisamente anti-liberale e anti-liberal. Ma mentre il suo non essere liberale in economia è stato percepito, il suo non essere liberal ancora no, nel senso che ci si illude ancora che sia un papa liberal-progressista. Francesco è un progressista, ma non nel senso liberal – e qui le sue radici latinoamericane nell’Argentina di Peron sono molto importanti. L’articolo relativo a queste questioni, che ho riportato nel libro “Papa Francesco e la chiesa-mondo”, lo scrissi sei-sette ore dopo l’elezione e lo riscriverei tale e quale, perché Bergoglio è stato molto fedele alla sua visione, anzi più parla e più ne dà conferma.

A conclusione del tuo libro, sostieni che con l’elezione di papa Francesco la Chiesa cattolica mostra la capacità di saper governare e riformare, dopo trentacinque anni in cui entrambi i predecessori hanno fatto poco dell’una e dell’altra cosa. Spostando decisamente l’asse del discorso e passando alla politica italiana, ti sentiresti di dire la stessa cosa di Renzi e del Pd?
Sì, Bergoglio sa che la Chiesa deve governare e riformarsi, e lui ha già cominciato ma ovviamente è ancora troppo presto per capire quanto e come potrà farlo. Secondo me si capirà qualcosa in quella essenziale finestra di tempo che va dall’ottobre 2014 all’ottobre 2015, ossia nell’anno in mezzo ai due prossimi sinodi dei vescovi. Quello sarà l’anno cruciale in cui si capirà se papa Francesco è isolato o se ha un seguito. Su Renzi e il Pd non ne so abbastanza, ma personalmente mi sento lontano dalla cultura di cui Matteo Renzi è portatore. Posso dire però che il fenomeno Renzi, secondo me, non ha niente a che fare con il fenomeno Bergoglio, se non per una certa voglia di novità. Renzi come cattolico mi ricorda moltissimo quello che fece più cinquant’anni fa John Kennedy: “Io sono cattolico ma il mio cattolicesimo non ha alcun influsso sulla mia politica”. Renzi non è un politico cattolico, ma è un cattolico che fa il politico. Forse è ciò che in questo momento deve fare, ma non è per nulla l’erede di De Gasperi o di Andreotti o di Dossetti. Lui fa un uso spregiudicato e allo stesso tempo accorto del suo essere cattolico: ma per capire il fenomeno Renzi, il suo cattolicesimo non serve a molto.

Torniamo a Massimo Faggioli, al tuo mestiere di studioso, ricercatore e commentatore dello stato della Chiesa cattolica. Spesso scrivere in un’altra lingua e in luoghi diversi dal consueto aiuta a vedere meglio e ad essere più distaccati: scrivere di papi ti viene meglio a Roma, a Ferrara o a Minneapolis?
Dagli Stati uniti si vedono dell’Europa cose che è difficile vedere da qui, e viceversa. In generale la cosa di cui io sono sempre più scioccato è quanto poco si riesca a trasmettere e comprendere da un continente all’altro: cose che riguardano la Chiesa, ma anche fenomeni culturali più generali – aldilà delle notizie di Hollywood e sullo sport. Secondo me sono due mondi che, nonostante la capacità di internet e dei nuovi strumenti di comunicazione, purtroppo si parlano sempre di meno, e nell’ambito della Chiesa questo è molto evidente. Questa, d’altro canto, è stata una delle mie fortune professionali, che non mi aspettavo affatto, perché io sono uno che riesce a parlare a entrambi i mondi, cercando di tradurre e trasportare in Italia questioni americane, e negli Usa profili di teologi europei eccellenti, per esempio, di cui là nessuno ha mai sentito parlare.  Dove mi viene meglio scrivere? Dipende molto dalle occasioni, ma scrivo anche in aereo. A questo proposito c’è anche un detto, che “gli emigrati si sentono veramente a casa solo in aereo”. Credo che sia vero.

Tu ti traduci?

No, è una cosa che evito di fare, perché se uno traduce i propri scritti in un’altra lingua, ripensa e riscrive in modo parzialmente diverso ciò che aveva scritto. Questo mio ultimo libro su papa Francesco, per esempio, verrà pubblicato in Inglese a inizio 2015 ma viene tradotto da altri. La stessa cosa è successa per i due miei precedenti libri scritti in Inglese e tradotti in italiano: se li avessi tradotti io, sarebbe venuta fuori una cosa abbastanza diversa dall’originale, e questo non è corretto nei confronti dei lettori.

In Italia scrivi per “Europa” e “Huffington post”, negli Stati Uniti per quali riviste?
Scrivo per “America”, il settimanale dei gesuiti americani, che ha pubblicato la famosa intervista a papa Francesco del settembre scorso, di cui io sono stato uno dei traduttori, e poi per “Commonweal”, la rivista dell’intelligentsia cattolica liberal americana, entrambe riviste newyorkesi. Loro mi cercano perché, come dicevo prima, hanno molta poca conoscenza del mondo italiano ed europeo in generale, e quindi hanno bisogno di uno che, anche se non scrive sempre direttamente, però dia delle informazioni su ciò che succede in Europa e che è di importanza decisiva anche per gli americani.

Nel ringraziarti moltissimo per questo incontro con i lettori di Ferraraitalia, una domanda confidenziale che solo la conterraneità può giustificare: che libri legge d’estate in vacanza un vaticanista ferrarese che vive negli Usa?
Quest’estate solo cose pubblicate da Adelphi, per reazione, perché una casa editrice come quella non esiste negli Stati Uniti. La cultura americana è spietatamente pragmatica, mentre la casa editrice Adelphi fin dalle origini si è prefissata di pubblicare cose che non sono pragmatiche per niente.

Giovedì 26 giugno il Racket Festival propone la musica elettroacustica dei ferraresi Pietra Muta

da: ufficio stampa Ferrara Art Festival

FERRARA. Saranno le sonorità acustiche e sperimentali dei ferraresi Pietra Muta le protagoniste di un nuovo appuntamento con il Racket Festival di Ferrara.
Giovedì 26 giugno 2014 a partire dalle ore 21 la band ferrarese composta da Enrico e Fabio Formaggi, Matteo Maragno e Stefano Boschiero salirà sul palco allestito nel cortile del centrale Palazzo Racchetta (Via Vaspergolo 4-6).
Grazie ai suoni minimali e alle ritmiche essenziali, i Pietra Muta evocano un tempo immobile fatto di pensiero e cuore, sopiti in sonorità cupe e incisive e testi che spaziano tra la nostalgia ed il desiderio di gioia.
Un concerto che sarà senza dubbio un connubio interessante e nuovo tra un background di stampo rock ed un nuovo momento grunge che, grazie ad una partecipazione comune dei componenti della band, si sofferma sulla ricerca continua di un modo di fare musica più impegnato e coinvolgente.
I Pietra Muta, che nella scorsa primavera hanno inciso il loro terzo album, proporranno al Racket Festival i loro ultimi successi accanto ai brani che hanno fatto la storia della band.
Sorti a Ferrara nel 2010 i Pietra Muta si pongono sulla scena locale come afferenti all’ambito del post-grunge elettroacustico, attraverso il quale sapranno coinvolgere il pubblico in una serata estiva tra musica e arte.
Il Racket Festival, infatti, nasce in seno al Ferrara Art Festival che, Vino ad ottobre prossimo, propone mostre ed eventi d’arte con artisti internazionali sia nello scenario di Palazzo Racchetta, sia, come è avvenuto lo scorso sabato, in location collaterali come la Galleria il Rivellino e la Galleria del Cammello.
La serata è ad ingresso libero. Servizio bar offerto da Cafè degli Artisti.

Ali e la moschea

Da MOSCA – Sono nel taxi, immersa nel traffico moscovita, un mese di giugno ancora freddo ma tanta gente per le strade. C’è chi si copre il viso per il vento che soffia costante e imperterrito, chi tira su il cappuccio dell’impermeabile appiccicato, infastidito da una pioggerellina leggera che spazza via maquillage, rossetti e pettinature appena fatte.
Sono al semaforo e guardo fuori dal finestrino di un’automobile che fa lo slalom fra le pozzanghere. Percorro la ulitsa Schepkina, ed ecco apparire la grande moschea, ancora in costruzione, quella che diventerà, dicono, la più grande della città di Mosca. Scoprirò poi, che quella storica moschea, costruita nel 1904 e bell’esempio di architettura islamo-tatara, era stata abbattuta nel 2011 per gravi danni strutturali e relativi rischi per le persone che la frequentavano; secondo altri, invece, la moschea non era allineata con la Mecca, diventando, così, un luogo senza valore: era stata, allora, smantellata e deciso un ampliamento sulle stesse fondamenta, quello in corso oggi.
Intanto, sono attratta da un piccolo smile disegnato a inchiostro nero sul muro di fronte, due occhietti e una mezzaluna sorridente.
Strana questa immagine, una mezzaluna che sorride, la bocca di una figurina, e una mezzaluna d’oro che simboleggia l’Islam, svettante proprio di fronte alla moschea. Bizzarro accostamento, casuale ma significativo. Sono sicuramente io a vederci una somiglianza, un qualche legame, ma la cosa mi colpisce e fa volare la mia fantasia.
La moschea è avvolta dalle impalcature, quasi da esse abbracciata, ma fra le maglie serrate del cantiere polveroso vedo aggirarsi, in mezzo ai sacchi di cemento e ai segnali di lavori in corso, un giovane dal capo coperto. La classica barba lunga.
Intorno vi sono banche, uffici, farmacie, negozi di fiori e di produkti (i classici negozi che hanno un po’ di tutto e che in Italia sarebbero tenuti da cinesi o pakistani).
La vita scorre mentre il giovane cammina a capo chino, parlando da solo. Pensoso.
Chiedo al tassista, metà in russo e metà in inglese, se quell’uomo che tanto m’incuriosisce sia un habitué del quartiere.
Il semaforo è sempre rosso, come rossi sanno essere qui; quanto a lunghezza sono imbattibili (le strade sono enormi), ma a me ora va benissimo perché voglio osservare.
Quel ragazzo è Ali, mi dice, vive nel quartiere da qualche anno. Qualcuno dice provenga dall’Algeria, qualcun altro dall’Iraq. Nessuno conosce veramente la sua storia, forse per diffidenza, forse per noncuranza, forse, semplicemente, per difficoltà linguistiche. Si sa solo che Ali, ogni mattina, passa davanti alla moschea, la guarda, la osserva, controlla i lavori e il loro avanzamento, vigila sui risultati. Con accuratezza, attenzione, precisione e… amore. Forse, nel suo paese, ne ha costruite tante, magari era un bravo e solido muratore venuto da lontano. Magari ne ha costruite in pietra, in cemento o ha partecipato alla rivisitazione annuale collettiva di strutture di sabbia, come quelle maliane di Djenne. Chissà. Qualcuno addirittura gli attribuisce un’aura quasi mitologica, dicendo in giro che Ali è il nipote di uno degli architetti della storica moschea, arrivato a vigilare che i colori e le magie di quell’antico edificio restino impressi nell’animo e nello spirito dei nuovi costruttori.
Qualcuno ha fatto caso alla sua costante vigilanza, chi si è insospettito, chi si è allarmato-inquietato-preoccupato, chi ha ignorato, chi ha solo notato che lui misura con gli occhi l’altezza del minareto, ne valuta la distanza dal cielo terso, attentamente. Più la moschea cresce, più Ali sorride, come sorride quel disegno sul muro.
Intanto il semaforo diventa verde ed io saluto con un cenno Ali, che mi sorride a sua volta. Credo abbia capito che ho capito. La mia giornata improvvisamente diventa più piacevole e leggera.
Domani passerò ancora per quella strada e insieme al piccolo tratto disegnato sul muretto valuterò quanto cresce la felicità. Magari lo vedrò mutare, vedrò un sorriso più grande e Ali passeggiare sempre intorno a quelle impalcature, vigilante.
Qualcuno pensa che quando la moschea sarà terminata, Ali andrà altrove.
Passerò di nuovo fra qualche giorno e poi ancora fra qualche mese per vedere come avanzano i lavori.
Sono sicura, anch’io, che quando non vedrò più Ali sarà perché i lavori saranno terminati. Se e quando Dio vorrà.

La sbiciclettata su Roma

Da Ferrara a Roma in bicicletta. Un’esperienza da consigliare. Caldamente, vista la stagione.
Basta avere un po’ di gamba, una buona bici e qualcuno che sappia leggere mappe e carte geografiche.
Non certo come il sottoscritto che per tentare di rimediare alla totale incapacità di individuare i quattro punti cardinali in un tempo ragionevole si è pure iscritto ad un corso Cai e durante la lezione in montagna di orientamento è stato subito apostrofato dall’istruttore, perché stavo guardando la carta delle cime davanti a me a rovescio.
Siamo partiti in sette, i Magnifici sette. Sull’aggettivo è lecito avere qualche dubbio, ma sul numero assicuro che la certezza è apodittica.
Merito dell’organizzatore avere distribuito tappe alla portata di tutti e lungo città e luoghi incantevoli. San Piero in Bagno (che finora credevo fosse un’immagine sacra in intimità), Sansepolcro, Perugia, Todi, Otricoli e Roma.
Un tessuto di centri incredibilmente ricchi di storia e arte, ricamato da un paesaggio – quello umbro e laziale – incantevole.
È l’Italia, che nonostante tutti i lavori pubblici e fuori dalle notizie dei telegiornali è di una bellezza infinita.
Si passa, senza sosta, dalla Risurrezione e dal Polittico della Misericordia di Piero della Francesca a Sansepolcro, passando per Perugia (dove basta una visita agli affreschi di Perugino del Collegio del Cambio per rimanere senza parole), e poi al duomo e alla piazza di Todi, e ancora giù fino alla capitale.
Qui l’imbarazzo della scelta nella città più bella al mondo impone una selezione. E così, da un lato, un tour caravaggesco per San Luigi dei Francesi, Sant’Agostino e Santa Maria del Popolo e, dall’altro, una puntata all’insegna del Romanico a San Giorgio in Velabro e, per finire, a Santa Maria in Trastevere.
Ecco, di fronte ad una magnificenza che leva il respiro, ad una costante del bello che per quel poco di mondo che ho visto non mi pare abbia eguali, almeno in queste proporzioni, chiunque riterrebbe di avere una risorsa in quantità tale che nemmeno gli arabi con tutto il loro petrolio penserebbero così in grande.
E invece.
Per l’intero itinerario, zero, o quasi, piste ciclabili. Per buona parte del viaggio abbiamo percorso la strada provinciale Tiberina (se non ho capito male), che addirittura in alcuni tratti è stata chiusa al transito perché, immagino, non ci sono soldi per la manutenzione. È vero che così diventa una lunga ciclabile in mezzo ad un paesaggio sorprendente, ma è altrettanto vero che la vegetazione si sta impadronendo della strada.
Per chi, poi, ha già fatto in precedenza la Innsbruck Salisburgo sempre su due ruote, ha visto che altrove si favorisce questa forma di turismo con un servizio di trasporto bagagli. Lo paghi, ma c’è. In Italia non sai a chi rivolgerti e quindi ti porti il bagaglio sulle spalle. Dall’inizio alla fine.
Viene facile dire che per chi dovrebbe puntare sul turismo per vincere facile, non pare una strategia di marketing vincente quella della selezione darwiniana del visitatore.
Infatti i non molti ciclisti che si incontrano – sostanzialmente stranieri – sembrano dei Cristoforo Colombo che non sanno bene su che sponda approderanno la sera.
Nella capitale, poi, uno che gira in bici sembra un marziano.
Arrivi alla stazione di Prima Porta per caricare il tuo destriero sul treno, ed evitare la bolgia della tangenziale, e per tutta risposta ti scontri con un categorico “None” del capostazione.
Dopo aver dato fondo inutilmente a tutte le capacità diplomatiche, riprendi in mano la mappa (non io, per carità) e studi un percorso alternativo.
Ho notato che fra controviali, come nel nostro viale Cavour, e marciapiedi larghi da farci un’assemblea di condominio, a occhio e croce non dovrebbe essere una spesa da far sballare il patto di stabilità attrezzare Roma con piste ciclabili. Tante soluzioni sembrerebbero a portata di mano. Basterebbe, credo, tirare una riga di vernice per separare tanti marciapiedi in due: da una parte i pedoni e dall’altra le bici. Così come i controviali (vedi la Nomentana) si potrebbero riservare alle bici, anziché alle auto.
Infine c’è il viaggio di ritorno.
Non c’è un treno che da Roma a Ferrara carichi le due ruote. Perciò occorre prendere solo convogli regionali: Roma-Firenze, Firenze-Prato, Prato-Bologna e Bologna-Ferrara.
Va detto che è encomiabile la disponibilità e cortesia dei capitreno, che spesso si fanno in quattro per far salire velocipedi anche oltre la disponibilità (sono numerosi ormai i pendolari che si portano con sé la bici nei loro spostamenti di lavoro o studio).
Ma chi ha fatto almeno una volta la Dobbiaco Lienz, sa che a fine treno nella stazione della cittadina austriaca c’è un vagone che ne carica un numero esagerato e che nel solo Trentino puoi salire con la tua amica di metallo su qualsiasi treno.
Qualcuno ha detto che il solo mercato tedesco delle due ruote a pedali si aggira sui 3,5 milioni di turisti.
Come si fa a continuare a sfornare spot in cui fior di attori e star dello schermo ti dicono con fare suadente, come se dovessi andare a letto con Pamela Anderson: “Vieni nelle Marche”, piuttosto che in qualunque altra regione italiana (le immagini incantevoli non mancano e i fotografi fanno oggettivamente poca fatica), se poi una volta varcato il confine pare ci sia una gara a inscenare il peggior ufficio complicazioni affari semplici?

Nove mesi di attesa. E la borsa di studio diventa un miraggio per settemila studenti

di Emiliano Trovati

Sostenere economicamente gli studenti meritevoli, attraverso la messa al bando di borse di studio. L’Inpdap da anni, con il progetto #Homo Sapiens Sapiens, finanzia il percorso formativo di migliaia di giovani, rispondendo in maniera lodevole al precetto costituzionale “l’istruzione superiore deve essere accessibile sulle basi del merito”. Un’attività però, che, nonostante venga garantita in anni difficili, sconta il peso della macchina burocratica pubblica, abbandonando i beneficiari nel purgatorio delle borse di studio.

Sette mila sussidi per lo studio, una grossa opportunità offerta dall’Inpdap – oggi integrata nell’Inps – per altrettanti studenti universitari, masterizzandi, dottorandi e tirocinanti, figli di ex dipendenti pubblici oramai in pensione, che ne facciano richiesta. Si chiama #Homo_Sapiens_Sapiens ed è una delle iniziative welfare dell’ente di previdenza, per incentivare lo studio e la ricerca italiani. Il progetto esiste da diversi anni e anche se non ha mai brillato per velocità di lavorazione delle pratiche e liquidazione delle borse ai vincitori, quest’anno, a detta di molti studenti, che ne hanno fatto domanda, l’attesa è stata un vero e proprio “purgatorio”.
Sono passati oltre nove mesi dalla pubblicazione del bando sul sito dell’Inps – era il 21 ottobre scorso – ma a tutt’oggi le borse non sono ancora state pagate. Questa lunga attesa, fatta di graduatorie pubblicate in ritardo e richieste di documenti aggiuntivi da consegnare, si è nutrita per tutto questo tempo della speranza dei ragazzi ed è stata aggravata poi dalla scarsa informazione della pubblica amministrazione.
In questa storia sono due gli aspetti che catturano l’attenzione: la mancanza del principio di ‘giusta attesa’, quando a dover pagare è il pubblico, e la difficoltà dei beneficiari di ottenere informazioni chiare e puntuali riguardo l’iter della propria richiesta.
Parlando con alcuni dei protagonisti, quello che emerge è l’impotenza del singolo di fronte all’ente pubblico, come un novello Davide che, solo e senza alcuna speranza di riuscita, deve affrontare le lungaggini di un Golia troppo potente che lo sovrasta. Questa condizione è espressa in maniera lucida dall’esperienza di Lorenzo, trentenne della provincia di Bologna, che proprio quel 21 novembre ha fatto richiesta di borsa di studio per svolgere un tirocinio, in una importante impresa locale.
La sua domanda va a buon fine, a marzo escono gli esiti delle graduatorie e Lorenzo ci rientra a pieno, è ottantesimo. Quindi in breve si aspetta di ricevere il suo accredito, necessario per sostentarsi durante il periodo lavorativo che lo attende. Così non è però. Nonostante sia vincitore, infatti, il giovane deve fornire dei documenti aggiuntivi inerenti al suo tirocinio. Per tenersi aggiornato sulla situazione verifica costantemente l’iter della pratica dalla sua pagina personale all’interno del sito dell’Inps, da dove ha fatto domanda di borsa di studio. In una sezione dedicata, chiamata ‘iter personale’, l’ente informa sullo stato dei lavori. Nella sua, come in quella di molti altri, appare la scritta ‘Domanda approvata – attesa documentazione’. Nel frattempo si fa aprile e Lorenzo, come altri, si procura i documenti necessari da consegnare all’ufficio di competenza per territorio, quello di Bologna, in via Gramsci. Da allora, della documentazione consegnata, della borsa di studio e dei tempi per ottenerla, non se ne sa più nulla. Come lui stesso racconta: “Ho consegnato i miei documenti ad aprile, ancora prima che mi venissero richiesti per mail, non appena all’interno della mia pagina personale è apparve la dicitura ‘approvata – attesa documentazione’. Sono andato, ho consegnato i documenti e me li hanno anche protocollati. Da lì, dopo alcuni giorni, non vedendo modifiche, ho iniziato ad inviare alla responsabile dell’ufficio ogni lunedì una mail per avere informazioni. Fino al 3 giugno non ho avuto risposte. In quella data, poi, ho ricevuto una mail dall’ufficio provinciale, diciamo, poco garbata, in cui mi si chiedeva di smettere di continuare a mandare mail, perché intanto la mia pratica era in lavorazione”.
C’è un altro modo, però, per avere informazioni, e Lorenzo prova ripetutamente anche questa strada, chiamare il call center dell’Inps, al numero 06.164.164. Anche qui, però, non ottiene risposte migliori. Nessuno sa dirgli che fine abbia fatto la sua pratica e a che punto della lavorazione si trovi. “ Ho provato a chiamare il centralino – racconta – anche se avendo fatto il centralinista all’università, per pagarmi gli studi, so come funziona, i ragazzi che rispondono non ne sanno più di quelli che li chiamano. E difatti non hanno saputo dirmi nulla di più di quello che potevo vedere io a video all’interno della mia pagina personale: “Approvata – Attesa documentazione”.

Una situazione del tutto simile la vive Antonella, studentessa dell’università di Bologna, che frequenta un master presso la sede distaccata di Modena. La ragazza, a marzo, secondo la graduatoria, risulta vincitrice della borsa, quindi, come le viene chiesto da una mail, fornisce i documenti che attestano la sua frequenza al master. Porta il materiale alla sede Inps di riferimento e attende con calma l’erogazione della borsa. Per controllare l’avanzamento della pratica, si informa giornalmente dalla pagina Facebook ufficiale dell’Inps, all’interno della quale, con cadenza irregolare, l’ente dirama dei post che informano, in maniera generica, sul programma ‘#Homo_Sapiens_Sapiens’. Ogni post pubblicato viene commentato da centinaia di lamentele di giovani in attesa dei propri soldi. Uno di questi mette in allarme la ragazza. Il 10 giugno scorso, sulla pagina Facebook, appare questo comunicato: “#Homo_Sapiens_Sapiens. La procedura di pagamento per le borse di studio Homo Sapiens Sapiens è stata ultimata”. Antonella, entusiasta, controlla immediatamente il proprio conto corrente, accedendo dal sito della sua banca, ma con grande sorpresa scopre di non aver ricevuto nessun accredito del valore della borsa. “Preoccupata – racconta – ho chiamato immediatamente il call center per capire cosa fosse successo. Ho avuto paura di aver sbagliato qualcosa nel presentare i documenti. Ho temuto di aver perso la borsa. Dal centralino, invece, una ragazza evidentemente stressata e dal tono contrariato, mi ha risposto che a loro non risultava conclusa la procedura di pagamento e che sicuramente quel post era frutto della mancanza di senso dell’umorismo di qualcuno dell’ufficio stampa”. Chi sia a gestire il profilo Facebook dell’Inps non si sa, è certo, però, che lo dovrebbe fare diversamente e meglio. D’altronde basta guardare, come detto prima, ai commenti che seguono ogni post pubblicato, per leggere centinaia di imprecazioni, se non del tutto giuste, quasi nessuna sbagliata, fatte da giovani, spazientiti e in cerca di chiarimenti, e indirizzate al mittente.

L’avvocato Bruno Barbieri, presidente del Codacons per la regione Emilia Romagna, esperto di casi affini a questo, facendolo per lavoro, ha condiviso con noi parte della sua conoscenza professionale, dando alcuni consigli su cosa fare in situazioni simili. Sui due aspetti della vicenda (attesa interminabile e mancanza di informazioni chiare), l’avvocato spiega che, per il primo aspetto, c’è solo una cosa da fare. “Sulla tempistica – dice -, per chi non è addetto ai lavori, non la interpreta andando a leggere il bando, perché a volte alcune cose non sono scritte in maniera chiara. In questo caso specifico, non essendo indicate scadenze da rispettare, il beneficiario ben posizionato in graduatoria, che ne avesse l’esigenza, può forzare la mano promuovendo l’art.700 (un procedimento d’urgenza) davanti al Tar, dicendo, guardate a me i soldi servono adesso perché ne ho bisogno per pagare la rata del master per il quale ho fatto richiesta. In questo caso il Tar potrebbe dare ragione ed ordinare alla pubblica amministrazione di pagare subito”. Comunque, il primo passo da compiere per l’avvocato è la diffida, “un atto con cui la persona intima alla controparte, questa volta un ente pubblico, di adempiere ad un fare o dare entro un determinato termine, normalmente 30 giorni. Se questo non viene rispettato si va dal Tar, chiedendo al giudice di imporre, con un atto di autorità, di fare ciò che deve”. Un’ulteriore cosa da fare, secondo Barbieri, per spingere un ente a velocizzare le pratiche, può essere “prima dell’azione giudiziaria, affiancare a questa i mass media che danno forza all’azione, e a volte nel giro di poco si risolve, perché l’Ente non vuol fare brutta figura”. Nell’affrontare un ente pubblico, quindi, conoscere qualcuno a striscia la notizia aiuta.
Per il secondo aspetto, e cioè “sul problema della trasparenza dell’operato della pubblica amministrazione, così come degli istituti bancari e degli altri soggetti che fanno attività di pubblica utilità, va detto che l’operato di questo dovrebbe essere trasparente sin dall’inizio. Quando uno vede il bando, dovrebbero essere previste quante più possibili situazioni che si possono verificare in modo classico nello sviluppo della vita dello stesso. Se così non è, appunto, la bontà della pubblica amministrazione, piuttosto che una fondazione, si vede proprio dalla capacità di rispondere in maniera chiara alle domande degli utenti”. Anche in questo caso, però, l’utente ha le mani legate. “Essendo, gli enti pubblici, – conclude Barbieri – soggetti diretti da persone messe lì da politici, per legge, l’unico strumento che si ha, oltre l’autorità giudiziaria, è di dare un giudizio all’atto dell’esercizio del diritto di voto”.

[© www.lastefani.it]

Cultura, plurale rivoluzionario. In un film l’utopia possibile di Stefano Tassinari

di Silvia De Santis

Tass – Storia di Stefano Tassinari”, il film del regista Stefano Massari che racconta la vita di Stefano Tassinari, è stato presentato nei giorni scorsi in anteprima Bologna al Biografilm festival. E’ il solido ritratto di un uomo eclettico, scrittore, giornalista e attivista politico. Cinquanta voci (tra cui Marcello Fois, Carlo Lucarelli e Fausto Bertinotti) raccontano in un’opera corale l’intellettuale-militante ferrarese scomparso due anni fa, che ha fondato “Letteraria” e l’“Associazione degli scrittori” bolognesi.

Un eretico senza scisma, un uomo che“pur schierato da una parte, pur aderendo a una fede, quella comunista, conservava la propria libertà” lo definisce Fausto Bertinotti. Per altri, “un corteggiatore instancabile” sempre intento a tessere reti di persone, “un trascinatore con le parole e con l’esempio”.
In “Tass – Storia di Stefano Tassinari” (regia di Stefano Massari, fresco di montaggio) cinquanta voci raccontano questo peculiare scrittore-giornalista-attivista politico di Ferrara, moderno prototipo dell’“intellettuale organico gramsciano”, che ha tracciato un solco profondo nella storia culturale bolognese. Ricercatore insaziabile di nuove forme, inventore di originali percorsi comunicativi, Tassinari ha dato vita all’“Associazione degli scrittori”, per far sì che anche letterati e uomini di cultura tornassero ad assolvere ai propri doveri nei confronti della collettività e si riappropriassero della loro intrinseca funzione sociale.
In un documentario-fiume di centotrenta minuti, il regista Stefano Massari ricostruisce per tappe la biografia di un autore poliedrico che fu narratore, giornalista, poeta, critico letterario, musicista, militante politico. Scrutando nel suo passato si torna indietro nel tempo a Ferrara, dove Stefano era nato da una famiglia piccolo borghese. Si va poi a Roma, nella casa di via Marchetti, durante i suoi anni universitari, quando la “luce ribelle nello sguardo” si era fatta azione politica. Poi i viaggi: il primo, di “formazione”, nel 1981, in Perù per sperimentare il limite tra estremismo di sinistra e terrorismo bombarolo; il secondo tre anni dopo, in Nicaragua, per testimoniare, telecamera alla mano, gli effetti del socialismo tropicale dei sandinisti al governo.
Gli ultimi dodici anni di vita di Tassinari sono quelli più prolifici, in cui diverse forme espressive si intrecciano e sovrappongono, delineando un intellettuale instancabile, “il commissario politico Tassinari”, lo chiama Carlo Lucarelli, con un’incrollabile fede nella coralità.
In un’intervista a La Stefani, Stefano Massari racconta il suo film, presentato in anteprima alla rassegna cinematografica Biografilm Festival a Bologna .

Conoscevi personalmente Stefano?
Ho conosciuto Stefano nel 1996 quando, per motivi di lavoro, mi sono trasferito da Roma a Bologna. Essendomi sempre interessato di letteratura e scrittura militante non ho potuto non incontrare Stefano, sopratutto in quelli che erano anni caldi per la città. Ma non frequentavamo le stesse cerchie. Lui era uno scrittore, io un poeta, bazzicavo ambienti più laterali, sotterranei, ero amico di Gilberto Centi. Stefano lo incrociavo spesso alle presentazioni di libri ma non conoscendolo avevo un’opinione errata sul suo conto: complice, forse, la mia natura ostinatamente anarchica, credevo fosse un uomo dell’apparato, una specie di accademico non accademico, un embedded. Mi sbagliavo completamente.

Quando hai cambiato idea?
Ci siamo avvicinati sopratutto negli ultimi anni, quando per vicissitudini familiari sono andato a vivere fuori Bologna e con la mia attuale compagna abbiamo aperto una libreria indipendente. Organizzavamo attività culturali, presentazioni di libri, rassegne di autori e Tassinari era sempre lì, in prima linea, per forza. Così, col tempo, siamo diventati molto amici. Abbiamo anche lavorato insieme: abbiamo condotto un paio di puntate di “Passioni”, la versione radiofonica di “Raccontando”, uno spettacolo che Stefano teneva a teatro, in cui di volta in volta sceglieva un autore e lo approfondiva.
L’ultima puntata andò in onda su Farheneit due giorni dopo la sua morte, l’avevamo registrata un mese prima. Nonostante la malattia Stefano lavorò fino all’ultimo e intensamente. Probabilmente i problemi di salute intensificarono direzioni che in fondo erano già state prese: Stefano era abituato a “mettere tanta carne al fuoco”, ad avviare continuamente progetti, era difficile stargli dietro, andava a un passo che non era comune. Già da malato, quando usciva un suo libro, faceva novanta presentazioni che per lui non erano un’occasione di marketing, ma un pretesto per entrare nel dettaglio delle storie, raccontarsi. Non ha mai mollato un secondo. Il suo è stato un percorso interrotto solo dalla malattia.

L’Associazione degli Scrittori è uno dei progetti spezzati?
L’Associazione degli Scrittori era un progetto di ampio respiro e di larghe prospettive che, nelle intenzioni di Stefano, avrebbe fatto di Bologna la capitale della scrittura, pur mancando un editore di riferimento. Era l’incarnazione ideale di quella che secondo lui era la missione dello scrittore: esercitare una critica nei confronti della società, mettere a disposizione il proprio sguardo, pensiero e posizione per creare una possibilità di dialogo con chi non è solo il proprio pubblico, ma potenzialmente anche un popolo. Oggi abbiamo sempre più spesso presunti intellettuali che si collocano in nicchie di mercato e elogiano qualunque cosa convenga loro, sempre confinati all’interno di un certo specialismo. Proprio contro questa visione si batteva Stefano, che voleva far uscire ciascuno dal proprio guscio e spingeva persone profondamente diverse, con forme e stili molto lontani tra di loro, ad aggregarsi, a fare rete (di cui l’idea della Casa degli scrittori è un esempio). Diceva Tass: “Non potete solo fare i divi crogiolandovi nei vostri successi, avete una responsabilità sociale”. Lui che aveva un rispetto e un amore estremo per la differenza, ha sempre spinto verso la dimensione del noi.
Per dirla con le parole di Lucarelli, l’Associazione oggi è “in stato di sonno”, non è un progetto finito. Probabilmente la sua incarnazione principale è ‘Letteraria’, la rivista che Stefano aveva messo in piedi.

Cosa ti ha lasciato in eredità Tass?
Una delle cose che ho imparato da lui è stata la capacità di mettere insieme le intelligenze per affrontare problematiche anche di tipo sociale e politico. E poi il senso del noi: ha sempre cercato di tenere viva la dimensione collettiva, senza farne un’idolatria nostalgica né trasformandola in personalismo, ma tenendola come stimolo alto del suo fare. Ha sempre cercato di avere un ruolo di ponte: tenere insieme l’io e il noi. Una scelta che ha scontato anche dal punto di vista del riconoscimento culturale perché era uno che non si piegava: mediava, ma fin dove poteva, una figura poco italiana da questo punto di vista. volutamente non era una persona scomoda: aveva le idee molte chiare, con un rispetto e una curiosità estrema verso tutto, ed era un perfezionista. Io stesso sono stato “vittima” di un paio d’ore di meticolosa spiegazione matematica sulla roulette – un suo piccolo vizio.
Negli anni ho scoperto quanto mi abbia influenzato il suo modo di fare progettazione culturale. Con Stefano condividevo la determinazione – autolesionistica quasi – di tentare di incidere sempre, di dire qualcosa di importante, di lasciare un segno, oltre alla voglia di sperimentare sempre nuove forme espressive. Io ho sempre lavorato con i video, i suoni, cercando un percorso di disciplina e di rigore con ognuna delle forme che esploravo e che tentavo di far interagire. Lui, questo, lo apprezzava molto.

Qual è il ritratto di Stefano che viene fuori dal film?
Non lo so ancora, perché ho finito di montare il documentario il giorno prima della proiezione. La versione tagliata dura due ore e dieci: è un kolossal dei documentari che sicuramente tradisce la brevità televisiva, ma questa volta mi sono messo interamente a servizio della storia, impossibile da contenere in qualsiasi formato precotto.
Non avevo una sceneggiatura o una traccia definita perché per me la storia di Stefano è stata una scoperta, soprattutto il suo passato ferrarese, poco conosciuto ma fondamentale per capire tutta la sua biografia. In questo lavoro si sollecita l’uso della memoria per accenni, ma l’intento non è nostalgico né celebrativo, mira piuttosto a offrire una comprensione del presente. Volevo far prendere coscienza che certi valori e motivi sono ancora attualissimi e possono essere strumenti culturali da impiegare nel nostro tempo. Tassinari ha sempre incarnato un’altra possibilità e nel film ho cercato di dare conto soprattutto di questo: che il suo progettare era possibile, che esistono opportunità alternative al personalismo e al divismo, malattie odierne di quasi tutti i mondi creativi.

Come hai organizzato il lavoro?
Nella realizzazione del video mi ha molto aiutato Stefania, la moglie di Stefano. Il primo elenco di persone che avevo deciso di intervistare contava novantatre nomi. In un primo momento l’ho ridotto a trentacinque, per poi tornare a cinquanta, agli amici veri, quelli più stretti. Nel documentario ho usato spudoratamente tutte le testimonianze, senza gerarchie. Di protagonisti ce n’è solo uno: Stefano e la sua storia.
Il documentario per me è uno strumento di ascolto, ricerca, studio, mentre la scrittura è il luogo in cui ricordo, tento di ridare forma a qualcosa che ho vissuto per restituirla e metterla in contatto col mondo e col destino. Ho lavorato a questo video con la sensazione di un senso di perdita che mano a mano si manifestava accanto a me. Mi sono ripetuto: “Abbiamo perso qualcosa di grosso”, che a volte abbiamo anche fatto fatica a capire.

Nel film, il pittore Concetto Pozzati dice: “Senza Stefano non è una voce in meno, è la voce che manca”. La voce di una persona che, in nome di una ideale in cui credeva, ha messo insieme tutti coloro che condividevano quel progetto di trasformazione affinché le loro voci unite diventassero un grido di rivolta e l’annuncio di un mondo possibile.

[© www.lastefani.it]

Professione blogger: tutti i segreti del mestiere

di Alice Magnani

Parlano di moda, cinema, design, enogastronomia e sono le più frizzanti del momento. Stiamo parlando delle blogger, ragazze che trovano nel web un modo per condividere le loro passioni o per trovarne sempre di nuove. Ne abbiamo intervistate tre per capire come funziona il loro mondo, la ‘dimensione blog’, da molti conosciuta ed esaltata e da qualcuno criticata. Ma partiamo dai fondamentali. Che cos’è un blog? La parola blog è costruita sui termini web-log che indicano un vero e proprio ‘diario in rete’, un particolare tipo di sito web in cui i contenuti sono visualizzati in forma cronologica. Un blog può essere gestito da uno o più blogger che pubblicano, più o meno periodicamente, contenuti multimediali, in forma testuale o in forma di post, molto simile all’articolo giornalistico.

“Con il mio blog riesco a far vivere tutte le mie passioni, mi ha fatto capire che tutto è raggiungibile” così Maria Andreucci ci racconta il suo blog, la sua avventura, “Italian cooking adventure”, iniziata quasi per caso nel 2010. Il pranzo domenicale in famiglia preparato con cura, la produzione del pane che inizia nel cuore della notte, l’asta del pesce, o ancora i curiosi personaggi dell’ex mercato coperto di Cesena, la sua città: queste le storie che la affascinavano e che decide di condividere nel web. Dunque, non solo cibo nel suo blog, ma vere e proprie storie legate ai personaggi che ci ruotano attorno, alla convivialità, e al territorio. “Racconto l’Italia tramite la lente del cibo” dice Maria, spiegando che la creazione del suo blog non è stata altro che una scusa per approfondire ciò che più le piace. Ad ispirarla i blog americani, che le hanno fatto capire il ruolo fondamentale della fotografia per raccontare un Paese, le sue storie e le sue curiosità. Poi Maria parte per Londra, un’esperienza unica per studiare l’altra sua grande passione: il cinema. Ed è proprio a Londra che capisce quanto gli stranieri per primi amino l’Italia e la sua gastronomia, e le possibilità che il suo blog può offrirle: inizia a tradurlo in inglese e il numero dei visitatori cresce; oggi è seguita da Regno Unito, Usa, Danimarca, Svezia, Norvegia e Giappone. “All’estero non esiste il concetto di famiglia riunita a tavola come c’è da noi, è per questo che quando parli di Italia ti si aprono tutte le porte. Non a caso, i maggiori imperi economici che parlano di cucina italiana si trovano all’estero” spiega Maria, che ci tiene a sottolineare come “il mio blog non è un ricettario, ma un panorama di avventure gastronomiche: ristoranti, cultura gastronomica popolare e tutto quello che c’è dietro il cibo”. “Un altro elemento da cui i lettori stranieri sono affascinati è il rapporto diretto con il produttore, che loro spesso non hanno- ci dice Maria- ma questo non significa che in Italia il mio blog non sia letto, perché anche gli italiani hanno iniziato a capire il valore che abbiamo a disposizione e a manifestare un po’ di sano orgoglio”. Al momento Italian cooking adventure riceve circa 200 visite al giorno facendosi conoscere in tutto il mondo, anche grazie alla diffusione nei social network come Facebook ed Instagram.
Ma qual è il ricavo economico dietro al blog?
“Per poter guadagnare tramite il blog sono entrata nei backstage dei ristoranti, ho studiato la preparazione dei menù, seguito il processo di preparazione dei prodotti delle singole aziende, fatto tour alla scoperta delle eccellenze del territorio. Ma il blog è stato, soprattutto, anche un punto di partenza per farmi conoscere e ha fatto si che io possa portare avanti collaborazioni di tipo continuative”.

Un caso da imitare quello di Maria, che tramite lo studio autonomo di saggi e riviste sull’enogastronomia e tanta voglia di imparare, è arrivata a collaborare con i migliori cuochi e a partecipare agli eventi icona del settore come la fiera ‘Cibus International Food Exhibition’ di Parma, ‘Identità golose’ a Milano o ancora il ‘Festival del cinema’ di Venezia per far conoscere l’Italia tramite “la lente del cibo”.

 

Un’altra storia quella di Valentina Veneziano che, con i suoi blog “Cabinarmadio” e “Valinapostit” , riesce a far convivere le sue più grandi passioni: moda, arredamento, decorazioni fai-da-te e ancora il cinema. Quando le chiediamo che cosa significa per lei il suo blog ci risponde “è come un magnifico quadro in una stanza semivuota, è ciò che mi dona il sorriso ogni giorno!”. Un entusiasmo tipico, il suo, delle persone che vivono coltivando i loro interessi e che non si annoiano mai. Valentina apre il suo blog “Cabinarmadio” nel 2012, dopo aver vinto il concorso come style blogger organizzato dalla rivista “Style.it”. Suggerimenti sui film da vedere nel tempo libero, proposte di outfit ispirati alle stagioni o alle tendenze, idee per regali, home-decor, profili Istagram da seguire: è questo ciò che Valentina ama condividere con le sue lettrici. “In Cabinarmadio mescolo quello che piace a me per prima e quello che credo possa piacere alle lettrici, i miei post non sono strettamente legati a ciò che va di moda – ci spiega Valentina, che sul blog si firma come ‘Valentinautoironica’ -, visto che cerco di non prendermi mai troppo sul serio”. Valinapostit, l’altro blog di Valentina, è invece più personale, con una grafica e colori scelti da lei. “Aprilo è stata una scelta personale, per poter scrivere tutto quello che voglio, è il mio grande esperimento personale” ci spiega. Un esperimento che osiamo definire vasto, vista la suddivisione in cinque tematiche, in cui Valentina condivide con i lettori pareri di moda, racconti dalla sua vita privata, testimonianze di viaggi, suggerimenti per la casa e di profili Instagram di tendenza. A leggerlo sembra di essere trascinati dentro al suo diario personale, come quello che alle adolescenti piace tanto scrivere, riempire di pensieri o scarabocchiare. Una grande passione per il british e per tutto ciò che è creativo caratterizza Valentina, che è sempre stata attirata dai blog stranieri di cucina, arredamento, mondo della moda, e da cui ha capito che le foto hanno un ruolo fondamentale per attirare e far partecipare il lettore. Il rapporto con i lettori è fondamentale infatti per crescere, per ispirarsi o ancora per essere criticati perché, soprattutto in fatto di moda, “è normale che non la pensiamo tutti allo stesso modo” spiega Valentina. E aggiunge ”E’ molto gratificante vedere come alcune persone ti seguano assiduamente e lo dimostrino tramite i commenti. Cerco sempre di rispondere a tutti, anche solo per avere un riscontro”. Un vero e proprio lavoro quello di una blogger, perché, oltre a rispondere ai commenti, bisogna sapere mantenere una certa frequenza nello scrivere i post. “Scrivere almeno una volta a settimana è d’obbligo, ma se ti piace quello che fai, viene naturale” ci dice Valentina. Per scrivere in un blog poi, come in tutti i mestieri, il tempo è maestro. È con il passare del tempo, infatti, che si impara il confronto con gli altri blogger, si prende ispirazione e si capisce cosa attrae di più i lettori, oltre a gestire argomenti fra loro diversi.

Ma quanto è alto il ricavo economico dietro il blog?
Valentina ci spiega come il suo blog non le dia un vero e proprio ricavo economico, quanto sia piuttosto un trampolino per farsi conoscere, per far vedere come scrive e per attivare collaborazioni con altre testate. “Gli unici ricavi economici che ottengo tramite il blog dipendono dai programmi di affiliazione con le case produttrici: se aumentano gli acquisti di un prodotto che pubblico sul mio blog, allora ottengo una minima percentuale della vendita. Ma per poter guadagnare in questo modo, gli acquisti dovrebbero arrivare a cifre enormi e, del resto, io non ho mai accettato di fare pubblicità in cambio di prodotti gratuiti” ci spiega Valentina.

Finora il blog è stato all’altezza delle tue aspettative?
“Certamente sì, anzi è andato oltre! Mi ha aiutato a migliorare il mio livello di scrittura, facendomi così collaborare con diverse riviste. Poi ho imparato ad usare i programmi di grafica e che cosa vuol dire stare dietro al marketing/digital”. Sono traguardi fai-da-te quelli che ha raggiunto Valentina e che, ogni volta, la rendono orgogliosa del percorso che ha fatto. Prendiamo ispirazione!

 

Dopo aver parlato di cucina e moda, è ora il turno della ‘dimensione casa’, perché di blog ne esistono veramente per tutti i gusti. E ne parliamo scoprendo Maria Vicini, autrice del blog “The Violet Wool”, nato l’11 gennaio 2012. Maria è una giovane blogger che mette tutte le sue energie nella ricerca delle nuove tendenze di interior design e home decor, per poi condividerle sul web. È con una dedica alla nipotina Viola, costante fonte di ispirazione, che nasce il suo blog “The Violet Wool”. “Stavo per trasferirmi a Parigi per studi quando ho saputo del lieto arrivo e, da quel giorno, non ho più smesso di pensare a Viola: è grazie a lei se ho aperto il mio blog e se lo arricchisco ogni giorno coltivando tutte le mie più grandi passioni” ci racconta Maria. Non solo interesse ma anche preparazione dietro il suo blog: Maria ha infatti studiato per due mesi a Londra alla Central Saint Martins College of Arts and Design, imparando i fondamentali di Design Project e Interior Styling. Studi che le hanno fatto capire come il mondo dell’interior fosse la sua più grande passione, che ancora oggi coltiva. Nel suo blog, che riceve dalle 600 alle 1000 visite al giorno, si ritrova tutto ciò che è inerente alla casa: tutorial, decorazioni, esempi di apparecchiature, arredamento. “Il blog richiede grande attenzione, mi impongo di scriverci più volte alla settimana e sono sempre alla ricerca di miglioramenti per la grafica e per la fotografia, che occupa gran parte dello spazio web. Senza dimenticarmi l’interazione con i lettori e l’attività sui social network come Facebook, Instagram e Pinterest, che donano visibilità e diffusione” ci racconta . Quindi un grande impegno dietro e un blog che cambia agli occhi dei lettori, soprattutto da quando Maria è stata scelta come lifestyle blogger dalla rivista “Grazia.it”.
E i guadagni?
Maria ci racconta come i suoi guadagni siano tutti derivanti da collaborazioni attivate tramite il blog, oltre che da collaborazioni esterne. “Il mio blog, oltre ad essere espressione delle mie passioni, si è rivelato un ottimo strumento per farmi conoscere” spiega.

[© www.lastefani.it]

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