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Nella prima parte dell’articolo [leggi], l’autore traeva spunto da una citazione del celebre economista Victor Lebow del 1955, per fare un passo indietro nella storia e rintracciare i caratteri fondanti dello spirito del consumismo, ossia del pensiero egemone ancora oggi. Nella parte che segue, invece, indica rischi e soluzioni praticabili per scrollarci dalle spalle il peso dei “consumi” ed evolvere finalmente sulla strada dei “bisogni” .

4. Il rischio del riduzionismo fondato sul PIL
Ad onor del vero questo modello imperante fondato sul PIL e la coazione al consumo è stato messo in discussione fin dal suo avvento, non solo dai critici di professione ma anche da soggetti ben addentro nelle pratiche del potere; ecco, per restare sempre oltre Atlantico, cosa ne disse R.Kennedy, allora candidato alla presidenza, nel suo celebre discorso del 1968, pochi giorni prima di essere assassinato:

“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.

Un discorso di straordinaria attualità (credo che vorremmo tutti poter essere orgogliosi di essere italiani) che ci mostra come anche un potente possa uscire dallo stereotipo e lanciare nuove sfide se davvero è un leader dotato di visione. Un discorso che ci mostra con esemplare chiarezza i rischi che si corrono quando un indice (qualsiasi indice) viene sostituito alla realtà dei fatti che dovrebbe rappresentare.

5. Le conseguenze inattese e gli effetti perversi della crescita
Cosa si paga per questo riduzionismo esasperato ed dominante fondato sull’imperativo della crescita, quotidianamente celebrato dai media, globalmente accettato ma che appare quanto mai fuori luogo, almeno da un punto di vista epistemologico, in un contesto che dice di fare della complessità, della pluralità e della libera ricerca della verità i suoi fondamenti? A fronte della mostruosa produzioni di merci che stanno avvelenando il pianeta e che sembrano offrire – almeno a noi occidentali (non ancora impoveriti) –  grandi possibilità di scelta e la possibilità di crogiolarsi nella propria soggettività svuotata di vigore, ecco alcuni degli effetti perversi (ma non certo inattesi) che ci toccano direttamente:

  • la distruzione dell’ambiente e l’inquinamento (fronteggiare con greenwashing e se si può con nuove tecnologie pulite);
  • la crescita costante del disorientamento e dell’alienazione (curare con Prozac, Viagra e con tutti i preparati di big pharma);
  • L’aumento della patologizzazione e la conseguente sempre più estesa medicalizzazione della vita;
  • la diminuzione del senso di sicurezza e della fiducia (risolvere con aumento della videosorveglianza, della forze di polizia private e la guerra implacabile al terrorismo);
  • l’esclusione di sempre più persone dalla fruizione di beni e servizi e la concentrazione della ricchezza in pochissime mani (nessuna soluzione).

A tutto questo la cultura mainstream, incurante delle conseguenze, contrappone dunque le sue soluzioni perfettamente in linea con la sfida consumista lanciata da Lebow 60 anni fa e quotidianamente ribadita da un esercito di neo liberisti d’accatto (politici, giornalisti, professionisti, consulenti, docenti): più consumo, più crescita, più libero mercato. Nessuno di costoro viene sfiorato dall’idea che si possa e forse si debba cambiare direzione ed inventare qualcosa di diverso.  Ovviamente, nessuna presa di posizione decisa, che vada al di là della chiacchiera politicamente corretta, per fronteggiare gli effetti perversi, le esternalità e gli effetti collaterali; poca o nessuna riflessione seria ed approfondita sulla dimensione dei bisogni, sul modo in cui sono socialmente organizzati e sui modi alternativi attraverso cui le persone potrebbero soddisfarli.

6.Che fare? In cerca di soluzioni innovative
E’ possibile uscirne salvando capra e cavoli e, in caso affermativo, come? In tal senso è ancora percorribile ed utile l’alternativa exit or voice (or loyalty) proposta da A. Hirshmann nel lontano 1970? O forse sta emergendo qualcosa di nuovo, di cui non si riconoscono ancora i contenuti, i confini e le potenzialità?

Ciò che davvero inquieta nella prospettiva dominante è la pretesa, che non esito a definire metafisica, di risolvere l’umano nel consumo e di volere imporre questa unica scelta indiscriminatamente a tutti i paesi e a tutte le culture. Questa situazione non rosea, resa più chiara dagli effetti della crisi e ancor più dai rimedi somministrati dai potenti per affrontarla, ha però il pregio di mettere i cittadini di fronte ai fatti crudi, un passaggio insidioso ma forse indispensabile per una diffusa presa di consapevolezza; offre una spinta ad evolvere, come affermano molti soggetti vicini a tutte quelle costellazioni di movimenti che sempre più spesso cercano di costruire forme alternative di vita, di esplorare piste creative ed innovative che sempre più spesso coinvolgono la sfera personale, culturale e sociale; stimola a riflettere e ad inventare soluzioni non convenzionali, a pensare fuori dagli schemi e ad ampliare gli schemi di pensiero; suggerisce di inventare nuove soluzioni e modelli che rendano obsoleta la realtà esistente.

Di sicuro qui c’è una grande sfida anche per tutti quegli operatori del bisogno (penso in particolare alle professioni di cura, sanitarie e sociali)  che non si fermano a svolgere il loro compitino ma allargano la loro riflessione sul bisogno, fino ad indagarne le cause sociali ed ambientali. Di sicuro un cambiamento diffuso è necessario poiché non ci si può più permettere – citando G. Bateson – l’ostinazione molto occidentale di curare i sintomi senza dedicare ogni sforzo per intervenire sul sistema; e, di sicuro, il sistema a cui faceva riferimento non era quello economico neo liberista né quello finanziario che tante attenzioni ricevono dalla nostra classe dirigente.

2. FINE

Leggi la prima parte

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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