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da MOSCA – Qualche giorno fa, osservando alcuni palazzi moscoviti elegantemente illuminati, mi è parso di vedere affacciarsi alla finestra una ragazza dal viso dolcissimo, dai lineamenti fini e delicati, pettinata in maniera un po’ antica ma molto elegante. Le tendine bianche attraverso le quali l’avevo intravista erano state da lei gentilmente ma frettolosamente richiuse. Mi rimaneva una sensazione di sorpresa, di curiosità e di dejà vu.
In effetti, la stessa percezione l’avevo avuta lo scorso luglio, quando, camminando per i vialetti del Gorky Park, avevo colto una figura leggiadra correre fra le rose e infine nascondersi dietro una siepe, furtivamente. Come allora, ho avuto l’impressione di scorgere una raffinata, garbata e aggraziata zarina. Dietro piante fiorite, rigorosamente e ordinatamente in fila, avevo anche immaginato svolgersi la scena in cui la graziosa figlia di Grigorij Ivanović Muromskij, Lizaveta-Akulina, sussurrava dolci parole al suo Aleksej, figlio dell’odiato Ivan Petrović, lungo la strada ombreggiata del boschetto che Puškin descrive con la maestria che lo contraddistingue. I cespugli parevano gli stessi, così come le leggere frasche fruscianti. I messaggi trepidanti, lasciati negli incavi degli alberi, avrebbero potuto davvero essere ancora nascosti lì. Mi era piaciuta l’idea di andare a cercarne qualcuno, avevo immaginato di poter trovare una nota manoscritta, una calligrafia femminile tornita. E a quel punto, persa fra innamorati e zarine, mi sono ricordata delle fiabe russe e di una, in particolare, che oggi vorrei raccontarvi, arricchendola sì di qualche particolare, ma restandovi fondamentalmente fedele. Questa bellissima storia d’amore della tradizione popolare russa, che ben si addice non solo a chi è innamorato, parla di una zarina liutista dall’animo nobile.
Moglie di uno zar, questa bellissima donna, generosa e intelligente, suonava meravigliosamente il liuto. L’incanto puro usciva dalle corde del suo strumento, sfiorate leggermente e amorevolmente dalle dita sottili e delicate. Un bel giorno, il marito partì per un viaggio in Oriente e qui, caduto vittima di un’imboscata, venne catturato dai soldati di un sultano e rinchiuso in un carcere buio, triste, umido e maleodorante.
La zarina si vide ben presto recapitare una lettera con una richiesta di riscatto (tre vascelli d’oro e la più giovane principessa in sposa al sultano) che, se accettata, avrebbe privato il regno delle sue uniche ricchezze e lei della sua amata figlia. La zarina non volle cedere e chiese ai suoi cortigiani di lasciare che si occupasse della situazione da sola. Dovevano solo aspettare il suo ritorno, con fiducia. Senza dire nulla a nessuno del suo piano, si chiuse nelle sue stanze dorate, si tagliò le lunghe, folte e lucide chiome, si vestì da paggio, prese il suo liuto e si mise in viaggio verso Oriente.
Giunta alla presenza del sultano rapitore, travestita da valletto, gli si presentò come un abile suonatore di liuto, felice di poterne allietare le giornate con sognanti melodie d’altri tempi.
Dopo che le note più belle si erano effuse per il palazzo, il sultano, deliziato da tanta abilità e maestria, chiese al suonatore di rimanere accanto a lui ancora per molti giorni, il tempo necessario per affezionarsi al musicista. Dopo un mese di permanenza, alla zarina fu chiesto di rimanere almeno un altro mese, in cambio di un gesto di generosità reale: ella avrebbe scelto per sé un prigioniero, proveniente dalla sua terra, in attesa di ricevere il riscatto richiesto per lui.
Accompagnata dalle guardie nelle prigioni sotterranee, la zarina, vestita da uomo, riconobbe immediatamente il marito, ma non viceversa. Lo zar, tuttavia, si rallegrò alla notizia di aver di fronte un musicista che era riuscito a strappare al sultano la promessa di poterlo ricondurre con sé nella loro comune patria. Prima del congedo, il paggio suonò una musica che allo zar ricordò quella della dolce compagna, ma questo lo portò soltanto a proferire parole di rimpianto, di tristezza e ira per moglie e sudditi che, a suo parere, non avevano fatto nulla per liberarlo. Lungo tutto il viaggio di ritorno il liutista non aprì bocca, era triste e forse anche un po’ deluso. Ma quel silenzio venne scambiato per timidezza e soggezione. Lo zar era riconoscente solo al suonatore sconosciuto e continuava a dubitare dell’amore della sua famiglia. Giunti in patria, il liutista sparì, dopo aver lasciato lo zar al cospetto della sua corte. Adirato con la moglie, di cui tutti ignoravano la sorte, e angosciato per la scomparsa del suo liutista, lo zar aveva dato ordine di cercarlo ovunque. Per lui avrebbe dato tutto, ogni bene prezioso, per quello sconosciuto che gli aveva salvato la vita in maniera tanto generosa e disinteressata. La mattina del quarto giorno, lo zar sentì il suono dolcissimo di un liuto provenire dal suo giardino alberato e fatato. Era sicuro che si trattasse del suo amico e salvatore. Precipitatosi fuori, su un prato fiorito vicino a una fontana, intravide la sagoma del liutista. Ma solo avvicinandosi capì che si trattava di sua moglie, vestita con gli abiti da zarina ma con i capelli ancora corti, dal taglio mascolino. La donna gli chiese se gli piacesse quella musica tanto amata dal sultano d’Oriente, e lo zar, stupefatto comprese allora che la splendida moglie aveva sfidato per lui la sorte, sofferto e corso enormi rischi per salvarlo; si vergognò di aver dubitato di una donna che era riuscita in un’impresa che solo un immenso amore poteva guidare.
“Per il futuro” esclamò lo zar, prevenendo le sue parole, “sarò più cauto nel giudicare”.
I festeggiamenti furono splendidi: per tre giorni e tre notti ci fu un grande banchetto con danze, suoni, canti, baci e…

quel gran pranzo sopraffino
io l’ho visto da vicino;
tre confetti ho ricevuto,
tutto il resto l’ho perduto.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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