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di Liliana Cerqueni

Rocco è arrivato in Germania, a Duisburg, da qualche giorno per incontrare lo zio Gaetano ed il cugino Salvatore. Non si vedevano da almeno tre anni ma i legami di sangue permettono di superare le assenze e le distanze, dicono sempre. Si sono salutati con trasporto e grandi abbracci, parlano tutti insieme perché le domande sono tante e la voglia di raccontare trabocca.
Lo zio era partito da San Cono, in Sicilia, nel 1968, aveva solo 17 anni e la fame addosso che lo avvolgeva come una sottile pellicola che non si voleva staccare. La sua famiglia, numerosissima, era tra le più povere del paese e viveva di attività stagionali che gravitavano attorno alla produzione del fico d’india e le mandorle. Non possedevano terra ma braccia sane e forti per fare i braccianti al servizio dei grandi proprietari degli appezzamenti e questo lavoro dava loro un sostentamento scarso ma sicuro. Braccianti erano stati i bisnonni, i nonni e braccianti erano i giovani che, come zio Gaetano, si graffiavano le mani per raccogliere quelle bacche piene e consistenti passando di pianta in pianta tra estesi filari, senza mai fermarsi da mattina a sera, sotto un sole che disidratava e la fame che tormentava. E nelle annate in cui il prodotto era meno abbondante a causa di insetti e funghi parassiti che flagellavano il raccolto, le famiglie erano costrette a lesinare ancora di più e accontentarsi di campare. Erano gli anni ’60, gli anni in cui anche nella periferia agricola più remota arrivava l’eco dei fermenti e del cambiamento in atto in un’Italia che si stava avviando verso nuovi modelli culturali e prospettive ed un’Europa che già si proponeva come un grande comune denominatore a tutte le tensioni e le richieste delle nuove generazioni. Si leggevano i giornali al bar del paese, si commentava, si criticava ma poi si piegava la schiena e si tornava ai campi perché non è con le chiacchiere che si campa e nemmeno con le manifestazioni di piazza, dicevano i vecchi, meglio lasciarle ai continentali. E la vita continuava a scorrere ai ritmi naturali di quei posti, dove le luci delle prime ore dell’alba assomigliavano alle sfumature del tramonto poichè nessuno le distingueva e le notava tant’era la fatica massacrante che annebbiava gli occhi. Testa china e fatica, tanta fatica, neanche il tempo di guardarsi attorno e godere di quel po’ che era consentito. Bestia da soma, così si sentiva qualcuno, un asino con le bisacce che percorre tutti i giorni la stessa strada avanti indietro, mangia la stessa razione di biada, prende la stessa quantità di botte e reagisce con la stessa rassegnazione di sempre. E la stessa cosa valeva per la vita familiare: si conosceva la ragazza che andava bene alla famiglia, ci si sposava, si facevano i figli, tanti, si condivideva la stessa minestra e si moriva. E uguale sarebbe stato per chi sarebbe arrivato dopo.
La ribellione di zio Gaetano era cominciata piano, in sordina, covando giorno dopo giorno tra i fichi d’india, alimentata dalla fame e dalla frustrazione di quell’esistenza di stenti e mancanza di un futuro diverso. Un giovane doveva avere di meglio, si ripeteva quasi ossessivamente, mentre assisteva all’esodo sempre più consistente dei suoi paesani verso il Nord, fosse che fosse Torino, Milano, Zurigo, Losanna, Monaco, Düsseldorf o Lussemburgo, Belgio, Francia. C’era bisogno di manodopera e il Sud rispondeva immediatamente con quelle masse di lavoratori che dalla campagna e dalle zone depresse si spostavano verso le grandi città nei bacini industriali più esigenti, dalla cintura torinese alla Ruhr e la Saar tedesche, i bacini carboniferi del Limburgo in Belgio o i grandi poli edilizi che dalla Baviera allo Schleswig-Holstein testimoniavano il rilancio di una Germania affamata di riscatto. Cantieri, fabbriche, miniere erano le nuove mete mentre la produttività viaggiava a ritmi veloci e il profitto cresceva miracolosamente anche se non in modo del tutto proporzionale al benessere di tutti. Un’ondata migratoria che riportava in superficie il ricordo di tanti altri flussi e spostamenti della storia italiana, una fuga dietro l’altra in epoche diverse ma sempre uguali per la portata traumatica del commiato dalle proprie famiglie e lo strappo che quel viaggio significava: un lasso di tempo sospeso tra ciò che si lasciava, conosciuto e vissuto e ciò cui si andava incontro, estraneo, incerto. Era il momento della cesura che cambiava la vita per sempre.
“Ancora quest’anno e basta, poi torno!” dicevano tutti, e l’aveva detto anche zio Gaetano. Ma rimanevano sempre là, in quelle terre che avevano raggiunto con una valigia malconcia, qualche fagotto e tanta voglia di cambiare il corso delle cose guadagnando e sputando sangue.
Lo zio racconta sempre di quel poco che aveva messo nella valigia, il cambio degli indumenti, il rasoio, un caciocavallo, una salsiccia pasqualora e una bottiglia di vino rosso. Ci aveva anche messo, all’ultimo istante, un piccolo pezzetto di fico d’india avvolto in una carta oleata, che poi aveva tenuto sul comodino accanto al letto per molti anni, come un oracolo, ormai annerito, rinsecchito ed atrofizzato. Il viaggio in corriera era stato interminabile e massacrante ma era un viaggio di speranza e dove c’è quella non esiste altro. Accomunati tutti dallo stesso spirito e dalla stessa fame, quei giovani e meno giovani emigranti avevano cantato e suonato le canzoni siciliane appoggiati ai finestrini sporchi del mezzo…Mi votu e mi rivotu…Jetta la riti…Ciuri-ciuri…Canzuna di li carritteri…La barunissa di Carini… Luntananza. Voleva essere un arrivederci ma per qualcuno era stato un addio.
Tre anni prima, era il 30 agosto 1965 a Mattmark, in Svizzera, in un cantiere sotto il ghiacciaio dell’Allalin erano morti sepolti da una frana 88 lavoratori, 55 erano italiani.
Si partiva verso l’ignoto anche se spesso si creava una catena migratoria fatta di legami e richiami interpersonali, accompagnati dalle prime informazioni necessarie per farsi una rudimentale idea di quello che sarebbe stato.
Gaetano e gli altri erano arrivati in Germania timorosi e guardinghi: era come entrare in casa d’altri in punta dei piedi dopo aver aspettato quell’ agoniato “avanti” sul pianerottolo. Tecnici e lavoratori non specializzati erano forza-lavoro necessaria nel settore manifatturiero, nell’industria automobilistica, nelle acciaierie, nel settore elettrico, in edilizia, ma rimanevano sempre Gastarbeiter, lavoratori ospiti, quando non venivano definiti Fremdarbeiter, lavoratori stranieri, oggetto di ostilità e xenofobia mai sopita. Alloggiavano in alberghi-locande che non erano né più né meno che baracche gestite da altri emigrati, spesso residuati di vecchi alloggi militari o di qualche campo di raccolta nel periodo della guerra dove, raccontava zio Gaetano, 6 metri quadrati dovevano bastare per 6 persone.
Durante la giornata non c’era il tempo di pensare a niente ma la nostalgia arrivava implacabile e puntuale la sera, quando il rientro nella baracca ricordava impietosamente che la famiglia era dall’altra parte dell’Europa.
Ogni tanto la domenica, chi era esente dai turni si ritrovava con gli altri e si mangiava e beveva qualcosa assieme, si giocava a carte, si suonava e si ballava tristemente fra uomini, così, tanto per non perdere anche quello o per illudersi che fosse festa. Mai come in quei momenti si avvertiva l’assenza di tutte quelle figure femminili lasciate a casa: madri, sorelle, fidanzate, mogli. Lo zio ricorda che un suo connazionale non si era mai rassegnato alla lontananza e si era fatto mandare le tendine da casa sua per appenderle sulla finestrella in baracca: avrebbe così potuto vederle, toccarle, odorarle ogni giorno e con esse assaporare i colori, la consistenza e i sapori della Sicilia. Ognuno elaborava un modo per andare avanti, una strategia che gli facesse superare tanta solitudine e sofferenza.
E intanto le famiglie potevano campare, i figli piccoli crescevano con minori privazioni, i vecchi morivano invocando i nipoti fuori dall’Italia, qualche ragazza trovava un altro fidanzato che non espatriasse e il quadro sociale ed ambientale di quella Sicilia e di quell’Italia mutava.
Gaetano, che a 23 anni si era poi sposato con Lucia ed aveva messo su famiglia ogni volta che poteva, non era più tornato a vivere nella sua isola se non per brevi periodi ogni tanto e in occasione del Natale e della Pasqua, giusto il tempo di stare un po’ con i parenti. Si era portato in Germania il figlio maggiore e non aveva mai smesso di inviare le sue rimesse in solidi Marchi prima e in Euro poi.
Ora ha una casetta sua in una tranquilla zona di Duisburg dove coltiva un piccolo orto, incontra amici di vecchia data con cui parlare siciliano, ospita i visitatori che arrivano dalla Sicilia e si gode il frutto del suo lavoro. La sua vita è là, non si schioderebbe mai da quel posto e la moglie, a dire il vero, non lo ha mai preteso. Di tanto in tanto raggiunge in autobus la fabbrica in cui lavorava, diventata ora un lugubre esempio di archeologia industriale in stato di abbandono e si siede su una panchina di fronte ai cancelli principali: Dio solo sa cosa pensi e cosa provi.
Il nipote Rocco è felice di stare con lo zio qualche giorno, un piccolo scalo prima di partire da Francoforte alla volta di Singapore. E’ giovane, pieno di energia, idee, intraprendenza, progetti. Ha terminato con successo l’università ed ha deciso di andarsene dall’Italia per uno stage presso una multinazionale high tech. Poi chissà…! Singapore è un Paese dinamico, capace di diventare in meno di 50 anni una delle nazioni più moderne e ricche del mondo con una società meritocratica, cosmopolita, aperta ad ogni innovazione ed investimento. Un posto dove pensare al futuro senza scoraggiarsi e ritrattare. In fondo, ha pensato Rocco, ci vuole lo stesso coraggio sia a restare che a partire, quindi tanto vale.
Guarda con affetto lo zio Gaetano che sta preparando gli spaghetti e pensa che tra poco se ne andrà anche lui, giovane migrante, con una comoda e spaziosa valigia, il pc, l’iphone in tasca, un aereo che lo aspetta, uniti nello stesso destino. Questa volta la ‘fuga’ non è dettata dalla fame come nel secondo dopoguerra ma dal desiderio di affermazione e realizzazione in quei luoghi dove esistono possibilità e spazi per crescere. Rocco è l’odierno Ulisse alla ricerca di nuovi approdi da scoprire, provare, sperimentare, vivere. Buon viaggio, giovane viaggiatore del mondo!

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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