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di Tiziano Albieri

Se dovessimo elencare le figure socio-politicamente e musicalmente più influenti dello scorso secolo, non sarebbe certo sorprendente concordare sul fatto che Jimi Hendrix abbia dato un contributo fondamentale non solo alla musica, ma anche alla società come oggi la conosciamo. Cavalcando l’onda di quel movimento libertario che sarebbe poi sfociato nella cultura dei figli dei fiori, si rese portabandiera dell’unica vera rivoluzione sociale del secolo passato.

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James Marshall Hendrix nasce a Seattle nel 1942, e nel ’66 forma a Londra la “Experience”, anche grazie al suo manager Chas Chandler convinto che nella capitale inglese potrà davvero dimostrare le sue qualità artistiche.
Perchè proprio oltreoceano e non negli Stati Uniti? La risposta può sembrare di primo acchito molto banale, ma non è affatto così. Certo, Londra già dall’inizio degli anni ’60 aveva dato alla luce i Beatles, i Cream ed i Rolling Stones, ed era stata in assoluto la terra più fertile per il Rock N’ Roll, ma la vera “marcia in più” della capitale inglese era, ed è tutt’ora, legata alla natura cosmopolita della città, alla sua apertura mentale e alla quasi totale assenza di pregiudizi verso il colore della pelle di un artista, e, più in generale di una persona. Far “scoppiare” un fenomeno come Hendrix nella sua terra natia, gli States, sarebbe stata un’impresa pressoché impossibile: immaginate come sarebbe stato accolto un artista che predicava la libertà sessuale, l’uguaglianza e la pace, dalla stessa (o quasi) massa che qualche anno prima aveva negato un posto a sedere su un autobus a Rosa Parks, che non consentiva a studenti di carnagione differente di frequentare le stesse scuole e che riteneva la musica rock un artefatto del diavolo. Provateci!
Nell’estate del 1967 prende forma il movimento hippie: San Francisco, “roccaforte” della controcultura della pace e dello spiritualismo viene letteralmente invasa da giovani in contrapposizione ai valori tradizionali della cultura americana, arrivati come in una sorta di pellegrinaggio da ogni angolo degli Stati Uniti. Il festival di Monterey ne è l’attestazione ufficiale: oltre 200.000 spettatori prendono parte ad una tre giorni di concerti unica al mondo. Assieme ad Hendrix parteciparono gli Who, i Grateful Dead, i Jefferson Airplane, Simon & Garfunkel, i Byrds; fece inoltre la sua prima comparsa Janis Joplin: tutti nomi che avrebbero fatto negli anni avrebbero fatto la storia della musica, oltre a quella del movimento hippie. Ad ogni modo, Hendrix fece non poco scalpore e si consacrò a vera e propria leggenda vivente quando, al termine di un’esibizione superlativa, decise di commettere il famoso “sacrificio” della propria Fender Stratocaster, dandola alle fiamme. Un gesto che racchiudeva in sé tutto il senso di innovazione, di sregolatezza, di genio e follia, che avrebbe accompagnato Jimi per il resto della sua, purtroppo breve, carriera. “Sbalorditivo” è minimale per descrivere l’impatto che da quel momento la musica dell’Experience avrebbe avuto non solo sui musicisti a venire, ma sulla società in generale.

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Il ’68 è universalmente conosciuto come l’anno delle rivolte studentesche, della rivendicazione dei diritti dei lavoratori, del disappunto nei confronti del conflitto in Vietnam e della ribellione al sistema capitalista e consumistico statunitense, che coinvolse giovani e non, da ogni parte del globo indistintamente. La cultura hippie vide l’apice della sua portata anche grazie all’ondata di protesta che avvicinava sempre più adolescenti al movimento: la musica era la vera bandiera di questa rivoluzione.
Il sessantotto fu anche l’anno dei Giochi Olimpici di Città del Messico e credo abbiamo tutti presente le fotografie che ritraggono Tommie Smith e John Carlos in piedi sul podio con il pugno alzato ed il capo chino a sostegno del “potere nero”. Era il chiaro segnale che il mondo volesse cambiare, erano le armi pacifiche di una rivoluzione innanzitutto musicale, della quale le chitarre elettriche suonarono la colonna sonora negli anni in cui i giovani furono i veri protagonisti. Per Hendrix è l’anno di Electric Ladyland e dello sgretolamento della Experience, ma il culmine della propria notorietà lo avrebbe raggiunto l’anno successivo, in seguito all’esibizione di Woodstock.
“Three Days Of Peace And Music” recitava la locandina dell’evento che si sarebbe svolto dal 15 al 18 Agosto del 1969, senza dubbio il più grande concerto che la storia della musica ricordi: vi parteciparono molte delle band che due anni prima avevano composto la scaletta del festival di Monterey, ma questa volta i numeri del pubblico superarono ogni limite. Bethel, la piccola cittadina che ospitò il concerto venne invasa da mezzo milione di giovani; le cronache locali raccontano di autostrade intasate nei dintorni della città e di enormi disagi dovuti all’ingente numero di partecipanti, ben oltre ogni aspettativa. Lo spirito dell’evento rappresentò a pieno l’ideale della cultura hippie, della pace, dell’amore e della solidarietà, tanto da far sì che non accadessero incidenti rilevanti. Nonostante ciò, le grandi testate giornalistiche statunitensi avevano forzato i propri reporter a recensire negativamente ciò che stava accadendo al fine di far sembrare non solo l’evento, ma tutta la comunità dei figli dei fiori, una catastrofe sociale. Barnard Collier del New York Times, avrebbe raccontato che i redattori a New York lo incitavano a sottolineare i blocchi stradali, le sistemazioni improvvisate, l’uso di droghe fra i ragazzi e la presunta aggressività di alcuni di loro. Nulla fu sufficiente a smontare l’evento. L’esibizione di Hendrix fu una delle più lunghe della sua carriera, sebbene abbia suonato davanti ad un pubblico quasi dimezzato e stremato (avrebbe dovuto suonare la domenica sera, ed invece suonò la mattina del lunedì, e molti fan dovettero abbandonare il festival). L’intero concerto culminò con l’esecuzione del brano che meglio avrebbe potuto rappresentare il clima di contrarietà alla guerra del Vietnam, di opposizione al sistema socio-politico statunitense e di ribellione al costume ed alla società americana in generale: “Star-spangled Banner”, l’inno “Stars and Stripes” eseguito con la chitarra elettrica, volutamente sporcato con suono acido, spesso in feedback, effetti cacofonici ed un uso esagerato del tremolo, cosa avrebbe potuto rendere meglio l’idea? Sarebbe diventato l’icona della protesta, l’emblema della ribellione di quegli anni d’oro.
La fiamma che ardeva negli animi dei giovani hippie, dopo Woodstock sarebbe andata affievolendosi sempre di più e mai avremmo assistito ad un fenomeno tanto imponente quanto quello che aveva imperversato dalla Summer of Love ad allora.

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Il recente scioglimento della Experience e alcuni obblighi contrattuali firmati prima di arrivare a Londra costrinsero Jimi a formare una band provvisoria e registrare un album; per non “bruciare” le idee migliori, che sarebbero state pubblicate postume, vennero prese in considerazione alcune canzoni scartate da Electric Ladyland ed altre idee del batterista Buddy Miles, che assieme a Billy Cox ed il genio di Seattle componevano la Band Of Gypsys. Pare un caso (ma non tutti sostengono così) che tutti e tre i musicisti fossero di colore, e di fatto nessuna dichiarazione o intervista a riguardo è mai stata rilasciata. Ad ogni modo, l’album omonimo non venne apprezzato a sufficienza dalla critica, che era stata abituata a dischi del calibro di “Are You Experienced?”, “Bold as Love” ed “Electric Ladyland”.
Jimi Hendrix si sarebbe spento in circostanze misteriose il 18 Settembre del 1970 nella sua camera d’albergo a Londra, in presenza della sua compagna dell’epoca: Monika Danneman. Se ne andava così il più grande rocker che il mondo intero avesse mai avuto la fortuna di ospitare, nonché una figura di esempio per le generazioni a venire. Un’icona dello scorso secolo in grado di influenzare e coinvolgere i giovani del tempo con le sue idee rivoluzionarie di libertà, pace, uguaglianza, ma soprattutto, di umanità. Gli stessi giovani che oggi sono diventati adulti, e si spera possano tramandare a loro volta ciò che Jimi avrebbe voluto.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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