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Un popolo unito può sconfiggere il mondo intero. È successo in passato più e più volte, la storia è piena di esempi. E non esistono popoli eletti, quello che conta è l’unità d’intenti, un ideale in comune, un senso d’appartenenza forte, coraggio e spirito di sacrificio.
Ebbene, tutto ciò è proprio quello che manca all’Italia. Quello che è sempre mancato del resto, anche nei momenti più bui della nostra storia. Persino quando siamo stati invasi dal nemico c’erano tra noi quelli che erano dalla parte dell’invasore.

L’Italia è un paese di fazioni, di rivendicazioni di parte, di piccoli egoismi, di invidie e di faide.
Un paese unito è un paese forte, un paese da temere e da rispettare.
L’Italia non lo è, e non può pretendere d’esser trattata come tale. Le colpe sono tante, così come i colpevoli. Correre ai ripari adesso è quasi impossibile, non senza lacrime e sangue almeno. Non senza pesanti sacrifici che nessuno, tra l’altro, pare voglia sobbarcarsi.
In una situazione ingarbugliata come quella italiana, alla fine, a farne le spese sono sempre i soliti: i più deboli. Quelli che subiscono le altrui decisioni, quelli che non hanno alcun potere contrattuale, che hanno meno degli altri o che quel poco che hanno rischiano di perderlo del tutto. Oggi queste persone non sono più gli emarginati di sempre, i reietti, gli esclusi dalla società. Gente che in ogni epoca ha rappresentato quella esigua parte di popolazione che non ce la fa, che per varie ragioni, sociali o esistenziali che siano, non riesce a inserirsi negli ingranaggi giusti della convivenza.
Questa volta non è più così. Questa volta a rischiare grosso è una gran parte della popolazione che nella società è inserita a pieno titolo. La maggioranza di tutti noi… decisamente!
Gente che è uscita suo malgrado dal mercato del lavoro e che non riesce più a entrarvi, gente che non ne è mai entrata, e qui fare distinzione tra vecchi e giovani diventa francamente irrilevante. Gente che un lavoro ce l’ha ma che teme di perderlo: lavoratori dipendenti indeboliti da questa nuova assenza di tutele e quotidianamente ricattati dai datori di lavoro. Poi piccoli imprenditori sempre più a rischio, vessati da tassazioni insostenibili, paralizzati da mille obblighi amministrativi, spesso costretti a competere con colossi industriali e multinazionali impossibili da contrastare, ostaggi di banche perché indebitati oppure scoraggiati a investire per questa rinnovata difficoltà d’accesso al credito. Ma anche giovani pieni di idee che non riescono a dar seguito a iniziative imprenditoriali perché privi di coperture e garanzie.
Gente che si sta impoverendo sempre di più nelle tasche e nello spirito. Con un futuro dove l’incertezza paralizza ogni progetto, dove entusiasmo, desideri e sogni hanno lasciato il posto a pessimismo, paure e rancori.
Il malcontento della gente è più che giustificato. Ma il malcontento da solo non basta a risolvere questi problemi, a superare questi nuovi ostacoli. Specialmente in un contesto dove il nemico da contrastare è nascosto, indefinito, sparpagliato. Dove a volte i nemici siamo noi stessi.
Chiediamoci allora come mai abbiamo questa classe politica, questi amministratori. Come mai non riusciamo a emanciparci da una classe dirigente che ci risulta tanto indigesta e oppressiva quanto incapace e ingorda. Ogni popolo ha i governi che si merita, soprattutto perché in democrazia chi fa politica è stato nominato dal popolo.
Eppure sembra sempre più evidente la distanza tra chi ha il potere e chi lo subisce, tra coloro che decidono nelle stanze dei bottoni e tutti gli altri che stanno fuori.
Negli ultimi trent’anni, in un costante crescendo, sono tante le cose successe sotto i nostri nasi che hanno modificato radicalmente la nostra società e la nostra economia in peggio. Spesso cose decise ed eseguite senza che nessuno contestasse nulla, o meglio senza che nessuno sospettasse di nulla. Sì perché si è trattato di cambiamenti epocali che i loro artefici hanno spacciato per progresso, facendoci credere che fosse l’unica strada possibile per il futuro. Del resto stampa e fior d’intellettuali si sono accodati alla politica, plaudendo ai cambiamenti e condizionando l’opinione pubblica.

Ma restiamo a casa nostra. Qualcuno di voi si ricorda di un governo, passato o recente, che abbia mai fatto nulla per contrastare, o per lo meno criticato, questo fenomeno drammatico (certamente il più drammatico nella storia della nostra economia) chiamato globalizzazione?
Qualcuno certamente dirà che si è trattato di un processo su scala mondiale, inevitabile e irreversibile, quindi impossibile da fermare. Sono d’accordo. Ma allora perché non correre ai ripari attuando politiche mirate a salvaguardare la nostra identità economica? Perché rinunciare al nostro potere decisionale consegnandolo a un ente estraneo come quello europeo? Perché illudersi che un’unione economica e finanziaria europea potesse proteggere la nostra economia dagli attacchi di competitors potenti come quelli provenienti dall’Estremo Oriente o da oltre oceano? Perché farlo quando i più grossi concorrenti ce li abbiamo proprio in Europa? Qualcuno crede veramente che Germania o Francia ci avrebbero dato la precedenza, che avrebbero protetto la nostra economia facendola progredire a discapito della loro? Qualcuno crede sul serio che un’Europa così frammentata politicamente potesse mai trovare una coesione economica stabile?
La verità è che si litiga su tutto. Sulle quote latte, sulle arance, sui pomodori, sul grano, sulle percentuali da assegnare, sui contributi da dare, sui regolamenti da rispettare, spesso vincoli assurdi che dimostrano quanto siano inique e di parte certe decisioni prese a Bruxelles. La verità è che l’Europa del nord non è quella mediterranea e i rispettivi interessi sono quasi sempre contrastanti. La verità è che a Bruxelles l’Europa del nord vince quasi sempre!

Ma se in Europa si litiga, in Italia ci si prende a pugni. Tutti contro tutti, come nella tradizione del nostro “Belpaese”.
Come potevamo pensare di vincere la “guerra” commerciale con la Cina, per esempio, quando dovevamo difenderci dai nostri stessi alleati europei? Quando in casa nostra non c’è stato un governo in grado di mettere tutti d’accordo per contrastare simili attacchi commerciali?
Il “made in China” è ormai la normalità. Dai giocattoli ai casalinghi, dagli oggetti d’uso comune agli attrezzi da lavoro, dall’abbigliamento alle apparecchiature elettroniche fino ai computer…
Tutti quanti i negozi sono pieni di prodotti cinesi, e non è più vero che si tratti soltanto di prodotti di scarsa qualità. Nel frattempo, migliaia di piccole aziende nostrane hanno dovuto chiudere, aziende che campavano producendo questi stessi prodotti. Stare in Europa a cosa è servito allora?

Adesso si ripropone lo stesso problema, anzi peggio. La minaccia è, se possibile, ancor più grande. Riguarda i prodotti d’eccellenza, l’ultimo vero baluardo della nostra economia. Se perderemo anche questa ennesima battaglia, saremo definitivamente sconfitti e dovremo accodarci alle economie povere di questo nuovo mondo globalizzato prossimo venturo.

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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