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Si chiamava “maturità” e in alcuni paesi dell’Europa è ancora designato come “matura”. In Irlanda “leaving certificate”, quasi a indicare che si abbandona un ciclo della vita per iniziarne un altro. Oggi è “l’esame di Stato conclusivo del corso di studio di istruzione secondaria superiore”, secondo la dizione voluta nel 1997 dall’allora ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer.

Nell’ottobre del 2014 la Società italiana di scienze matematiche e fisiche, Mathesis, tenne a Rovigo, all’Accademia dei Concordi, un convegno internazionale dal titolo “Dall’esame di Stato all’esame Europeo”, ma intanto ancora quest’anno si compie, identico a se stesso, il rito di passaggio per circa 500 mila ragazzi che concludono le Superiori, per non contare la quota altrettanto rilevante dei loro compagni quattordicenni che devono affrontare l’esame di terza media, pure esso di Stato.

Quella che era la maturità oggi costa al contribuente italiano 200 milioni di euro, cifra questa fornita dallo stesso MIUR che, nella prima bozza del disegno di legge sulla stabilità per il 2014, proponeva il ritorno a commissioni d’esame tutte interne alla scuola, fatta eccezione per il presidente, in una prospettiva di contenimento della spesa pubblica. L’idea del ministro Giannini da sola è sufficiente a denunciare l’inutilità di questo esame che ci si ostina a mantenere in vita con un accanimento terapeutico degno di miglior causa. Se a esaminarti sono gli stessi docenti che ti hanno insegnato a che serve l’esame? Delle due l’una, o sono gli insegnanti inadeguati o è l’esame che a questo punto è un controsenso. Del resto si tratta di un esame da tempo discusso, a partire dalla quantità e qualità dei 100 con lode tra Nord e Sud del paese, per non parlare delle terza prova, da sempre sospetta di taroccamenti, inoltre il voto conseguito è irrilevante per accedere all’università.

È la nostra Costituzione a dettare al quinto comma dell’articolo 33: “E` prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi […].” Ma a nessuno di quelli impegnati a ragionare della riforma della carta costituzionale gli viene in mente che sarebbe intanto necessario apportare qualche ritocco dovuto agli inevitabili segni del tempo.

Era esame di Stato pure quello di licenza elementare, intelligentemente abolito con l’unificazione in un unico ciclo di istruzione della scuola elementare e media inferiore. Evidenziando che è più facile intervenire sull’organizzazione del sistema scolastico che non sul dettato costituzionale.

Problema questo neppure preso in considerazione dagli estensori della ‘buona scuola’, perché il pensiero degli studenti e degli esami non gli ha mai attraversato lontanamente il cervello.

Nel nostro Paese, amante dei sofismi, ancora ci si gingilla tra obbligo scolastico e istruzione obbligatoria, come fossero la stessa cosa. Fortunatamente il legislatore ha sancito che “l’istruzione obbligatoria è impartita per almeno 10 anni” e che è finalizzata “al conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale”. L’obbligo, quindi, non tanto di sostare a scuola, semmai ripetendo la stessa classe per anni, ma di progredire nell’istruzione verso un traguardo preciso. E allora che ci sta a fare su questa strada l’esame di terza media? In considerazione poi del fatto che l’Europa ci chiede di certificare le competenze a sedici anni, e per questo non è richiesto un esame, anzi, nel merito, ogni istituzione scolastica ha il suo fai da te.

“Esame” è etimologicamente l’atto di pesare, di stimare, di giudicare, come “maturo” ha la stessa radice di “misura” e di “mattino”. È in gioco la crescita dei giovani, come hanno impiegato il loro tempo. Ma c’è molto di più, e non certo culturalmente e socialmente di poco conto: stabilire se è il sapere che deve essere al servizio dell’individuo o l’individuo al servizio del sapere. Certo la pratica dell’esame di Stato risponde alla seconda ipotesi. Si attendono i giovani a dar prova di sé senza mai aver consentito loro di avere un ruolo nella società, senza aver permesso loro di sperimentarsi in progetti utili alla comunità, in stage funzionali a mettersi in gioco, in stage presso le università, come in altri paesi avviene. I nostri esami sono luoghi di scritti e di orali, di passività e ripetitività, di mortificazione delle intelligenze, oltre che dell’identità e dell’esistenza di tante ragazze e ragazzi.

Basterebbe guardarsi un po’ attorno nel mondo per accorgersi che c’è anche chi ha intrapreso strade nuove. Scuole superiori dove i progressi nell’apprendimento vengono misurati attraverso valutazioni qualitative delle capacità e delle competenze, documentate da tutta l’esperienza dello studente, piuttosto che misurate su un risultato discreto.

Le valutazioni personalizzate sono una pratica regolare e quotidiana, parte del processo di apprendimento d’ogni studente, e un’attenzione peculiare è riservata alla capacità di condurre a termine piccoli e grandi progetti. Come risultato, gli studenti sanno in ogni momento quali sono i loro punti di forza, dove hanno margini di miglioramento, e come stanno affrontando i loro progressi. Questo processo prende il posto dei convenzionali esami al termine della scuola.

Allora si comprende che è la relazione tra giovani, scuola e società che va radicalmente ripensata, e che gli esami sono i residui di una cultura classista e selezionatrice, inibitrice delle intelligenze, della libertà e del diritto alla realizzazione dei nostri giovani. Retaggi della cultura gentiliana, di quella cultura che destinava agli studi superiori solo le classi agiate.

Di qui si tocca con mano quanta distanza da questi temi ancora ci sia nello sparlare di scuola che si continua a fare, un po’ da tutte le parti, dal governo, ma anche da quanti in questi mesi dicono di volere una scuola pubblica, democratica, di sana e robusta Costituzione.

Sarebbe il caso di avere il coraggio di chiedersi perché gli insegnanti, che sono la classe intellettuale più estesa del paese, non sono in grado di svolgere tale ruolo, mettendo in campo pensieri e idee nuovi e forti. Eppure la storia della nostra scuola è fatta di figure di insegnanti significative per la loro capacità di innovazione dalla parte dei ragazzi e delle ragazze, sfidando la resistenza di ogni canone tradizionale.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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