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Giorno: 16 Aprile 2015

“Con i certificati di credito fiscale l’Italia può rilanciare l’economia”

Oggi più che mai è doveroso trattare, all’interno del dibattito democratico e civile, delle nuove dinamiche economiche e delle problematiche correlate alle attuali politiche monetarie.
L’obiettivo è quello di eliminare il concetto, più volte ribadito nel corso dello studio delle dinamiche macroeconomiche, dell’asimmetria informativa, la condizione per cui nella società molti non sanno niente mentre pochi sanno tutto. Questa è la condizione ottimale per un sistema di potere che si autoalimenta proprio grazie all’ignoranza dell’opinione pubblica e alla durevolezza di un regime fondato sui luoghi comuni, in cui argomento di dibattito non sono analisi di dati e documenti ma chiacchiericcio riguardante frasi riportate per sentito dire e ‘gossip’ politico.

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Marco Cattaneo

A questo proposito abbiamo interpellato Marco Cattaneo, laureato in Economia aziendale (Bocconi 1985). Dal 1995 è consulente aziendale, gestisce fondi e rappresenta primari investitori internazionali in operazioni di ‘private equity’. Ha scritto alcuni libri su temi economici e cura i contenuti del blog Basta con l’Eurocrisi, dove è possibile leggere le sue analisi sull’attuale meccanismo economico europeo.

Non è facile oggi per i cittadini avere gli strumenti per comprendere le origini della crisi economica che ha investito l’Eurozona già da diversi anni. Molti analisti economici ed esponenti politici insistono nell’indicare il principale fattore della crisi economica negli sprechi che aumentano il debito pubblico e nella cattiva gestione dello Stato. Che lettura dà lei della situazione e di queste analisi?
Sulla qualità di gestione della spesa statale esistono molti aneddoti e molti luoghi comuni, su cui ci sarebbe parecchio da discutere. La singola maggiore voce di spesa pubblica in Italia è il sistema sanitario, che è considerato uno dei cinque più efficienti al mondo dall’Organizzazione mondiale della sanità. Possibile che tutto il resto del settore pubblico italiano sia una tale sciagura da renderlo la palla al piede dell’economia?
Il punto su cui riflettere, però, è che gli indicatori economici italiani si sono pesantemente e improvvisamente discostati, in peggio, da quelli (per esempio) del Regno unito a partire da metà 2011. La spesa pubblica italiana non è improvvisamente diventata meno efficiente in quel periodo: sono invece stati attuati forti incrementi di tassazione, mentre gli inglesi – dotati della loro moneta – continuavano, al contrario, a supportare la ripresa della loro economia.
Quanto al debito pubblico italiano, il 99% del problema non è relativo al suo livello, ma all’essere contratto in una moneta – l’euro – che per l’Italia è a tutti gli effetti una valuta straniera. L’austerità è stata imposta da Ue e Bce come condizione per garantire il debito pubblico: ma se il debito fosse rimasto in lire, non ci sarebbe mai stato un rischio d’insolvenza – una banca centrale nazionale è sempre in grado di garantire il rifinanziamento del debito in moneta propria. E in una fase di domanda depressa (conseguenza della crisi finanziaria mondiale del 2008, i cui effetti non erano ancora stati sanati) questo è possibile senza che inflazione e tassi d’interesse vadano fuori controllo.

La moneta è unita di misura dell’operosità in termini di quantità, qualità e valore. Prima dell’euro, la moneta era fondamentalmente gestita dallo Stato. Oggi l’euro, come da lei accennato, è gestito da una banca sostanzialmente privata che presta denaro agli stati a debito e con interessi. Quali conseguenze ha portato questo cambio strutturale ?
Uno Stato che emette la propria moneta è in grado di utilizzarla per attuare azioni di espansione della domanda – meno tasse, più spesa pubblica, più sostegni alla spesa privata – in modo da superare fasi di depressione della domanda conseguenti, per esempio, a crisi del mercato finanziario. Se la moneta deve invece essere presa a prestito, proprio nei periodi di difficoltà economica questo può risultare impossibile, o troppo oneroso. La crisi di molti paesi dell’Eurozona è in larga misura una risultante di questa situazione.

Quali effetti hanno avuto le manovre ‘di salvataggio’ attuate dalla Banca centrale europea, come il Quantitative easing (Qe), messo in campo da Draghi all’inizio del 2015, nel rivitalizzare l’economia reale dei paesi aderenti all’Eurozona?
Il Qe, che ha fatto seguito a una serie di azioni di garanzia dei debiti pubblici intraprese a partire dal 2012, ha prodotto due fenomeni: il calo dei tassi d’interesse pagati dagli stati, e l’indebolimento dell’euro, soprattutto rispetto al dollaro. Il calo dei tassi tuttavia non si è tradotto in una spinta al potere d’acquisto disponibile per aziende e cittadini, in quanto la Ue non ha smesso di richiedere azioni di riduzione dei deficit pubblici – che, in una situazione di economia depressa, implica di continuare a sottrarre risorse all’economia reale.
L’unico effetto positivo degno di nota è legato alla svalutazione dell’euro. Le aziende italiane che esportano nell’area del dollaro stanno traendone alcuni vantaggi. Siamo ben lontani, tuttavia, da quanto occorrerebbe per avviare un significativo recupero dei pesanti danni subiti dall’economia italiana dal 2008 in poi, anche perché metà del nostro interscambio estero si svolge all’interno dell’Eurozona.

Quali decisioni, secondo lei deve, prendere il governo italiano per dare un nuovo impulso all’economia nazionale e per far uscire il nostro Paese dalla spirale recessiva in cui è impantanato (meno lavoro, meno stipendi e meno consumi)?
Il governo italiano dovrebbe attuare azioni di espansione della domanda interna, e nello stesso tempo favorire il recupero di competitività delle aziende italiane, in primo luogo riducendo la tassazione e gli oneri accessori sui costi di lavoro. Questo è impedito dai trattati di funzionamento dell’eurosistema. In assenza di un accordo politico che porti alla loro revisione, il superamento della crisi richiede azioni unilaterali da parte dei Paesi in difficoltà. La rottura dell’euro, con uscita dal sistema di singoli Paesi, è uno scenario possibile, che presenta però forti complessità politiche e operative.

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La proposta di Cattaneo, frame da un video esplicativo

La via che personalmente sto sviluppando e promuovendo, insieme a un gruppo di economisti e ricercatori, è l’introduzione di Monete fiscali nazionali. Vari Paesi potrebbero introdurre Certificati di credito fiscale (Ccf), cioè titoli utilizzabili per pagare tasse e imposte future nel territorio dello stato emittente, e assegnarli gratuitamente a cittadini e aziende. Non sono debito perché lo stato emittente non è obbligato a rimborsarli; hanno un valore di mercato e possono anche essere utilizzati in transazioni dirette tra privati. Hanno quindi alcune caratteristiche della moneta – pur non essendo moneta ai sensi di legge – e ridarebbero ai singoli Stati le leve di politica economica oggi necessarie, da applicare in forme e misure differenziate in funzione delle esigenze specifiche di ogni Paese. L’azione espansiva prodotta dalla distribuzione di Ccf rilancia domanda, Pil, occupazione e gettito fiscale, il che evita il riformarsi di squilibri fiscali quando, in futuro, i Ccf arriveranno a scadenza.
E’ una strada che comporta una forte revisione dei meccanismi di funzionamento dell’eurosistema. Non è però deflagrante: l’euro continua a esistere come moneta circolante e come valuta di conto in tutta l’Eurozona. E si evitano quindi le grandi complicazioni connesse a un processo di rottura della moneta unica.

La vicenda greca sta evidenziando le criticità del sistema euro. Ritiene che queste dinamiche possano presto coinvolgere altri Paesi dell’Eurozona? Quale scenario ipotizza per Grecia e agli altri stati più deboli membri dell’Eurozona?
Il governo Tsipras, vinte le elezioni del 25 gennaio 2015, ha sottoposto alla Ue alcune proposte, per la verità ragionevoli e moderate (forse addirittura troppo, nel senso che rischiavano di essere insufficienti, a mio avviso). In pratica, una riduzione (rispetto alle richieste Ue) del surplus primario del bilancio pubblico e un riscadenziamento del piano di rimborso del debito.
La Ue ha però reagito con un atteggiamento di totale chiusura, non manifestando alcuna concreta disponibilità a rivedere le fallimentari politiche di austerità imposte alla Grecia da fine 2011 a inizio 2015.
Il governo Tsipras non vuole forzare l’uscita della Grecia dall’Eurozona. Dato questo presupposto, l’introduzione di una Moneta fiscale greca in affiancamento all’euro potrebbe essere la soluzione appropriata. La Grecia dovrebbe adottarla unilateralmente, senza “rompere” l’euro, e usarla per attuare le necessarie azioni di rilancio della propria economia. Sempre unilateralmente, dovrebbe sospendere i pagamenti delle rate di debito dei prossimi mesi, proponendo un nuovo piano di rientro con scadenze posposte (non necessariamente di molto).
Il pallino passerebbe nelle mani di Ue e Bce: che potrebbero reagire forzando la rottura, eventualità che sarebbe però – dal loro punto di vista – autolesionista. Oppure accettare il nuovo status quo, prendendo atto che consente l’avvio a soluzione della crisi greca. Va sottolineato che proprio il rilancio dell’economia è anche il presupposto per rimborsare, sia pure con scadenze allungate, una quota significativa e forse anche lo totalità del debito attuale. Teniamo conto che il debito non deve essere portato a zero ma reso sostenibile, in parte diminuendolo e in parte grazie al recupero del Pil. A quel punto diventa anche possibile rifinanziarlo.
Naturalmente tutto questo potrebbe preludere all’introduzione di Monete fiscali nazionali anche da parte di altri Paesi, ed essere il presupposto per, finalmente, risolvere in modo soddisfacente la crisi dell’Eurozona.

Marco Cattaneo è stato ospite di un incontro organizzato da Ferraraitalia, per leggere clicca qui.

Il colore di un’economia umana

Alzi la mano chi di noi non si demoralizza all’istante leggendo o ascoltando alla televisione e dal vivo i dibattiti di e sull’economia. Ma potrebbe esserci un rimedio, leggere il volume di Andrea Segrè “L’economia a colori” (Einaudi, 2012) che cerca di togliere a questa scienza sociale il grigiore di cui si è ricoperta nel tempo. “Per sfuggire alla tristezza, innaturalezza, macchinosità, vanità, inutilità e soprattutto per uscire dalla sua solitudine, l’economia nel corso del tempo è stata colorata, aggettivata, sostantivata. Da sola non ci sta, deve essere accompagnata da qualcosa. Altrimenti si perde, nella teoria e nella pratica: cioè nella vita. Perché l’economia serve, o dovrebbe servire, a vivere bene: non a sopravvivere”. Questa la premessa da cui parte l’autore, triestino d’origine Preside della Facoltà di agraria dell’Università di Bologna, professore di politica agraria internazionale e comparata e ideatore dello spin-off accademico Last minute market.
Il rosso nel Novecento è stato il colore della Rivoluzione, del socialismo reale, mentre oggi è soprattutto il rosso del debito ecologico, dei consumi indiscriminati delle risorse naturali. Il marrone è il colore della vera economia, quella dei rifiuti e del percolato. Il grigio è il colore della nebbia delle strutture societarie opache e delle sedi disperse, ma anche della materia grigia, del brain power che potrebbe portarci nel futuro, ma che soprattutto in Italia non viene abbastanza valorizzato. Il nero è “il nostro lutto, profondo perché non si vede: sommerso com’è in un oceano buio”. Poi, essendo Segrè economista di campagna, come lui stesso si definisce, che osserva la realtà dal basso, non poteva mancare il verde, emblema della green economy. Ma c’è anche il verdastro, il colore del greenwashing, quello che si limita a dare l’illusione d’esser verde, senza esserlo realmente. E poi il blu, che riconosce un diritto universale come quello all’acqua. Infine, l’arcobaleno, che già dai tempi di Noè e della sua arca sancì l’alleanza tra gli esseri viventi e con le generazioni future. Ecco allora che, se “l’economia a colori potrà fare qualcosa di buono”, sarà “vendere la speranza come nella filastrocca di Gianni Rodari: S’io avessi una botteguccia | Fatta d’una sola stanza | Vorrei mettermi a vendere | Sai cosa? La speranza”.
Attraverso il caleidoscopio di colori e la gamma di aggettivi e sostantivi che nel tempo si sono affiancati al termine e al concetto di economia (sia nel senso economy, i fatti e i fenomeni economici, sia nel senso di economics, la teoria economica), quella che Segrè cerca di delineare è una visione d’insieme che leghi questa scienza sociale alle ricadute che ha avuto e ha nel mondo reale, facendola finalmente scendere – o cadere – dall’iperuranio creato dal turbocapitalismo degli anni Ottanta, molto meno nobile di quel reame delle idee descritto da Platone, essendo il regno delle speculazioni finanziarie e dei calcoli matematici sui derivati all’origine della crisi finanziaria del 2007. Una crisi che non è più, e forse non è mai stata solo, economica, ma anche etica.
Al centro del volume c’è il concetto di relazione, perché la tesi di Segrè è che, per uscire da questa crisi, non basta più parlare di economia sostenibile: bisogna ribaltare la prospettiva fra economia ed ecologia. Economia è il sistema di interazioni che garantisce l’organizzazione per l’utilizzo di risorse scarse (limitate o finite), attuata al fine di soddisfare al meglio bisogni individuali o collettivi. Ecologia, secondo la definizione coniata dal biologo tedesco Ernst Haeckel nel 1866, è “l’insieme di conoscenze che riguardano l’economia della natura; l’indagine del complesso delle relazioni di un animale con il suo contesto sia inorganico sia organico, comprendente soprattutto le sue relazioni positive e negative con gli animali e le piante con cui viene direttamente o indirettamente a contatto”. Entrambi hanno la propria radice nel greco oikos, è ora di ristabilire l’ordine delle cose: l’economia è il governo di solo una parte della grande casa che è il pianeta che ci ospita. È necessario uscire dalla metafora dell’economia come un sistema razionale che funziona come una fredda macchina e cominciare a considerarla come se fosse un organismo che si relaziona con gli altri organismi: iniziamo a parlare di ecologia economica. Ecologia, infatti, contiene anche logos nella sua accezione di dialogo con ciò che ci circonda: gli altri esseri che abitano con noi questa casa-mondo. Da qui la necessità di un’economia del noi, plurale, dopo tanti anni di economia dell’io, singolare ed egoista: il riconoscimento dei beni comuni e dell’esigenza di preservarli, i gruppi di acquisto solidale, il microcredito, la finanza etica, i bilanci di giustizia, il commercio equo e solidale, il cohousing. “In Italia esistono tanti movimenti, gruppi, associazioni […] che da tempo declinano l’economia plurale” che rappresenta un vero e proprio “capitale di relazioni”; ora questa rete dell’economia plurale deve moltiplicarsi all’infinito e diventare una massa critica sufficientemente numerosa per condizionare il sistema. Una massa critica formata da un’ulteriore evoluzione del genere homo: l’homo sufficiens che cerca “l’abbastanza quando il troppo sarebbe ancora possibile. Raggiunge cioè la sufficienza, principio intuitivo oltre che razionale dal punto di vista personale”. E proprio questi homini sufficiens sono solitamente anche “reciprocans” perché sono coloro che “attivano i principi e le relazioni di reciprocità”: lo scambio di beni così non è più impersonale ma si arricchisce della relazione che si instaura tra le parti determinando così un aumento del capitale relazionale.
Secondo Segrè manca però ancora un balzo evolutivo: quello verso l’homo civicus: “è l’uomo che si batte attivamente per la tutela e la valorizzazione dei beni comuni, intesi nella loro accezione più ampia, ossia quella dei beni pubblici e della fiducia. […] Che è capace di andare oltre a ciò che si crede insuperabile: l’utilità individuale e l’autointeresse nel breve periodo, per costruire invece un’azione collettiva, equa, sostenibile e solidale nel lungo periodo”. Segrè scrive, e non si può che essere d’accordo, che “Ne abbiamo un disperato bisogno”.

I problemi della gente

di Enzo Barboni

Diritti un po’ bloccati, doveri in parte rispolverati, un lavoro che non c’è, quella maledetta cassaintegrazione; e poi, le bollette ed il mutuo, il bambino e la nonna, sono stati i temi di un parlarsi tra i tavolini di un bar-pasticceria che guarda la cattedrale; ed era un tardo pomeriggio grigio di fine febbraio nella città estense che sovente sonnecchia.
Eravamo seduti, con la signora ed una amica, a prendere un tè ed alcuni biscottini di produzione ferrarese e non potevamo non sentire quel dialogo intenso e a volte caldo, tra più persone: due coppie, una con una bambina, l’altra insieme da anni, una nonna ed una suocera.
Abbiamo ascoltato per una sorta di curiosità, ma anche per capire quello spaccato sociale di convivenze complicate, a volte serene e pacate, ma anche un po’ ribelli e con tratti rivoluzionari, di una generazione che non intravede buoni segni di futuro.
A volte ci è parso di cogliere, in quel parlare vicino, anche un non senso, quasi ad essere sul confine instabile tra povertà e miseria, tante sofferenze, i bisogni elementari quasi recisi, una lacrima di nonna, una dignità colpita, istituzioni lontane; un quadro che ci ha lasciati ad un riflessione ulteriore sulle cose del mondo vicino, anche qui in queste nostre terre ai margini.
La nonna, che a volte ci guardava come voler parlare anche a noi, seduti nel tavolino appresso, insisteva, con i suoi interlocutori, parenti ed amici, su quel “cambiare verso”, ormai le frequenti due parole messe insieme da una politica che vuole cambiare.
Abbiamo assistito ad una insistenza, anche con toni alti, come per dire che quella è la sola strada da percorrere, anche se non idilliaca, anche se non priva di distinguo, anche se incontra alcuni no non ideologici.
Almeno si prova a guardare all’ultimo, diceva la nonna, a risollevare alcune precarie condizioni, a rimuovere le ingiustizie, a stare con i deboli, a farsi partecipi delle difficoltà, anche se la Caritas, la comunità di sant’Egidio, sono solo una prima risposta caritativa perché è per la sopravvivenza; ma, continua la nonna, la politica, quella alta, deve cominciare ad avviarsi nei giusti sentieri del benessere diffuso.
E poi quelle inimmaginabili ricchezze, così mal costruite e così mal distribuite, non possono solo rimanere scritte, come peste e sterco, nei trattati e nelle costituzioni; serve una profondo cambiamento, afferma il nipote della nonna.
E per non dire poi, si continua con toni duri, di quelle troppe e diffuse corruzioni, di cui ne portiamo, un po’ tutti, tracce veniali anche se di minute responsabilità, mentre quelle grandi, a molti zeri, sovente, si muovono in itinerari quasi carsici.
Loro continuano nel parlarsi, noi, data l’ora tarda, lasciamo quei sentire e ci avviamo verso casa. Uscendo l’amica, vedendo la facciata della cattedrale illuminata da una molteplicità di luci, una visione sempre bellissima, aggiunge: “forse la bellezza ci potrà aiutare ad uscire dalle nostre difficoltà”.
Una lezione, in quel tardo pomeriggio, che non pensavamo di dover assistere e che non può che coinvolgerci.

Per ascoltare “I problemi della gente” di Luca Carboni clicca qui.

Ma c’è anche chi cresce: Elletipi, esempio virtuoso nel panorama ferrarese

Incuneata nel suolo ferrarese, Elletipi è un’azienda nata nel 1974 e cresciuta passo dopo passo, specializzandosi nei servizi ingegneristici per la geotecnica, in rifermento all’implementazione delle grandi opere, che, da sempre, ha cercato di congiungere l’attenzione verso i clienti con le tecniche di controllo dei processi produttivi e di miglioramento dell’efficienza, grazie alla misurazione continua dei risultati ottenuti, aprendosi all’idea di ‘total quality management’.

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Elletipi, servizi ingegneristici per la geotecnica

Grazie alla collaborazione dei tre tecnici ferraresi Riccardo Mazza, Massimo Romagnoli e Paolo Bet, responsabili dei rispettivi settori core, la stabilità e la crescita dell’impresa hanno contribuito di attrarre una nuova attenzione su di sé: nel 2013, infatti, è stata acquisita dal gruppo Dimms nella prospettiva di un continuo ampliamento del mercato di riferimento del gruppo.
Nel tempo si è sviluppata una sinergia in grado di fondere la cultura storica e altamente specializzata dell’azienda ferrarese e la prospettiva dinamica, che guarda al futuro, dell’avellinese Dimms, ed è in questo modo che si sono ottenuti gli ottimi risultati che hanno aperto le porte ad una nuova avventura che, a partire dall’inizio del nuovo anno, porterebbe il gruppo alla quotazione in borsa con possibilità di ‘dual listing’ sull’Aim (Alternative investment market) di Milano e Londra.

La capogruppo Dimms nacque nel 1992 dall’intuizione dei fratelli De Iasi che decisero di proporsi nel campo della geotecnica; oggi il gruppo collabora con clienti come Eni, Shell, Total e Anas ed oltre ad Elletipi, elemento trainante nel campo dei controlli di qualità dei processi produttivi dell’ingegneria civile per il Nord-Est d’Italia, controlla anche la marchigiana Geomarine che completa l’offerta con servizi near-shore e off-shore.
Ultimamente poi, “ha fatto rumors” l’applicazione del jobs act mediante l’assunzione di trenta nuovi operai e la fuoriuscita di un nuovo piano industriale per il 2016-2018; se grazie all’iniezione di liquidità data dal fondo Xenox private equity sono state realizzate le prime due acquisizioni per 5 milioni di euro, si pensa a nuove mosse strategiche per ampliare il proprio mercato di riferimento.
Dalla collegata in Mozambico si avanza l’ipotesi di ulteriori acquisizioni in Africa per avanzare nel settore dell’oil&gas ed avvicinarsi ai mercati di Dubai e Abu Dhadi, considerati molto profittevoli.
Insomma, l’intero gruppo Dimms ha effettuato una sorta di scalata, consacrata dai trend positivi del fatturato che dal 2013 al 2014 – dichiara – ha raggiunto un +50%.
Questi, comunque, sono solo una serie di risultati che scrivono la storia di una realtà che cresce e che avrà modo d’influenzare positivamente il territorio.

Comacchio, le varianti della discordia. No di Legambiente. E Michetti: “In riviera non cambia mai nulla”

2. SEGUE – I ritocchi al regolamento edilizio con cui sono state cancellate le differenze tra campeggi e villaggi turistici non convincono Davide Michetti, consigliere d’opposizione dell’Onda astenutosi dal voto durante il consiglio comunale, che ha visto l’approvazione delle varianti. Varianti – si è detto – utili ad adeguarsi alle indicazioni della Regione e che permettono di occupare fino al 100 per cento delle piazzole dei campeggi con case mobili e fisse. A lasciare Michetti maggiormente perplesso è però il passaggio sulla possibile nascita di nuove strutture, risolta con un rinvio alle norme attuative del Piano regolatore licenziato nel 2002.

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Davide Michetti, consigliere d’opposizione dell’Onda

“Per quanto riguarda i campeggi non mi sento di criticare l’obiettivo, alcuni sono già villaggi turistici e hanno bisogno di rispondere alle esigenze di maggior confort espresse dalla clientela – dice – diversa invece è la mia opinione sulla realizzazione di nuovi progetti al vaglio comunale. Ho molti dubbi sulle modalità di approvazione della delibera e sul cambio di destinazione d’uso di alcuni terreni, tra l’altro non si è tenuto conto delle particolarità del territorio e degli eventuali problemi che potrebbero insorgere mutandone la fisionomia”. Pensa agli allagamenti più frequenti in alcune zone che in altre, alla fragilità della costa aggredita dalle mareggiate, ai possibili strapazzi ambientali. Tutte cose, sostiene, da trattare in base a valutazioni tecniche e alla specificità delle singole situazioni.

“Sono temi dai quali non ci si può disimpegnare con leggerezza, invece la scelta politica dell’amministrazione sembra andare in un altro senso”, dice. Un pasticcio dunque? “Per fare un lavoro tecnicamente corretto si doveva mettere mano al Piano regolatore valutando richieste e osservazioni – continua – Il risultato delle risoluzioni prese si è tradotto in numerosi ricorsi contro le decisioni della giunta, io stesso ne avevo segnalato il rischio. Chi si è sentito penalizzato, non intende soprassedere e, per come stanno le cose, da imprenditore non me la sentirei di partire con nuove intraprese”. Motivo? “Se anche un solo ricorso dovesse andare a buon fine, le conseguenze potrebbero toccare gli imprenditori e lo stesso Comune, chiamandolo a risarcire l’eventuale torto con i soldi dei contribuenti”. Al di là degli ipotetici risvolti legali, quantificati finora in 11 ricorsi al Tar (Tribunale amministrativo regionale), Michetti stigmatizza altri aspetti della vicenda. “Per le esigenze turistiche della riviera è già sufficiente quanto abbiamo, non c’è bisogno di altri posti letto – dice – Miglioriamo, ampliamo l’esistente, ma ricordiamoci che i villaggi turistici esauriscono la spinta economica al loro interno con il rischio di far morire l’economia locale”.

Nei suoi ricordi il dibattito sui mali della riviera è sempre uguale a se stesso: “E’ la storia che si ripete, si è sempre parlato di conversione e rivalutazione di Comacchio per favorire il turismo, ma non la si è mai favorita veramente – dice – Vent’anni fa si è cominciato a trasformare gli alberghi in appartamenti, poi è arrivato il momento delle Rta (Residenza turistico alberghiera) e i risultati, anche in termini di ricadute occupazionali, non sono certo lusinghieri. Non è cambiato nulla, nemmeno gli attori con cui l’attuale sindaco fa promozione turistica. Fabbri dovrebbe riflettere sulla storia locale, su come si è arrivati fin qui, prima di prendere delle decisioni tanto importanti per la città e la riviera”.

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Gabriele Bellini, ex segretario Pd e consigliere comunale

La storia, anche la più recente, ha le sue chiavi di lettura: “Il problema è che non c’è mai stata una visione d’insieme né di media e lunga durata riferita Comacchio”, sottolinea Gabriele Bellini ex segretario del Pd e consigliere comunale. Uscito di proposito dalla scena politica nella quale, s’affretta a specificare, non è intenzionato a rientrare, avanza alcune riflessioni: “Le varianti con la mia impronta sono poche ed erano tutte orientate al contenimento della cementificazione. Il tentativo di procedere in questo senso era iniziato, purtroppo con risultati insoddisfacenti, tardivi e poco tangibili. Ci abbiamo provato e forse potevamo fare qualcosa di diverso, sono il primo ad ammetterlo – spiega – Tuttavia mi preme ricordare come Comacchio sia sempre stata una terra di conquista da parte del partito egemone che ne ha condizionato l’esistenza, mi riferisco al Pci fino ad arrivare al Pd”. Un esempio? “Se la Provincia toglie i vincoli sulle pinete, va da sé il verificarsi di quanto è accaduto e continua ad accadere. La visione esposta da Valter Zago, non è lontana dalla realtà (precedente intervista, ndr), a parole si dice una cosa poi se ne fa un’altra – continua – L’attuale amministrazione segue il solco della tradizione contrariamente a quanto aveva enunciato. Non sorprende, semmai delude chi aveva sperato in qualcosa di nuovo e diverso per Comacchio, ci sono però ancora due anni di tempo prima dello scadere della legislatura, volendo si possono mettere in campo diverse iniziative. Del resto la giunta Fabbri ha ereditato situazioni pregresse con le quali deve misurarsi e alle quali lo stesso Zago non può dirsi estraneo”.

Dalla micro dimensione alla macro, il passo è breve. “A voler guardare bene la situazione, si ha l’impressione che la Regione, una volta considerata all’avanguardia nell’intero Paese, abbia allargato i cordoni sulle tutele ambientali – precisa – In riviera ci sono luoghi che meritano un’attenta salvaguardia, così come la richiederebbe il Parco del Delta del Po. Al di là del Mab, che ci pone a fianco della parte veneta del Parco come riserva della biosfera, l’ente appare in disarmo. Oltre a mancare un direttore, è la sua missione a sembrare naufragata, si guarda molto alla burocrazia e non ai principi che ne hanno ispirato la creazione. Questa purtroppo, indipendentemente da chi amministra a livello locale, è la tendenza del momento. Si punta al business in nome dello sviluppo e dell’occupazione, ma si perde per strada la mission di salvaguardia e valorizzazione del territorio”.

“Ormai è chiaro non siamo gli unici a mettere in discussione le decisioni della giunta. I ricorsi ne sono la dimostrazione – dice Stefano Martini a nome del direttivo di Legambiente Delta Po – Dal nostro punto di vista le due delibere approvate a fine gennaio del 2014, con cui si dà mandato al sindaco di sottoscrivere con i privati gli accordi relativi alla Collinara e al Camping Village Comacchio (ex Elisea, ndr), non risponderebbero a condizioni e termini richiesti dallo stesso Consiglio comunale nel settembre del medesimo anno”. Perché? “Mancano alcuni elementi necessari e, soprattutto, non ci sono gli studi sulla sostenibilità economico-finanziaria degli interventi proposti – conclude – Non c’è neppure la corretta quantificazione dell’interesse pubblico e le garanzie indispensabili ad assicurarlo, sicché il tutto appare ampiamente deficitario”.

Leggi la prima parte

Il rispetto e l’arroganza delle caste. Ricordando Savonarola

di Massimo Maiarelli

“… ho visto l’infinita miseria degli uomini, gli stupri, gli adulteri, le ruberie, l’idolatria, il torpiloquio, tutta la violenza di una società che ha perduto ogni capacità di bene….”
Chi scriveva queste cose non è stato il cittadino, il cronista, la persona offesa da quanto tutto i giorni i media ci propinano o da quanto è successo al Tribunale di Milano, piuttosto che a Parigi nei mesi scorsi. Quella frase è molto antica, risale alla seconda metà del 1400 ed a pronunciarla è stato Girolamo Savonarola. Per le sue affermazioni, nel 1497 fu scomunicato da Papa Alessandro VI e l’anno seguente impiccato e bruciato sul rogo come “eretico, scismatico e per aver predicato cose nuove”.
Sono passati oltre 500 anni, in realtà sembra di essere davanti al nostro televisore ad assistere ad una delle tante trasmissioni televisive, dai tg alle performance dei nostri politici che frequentano ormai più assiduamente gli studi televisivi rispetto alle aule parlamentari.
Chissà cosa direbbe oggi Savonarola di loro? E non solo di loro. Oltre alla casta dei politici, che spesso non offre una immagine positiva, oggi le caste sono tante, come erano tante le corporazioni ai tempi di Savonarola. Nulla è cambiato, forse è solo peggiorato.
Oggi si sente dire sovente “ci hanno lasciati soli, ci sentiamo isolati”. Sicuramente l’isolamento porta alla paura, alla emarginazione, ogni tanto alla violenza. Ma chi si sente “lasciato solo o isolato”, si interroga del perché si sente tale? Cosa ha fatto o non ha fatto per sentirsi emarginato?
Un proverbio sostiene che si raccoglie quello che si semina. Dicono anche che i proverbi sono la saggezza dei popoli. Ed oggi purtroppo l’autocritica, l’umiltà, il pudore, la vergogna non appartengono ai nostri tempi. Oggi prevalgono i diritti acquisiti, le caste, le lobby, la prepotenza, l’arroganza, le ruberie, tanto per rubare una parola al buon Girolamo Savonarola.
“Dobbiamo fare sistema”, altra frase che si sente spesso. Ma per fare sistema occorre uscire dall’isolamento, rendersi conto delle situazioni e delle opportunità che ci circondano, assecondare le esigenze altrui, spesso rinunciando a qualcosa. Non pare che sia questa la strada imboccata dalla maggioranza, la maggioranza è egoista, pensa al proprio orticello, ai propri diritti acquisiti e così facendo, ovviamente ed automaticamente, si isola e non può poi piangersi addosso e chiedere aiuto.
Rispetto, altra parola abusata. Quando ci scappano dei morti il rispetto va a tutti i morti, indistintamente, perché la vita è sacra, sacra per tutti.
Il mio non vuole essere cinismo, semplicemente una visione reale di quello che succede. L’isolamento è figlio del comportamento, dell’atteggiamento, entrambi spesso vissuti egoisticamente, con lenti troppo spesse o deformate, lenti che non consentono di vedere il mondo e la società con la giusta obiettività.
All’Università, quando studiavo giurisprudenza, mi avevano insegnato la sfera giuridica come quella cosa che ciascuno di noi ha e dentro la quale deve convivere. Se qualcuno tenta di allargare, più o meno colpevolmente, la propria sfera giuridica, è evidente che va a sovrapporla a quella di un altro, a calpestarla, a togliere qualcosa al proprio vicino. Anche questo è rispetto, anche questo andrebbe rispettato. Come va rispettato il credo politico o quello religioso, solo per citarne due. Tutti hanno bisogno di rispetto, che si deve innalzare all’ennesima potenza quando viene violato il nostro bene più grande: la vita.

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Vita di contrada
A San Giovanni le bandiere volteggiano al ritmo dei tamburi

La sede della contrada di San Giovanni oggi la senti prima di vederla. Tra i campi che circondano via del Melo le risate, il rullo di tamburi e le tante parole che si perdono nei vari discorsi lasciando che il tono spensierato diventi musica. Manca poco alle tre di pomeriggio, c’è il torneo, la giuria richiama all’ordine le varie contrade, proveniente da tutta Italia, e invita i gonfalonieri a prepararsi per la presentazione. E’ l’ottava edizione del torneo Le bandiere del cuore. Trofeo Laccetti“, dedicato proprio a Paolo Laccetti, musico del borgo San Giovanni, prematuramente scomparso, e in onore di tutti gli Angeli in calzamaglia.

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Presentazione delle contrade

Mentre i gonfaloni si raggruppano, i colori delle varie contrade si miscelano tra di loro, indossati da chi è pronto a gareggiare, dai tifosi con i foulard al collo, sulle bandiere che sventolano dietro il palco, lanciate da sbandieratori in pieno allenamento. Tra tutti, noto la lince bendata ricamata sui vestito rosso-blu dei contradaioli di San Giovanni, simbolo della lungimiranza, legato al marchese Niccolò III, principe estense, che venne bendata in su secondo momento, dal figlio Lionello, dopo la morte del padre. Andrea mi viene incontro con il fratello Marcello e l’amico Eugenio, tutti e tre musici-tuttofare , in questa contrada dal 2008.

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La contrada si prepara
I musici di San Giovanni
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In costume con i colori rosso-blu

“Questo torneo viene organizzato ormai da otto anni ed è diventato un appuntamento fisso durante l’anno. Sono invitate le contrade d’Italia, possono partecipare tutte, e diviene una sfida e una prova in preparazione degli eventi di maggio. La giuria è composta da membri del Fisb (Federazione italiana sbandieratori) e da personaggi che fanno parte delle varie contrade. Con gli anni questo evento ha acquisito importanza e la gara si compone di tre sfide: la piccola squadra, dove anche i musici sono valutati, il singolo, sempre con l’accompagnamento dei musici, e il doppio. Oggi ci sono circa 15 contrade, tra cui San Luca di Ferrara, Rione Rosso di Faenza e Città Murata di Montagnana”.

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Marcello ed Eugenio di San Giovanni osservano l’esibizione degli amici

Dopo avermi presentato il torneo, è già il turno del borgo San Giovanni: Andrea si prepara a suonare e Eugenio mi dice di prestare attenzione ai ritmi. “Noi abbiamo un vero e proprio culto dello strumento e siamo molto fiscali per quanto riguarda i ritmi e i tempi delle percussioni. A volte tendiamo a complicarci la vita, però ci piace lavorare con originalità, anche quando dobbiamo seguire le indicazioni del regolamento, per interpretarle integrandole a quella che per noi è un importante caratteristica”.

La sfida è finita, un’altra contrada si prepara ad entrare e tra il pubblico c’è Alice, di dieci anni, che ci ascolta incuriosita. Mi racconta, intimidita, che è in contrada grazie alla mamma e che suona nel gruppo under da tre anni, ma non vede l’ora di passare tra i “grandi”. Tentenna prima di rispondere, ma quando le chiedo se si vergogna a suonare davanti a tanta gente mi risponde di no, muovendo la testa energicamente, dicendomi che le piace tanto esercitarsi ed esibirsi. “Se si entra quando si è ancora piccoli, la contrada diventa la tua vita.

altre contrade tra il pubblico
Partecipanti di altre contrade
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Musici di altra contrada
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Ragazza di un’altra contrada

Ma non sempre – mi dice Andrea – ci si sente a proprio agio in questo ambiente. Quando ero bambino, i miei genitori mi portavano a vedere la sfilata del giuramento e io ero affascinato dai musici, mi piaceva vedere i figuranti e gli spettacoli. Per questo, quando mi hanno proposto di provare io l’ho fatto, anche se un po’ per gioco. Io e mio fratello eravamo in un’altra contrada, nel gruppo under, ma non ci siamo mai sentiti troppo integrati. A volte capita, non è sempre facile integrarsi in una contrada e io ho preferito cambiare, perché comunque mi ero innamorato del tamburo e volevo continuare a praticare in un contesto come questo”.

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Un tifoso di San Giovanni

L’impegno che richiede la vita di contrada è tanto e costante e, se non ci si dovesse trovare bene in un gruppo, si rischia di allontanarsi totalmente, per questo si dovrebbe cercare un luogo dove sentirsi a casa. Questo passaggio da una contrada ad un’altra richiede un “permesso“, un nulla osta che permette a chi va via di unirsi subito al gruppo che preferisce. Quasi sempre, per i conflitti e le rivalità, questo non accade, costringendo in questo modo l’ex contradaiolo ad un periodo di fermo. “Dopo questo periodo di blocco ci siamo uniti al gruppo di San Giovanni con altri amici, eravamo un gruppo di cinque ragazzi e ci siamo trovati coinvolti in un vero e proprio cambio generazionale, diventando in poco tempo anziani di contrada. Abbiamo imparato tanto in questi sette anni, soprattutto a condividere le gioie e i momenti di felicità, come una vittoria, ma anche i grandi dolori, come la perdita di un amico. Come accade sempre nella vita, ci sono dei momenti in cui ci si vorrebbe solo fermare, rallentare con tutto, perché nulla ha più importanza di fronte ad una perdita. Eppure sapere di essere circondati da tante persone che provano i tuoi stessi sentimenti ti aiuta, passare una serata in cui si è tristi in contrada vuol dire dover giocare con i più piccoli e questo ti rende più sereno. Si va avanti, si gareggia, consapevoli di avere vicino persone che ti capiscono e ti danno forza”.

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Trofeo

Mentre parliamo, guardiamo le altre contrade gareggiare in attesa del prossimo ingresso di San Giovanni per la sfida del singolista, Nicolò Chiodi, vincitore nelle gare di maggio dello scorso anno, dopo i sette anni consecutivi di San Giacomo. “E’ stato emozionante veder vincere Nicolò, un gran momento per la nostra contrada. San Giovanni è il borgo che ha vinto, in totale, più Pali in assoluto, abbiamo vinto il Palio delle asine per circa dodici anni consecutivi. Ma ormai siamo diventati dei tuttofare, la nostra contrada è piccola e occupa una zona in cui non vivono tanti ragazzi, per questo è compito nostro occuparci di ogni cosa che va montata, riparata o cambiata. Il palco per questo torneo è stato montato dai noi, ma la stessa sede è stata ristrutturata negli anni da chiunque avesse voglia di partecipare. Per finanziare il tutto partecipiamo ad uscite e fiere, organizziamo una raccolta fondi nel periodo natalizio e creiamo degli eventi”.

Tra gli eventi organizzati dalla contrada, il pranzo rinascimentale organizzato al Torrione (Jazz Club) durante il Carnevale rinascimentale di Ferrara; ogni estate, per tutto il mese di luglio, nella zona di via Pomposa, viene allestita la “Tavola rotonda il banchetto dei cavalieri“, “Una sagra rinascimentale – spiega Andrea -, con spettacoli che vanno dal cabaret ai concerti dal vivo, con rievocazioni storiche organizzate da noi o da gruppi esterni con cui collaboriamo, il tutto all’interno di un cerchio creato dai tavoli, per far sè che il pubblico sia coinvolto. In più creiamo un’area per bambini con i giochi gonfiabili e il calcetto saponato e lo scorso anno il torneo di beach volley ha avuto un gran successo. Il nostro scopo è quello di creare un ambiente per le famiglie, dove poter passare le calde serate estive insieme, giocando e divertendoci. In più collaboriamo con il catering dell’Archibugio, in modo da poter anche mangiare tutti insieme”.
Tra i tanti eventi, il borgo San Giovanni partecipa anche a numerose competizioni e i punteggi ottenuti nei vari tornei vengono inseriti in una graduatoria nazionale e, i primi dieci classificati, potranno partecipare ad un torneo costituito pochi anni fa, Flag Ranking. Non ci si ferma alle gare tradizionali, il mondo delle contrade continua ad espandersi e ad evolversi, nella speranza che un giorno queste competizioni possano essere considerate pari agli altri sport.

Intanto il torneo giunge alla fine e si premiano i vincitori per le tre categorie, tra qualche dispiacere di chi non si è classificato e la gioia di chi sale sul podio, pregustando già le sfide di maggio.

Il torneo “Le bandiere del cuore. Trofeo Laccetti” si è svolto sabato 12 aprile scorso.

Nasce Periscope, il mondo in diretta streaming dal cellulare

Il suo ingresso nell’ampia scena dominata dal web e dai social network non è passato inosservato, poiché ormai tutto quello che sfonda in rete è destinato ad entrare prepotentemente nella nostra quotidianità: è quello che sta accadendo nelle ultime settimane con la nascita di Periscope, applicazione per smartphone creata da Joe Bernstein e Kayvon Beykpour e completamente interfacciata con la già ben nota Twitter.
Periscope sulla carta è “l’acqua calda”, niente di apparentemente rivoluzionario o mai visto prima dal punto di vista tecnico, poiché si avvale di una piattaforma sulla quale un utente può inserire un video che tutti gli altri utenti iscritti possono visualizzare. Nulla di sconvolgente, in un’epoca nella quale Skype e YouTube oramai sono conosciuti anche da chi un computer non lo ha mai preso in mano.

periscope-twitterQuello che però rende Periscope una vera e propria novità, forse destinata a padroneggiare il mercato di internet, come i pilastri appena citati, è la diretta simultanea, la possibilità ovvero di registrare con il proprio telefono qualsiasi cosa si desideri in qualsiasi momento della giornata e trasmetterlo in diretta streaming al mondo. Parallelamente, gli utenti possono visualizzare cosa sta trasmettendo in quel preciso istante chi si è scelto di seguire, ed interagire tramite il più classico servizio di messaggistica istantanea. Tutto molto più facile a farsi che a dirsi.
Ecco che paiono chiare le sue enormi potenzialità, applicabili in svariati settori: tutti oggi possiamo crearci la nostra personalissima televisione ed il nostro broadcast, dove il broadcast siamo noi stessi. Grazie alla già citata integrazione con Twitter, inoltre, il nostro profilo Periscope saprà chi già seguiamo in rete e cosa più ci interessa, facilitando così la ricerca delle dirette o addirittura permettendoci di venire avvisati con una notifica quando un nostro “follower” crea una diretta. E per non far mancare nulla, i video distribuiti in diretta possono anche essere registrati e resi disponibili per la visione in un secondo momento nelle 24 ore successive alla loro creazione.
Proprio su quest’ultimo punto sta la differenza con Meerkat, un’applicazione uscita un paio di mesi fa e molto simile a Periscope che, nonostante godesse di numerosi consensi, limitava la visione degli utenti alla mera diretta facendo scomparire il contenuto alla conclusione della stessa. Importante diviene infatti sottolineare che già da tempo esistono piattaforme in grado di offrire servizi analoghi a quelli che offre Periscope, su tutti Younow, Livestream e Ustream.

Le caratteristiche che rendono Periscope davvero un prodotto nuovo, e soprattutto pronto ad una rapida espansione, sono l’immediatezza e la freschezza: creare una diretta è tanto semplice quanto pubblicare un tweet o un post, come semplice è accedere ai numerosissimi contenuti e cercarne di diversi ogni secondo che passa. Possiamo passare così dalla visione di una conferenza stampa ad una persona che passeggia per le vie di una città, dal backstage di una trasmissione televisiva alla recita dello spettacolo di fine anno delle elementari. In Italia, personalità note al grande pubblico come Fiorello e Jovanotti hanno cominciato ad utilizzare Periscope già dal giorno della sua uscita (il 26 marzo scorso), quest’ultimo, attivissimo, più volte al giorno dialoga con il suo pubblico e mostra il dietro le quinte delle prove dall’interno degli studi di registrazione. Già attive sono inoltre tutte le principali testate giornalistiche e i giornalisti stessi, svariate case editrici, partiti politici, musei e trasmissioni televisive. Su Periscope sono state create dirette all’esterno del Tribunale di Milano durante le tragiche vicende del 9 aprile scorso, mentre a Ferrara risulta particolarmente attivo il Palazzo dei Diamanti, che in vista della prossima apertura della mostra “La rosa di fuoco” ha mostrato l’arrivo delle opere e tiene aggiornati gli interessati sulle ultime news.
Provando personalmente l’applicazione, tra i live non creati dagli utenti che già seguo, mi sono imbattuto in una ragazza che si spostava in lungo e in largo per Parigi, chiedendo ai suoi utenti che cosa volessero andare a visitare della capitale francese, e lei prontamente si spostava verso il luogo prescelto, a piedi o se necessario con i mezzi pubblici. Un’altra ragazza si riprendeva durante lo svolgimento dei suoi compiti scolastici, chiedendo informazioni e consigli agli utenti, mentre altre persone ancora cantavano canzoni su richiesta. Il tutto quasi sempre seguito già dall’inizio della diretta da non meno di un centinaio di utenti, che nel caso di live di personalità famose ovviamente aumentano in modo esponenziale. Numeri incredibili se si pensa che Periscope per adesso è disponibile solo per dispositivi Apple (a breve lo sbarco su Android).
Tutto insomma può essere ripreso e distribuito su Periscope, senza (per ora) alcun tipo di limitazione; uno dei pochi punti a sfavore probabilmente è la qualità del video, molto bassa e tutt’altro che professionale per ovvi motivi di fruizione e caricamento in rete.

Come è accaduto (e come continua ad accadere) per ogni nuovo prodotto di diffusione di massa sulFoto 15-04-15 18 14 48 web, l’iniziale entusiasmo per la novità si scontra presto con le preoccupazioni e i problemi che questa incontrollabile diffusione potrebbe provocare. Lo stesso Twitter in queste settimane sta cercando di rivedere i propri regolamenti, in modo tale da controllare maggiormente la pubblicazione dei contenuti e tutelare il più possibile i suoi utenti e la piattaforma stessa.
Periscope potrebbe divenire uno scomodo concorrente dei media tradizionali, basti pensare alla possibilità di riprendere un concerto, un film al cinema, una partita di calcio, ma anche un incredibile mezzo di diffusione libera e incontrollata di violenza, pornografia, illegalità, anonimato. Senza contare l’effetto “grande fratello”, sempre di grande attualità. Problemi già noti sul versante social network, settore nel quale anche Periscope si sta ritagliando il proprio spazio e che da anni divide la società in favorevoli e contrari, in chi ci vede il male del giorno d’oggi e in chi invece vede queste nuove tecnologie come una enorme possibilità per il futuro.
Ma al di là dei comprensibili dubbi circa la diffusione di Periscope, credo sia interessante analizzare questo nuovo prodotto tecnologico come un’opportunità, soprattutto per quanto riguarda un mondo, quello dell’informazione, in costante evoluzione e mutamento. L’informazione oggi non può prescindere dal web, piaccia o no, e servizi come Periscope, se utilizzati in maniera corretta, non possono che portare vantaggi e migliorie. Periscope incarna tutto ciò che l’utente medio del web di oggi richiede nella sua ricerca di informazioni: immediatezza, semplicità e soprattutto condivisione. Il mondo in costante diretta, quando e dove lo vogliamo, una nuova frontiera nel modo di fare giornalismo. La notizia, grazie a Periscope, può essere oggi diffusa con un tempismo, un realismo ed una diffusione (con tanto di interazione) spaventosi, e la stessa notizia può successivamente essere approfondita e condivisa in un modo inedito ed innovativo rispetto ai meccanismi classici della rete o i mass media tradizionali.
In un certo qual modo potrebbe giovarne anche la veridicità e la trasparenza delle fonti, grazie ad un contatto visivo diretto e riconoscibile (gli stessi profili ufficiali degli utenti popolari di Twitter vengono segnalati con una spunta azzurra) con chi sta dall’altra parte dello schermo e dell’ambiente che lo circonda mentre diffonde il proprio messaggio.

Certo è ancora molto presto per parlare di rivoluzione, il prodotto è ancora neonato e in fase di assoluta sperimentazione, sia tecnica che pratica. Appare chiaro tuttavia che Periscope, così come viene già teorizzato in questa sua fase quasi embrionale, è destinato a continuare a far parlare di sé e modificare molto, se non tutto, di quello che già abitualmente pratichiamo sulla rete. Molto più di una semplice moda passeggera.
La caccia ai cuoricini (così vengono segnalati sulla schermata della diretta tutti i nuovi “spettatori”), quindi, è ufficialmente aperta.

Luca Bretta cantautore disconnesso mette in musica la generazione ‘tecno’

“La musica è la mia compagna di viaggio” è una delle prime cose che mi dice Luca Bretta quando lo incontro, al tramonto, in piazza Ariostea. Un metro e 85 d’altezza, capelli castani ricci, un fisico estremamente asciutto, “peserò 20 chili” dice con la sua grande autoironia, e una grandissima passione, quella per la musica.

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Luca Bretta

Luca Bretta nasce a Cento il 25 gennaio del 1991 e a 5 anni si trasferisce prima a Selva di Cadore, poi a Madonna di Campiglio, infine fa ritorno in Emilia e si stabilisce a Ferrara per motivi di studio. Fin da piccolino manifesta la passione per la musica, specialmente per il pop: “A 7/8 anni scrivevo canzoni d’amore senza nemmeno conoscerne il significato, volevo imitare quelli più grandi di me. Ho iniziato a suonare seriamente a 15 anni, a quell’età entra in gioco la fase dell’alternativismo; mi regalarono una chitarra, ma mi sembrava troppo banale perciò iniziai a suonare il basso. Fondai la mia prima band, gli Hot Funky Style; eravamo quattro sfegatati dei Red hot chili peppers e insieme abbiamo inciso un album”.

Luca ha frequentato il liceo scientifico nel piccolo comune di Tione di Trento e a scuola, con il suo gruppo, aveva iniziato a riscuotere un discreto successo. Ma aveva già iniziato da tempo ad esibirsi, “Quando avevo 9 anni ho registrato su una cassetta i dieci brani che avevo scritto, poi, insieme al mio caro amico Jacopo Deltedesco a cui oggi devo molto, sono andato in piazza, in un paesino di circa 300 abitanti. Ci siamo muniti di stendipanni, tovaglia e tastierina e abbiamo dato vita alla nostra prima esibizione pubblica. Eravamo gli Extra, devo dire che abbiamo avuto molto coraggio. Ma è stato nel 2007 che sono stato messo alla prova, sopportando il tasso più alto di tensione della mia vita. Avevo iniziato a suonare il basso e ancora non avevo fondato il mio primo gruppo. Un giorno mi chiesero di esibirmi sul palco della scuola, con la band più “cool” dell’istituto, ma io non avevo mai suonato né con una band, né al di fuori della mia camera da letto. Mi sono sentito morire, ma è stata un’esperienza indescrivibile. Da quel giorno la mia popolarità a scuola cambiò in meglio”.

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Bretta al festival show (foto di © Vito Cecchetto)

A parte il fratello dj, nessun membro della famiglia è musicista, ma Luca parla di una sorta di passione intrinseca che accomuna lui e i suoi familiari. “Mio padre avrebbe sempre voluto suonare, mi appoggia molto e cerca sempre di darmi dei consigli. Tutti nella mia famiglia adorano la musica ma nessuno, a parte me, ha mai coltivato questa passione”. Per ogni artista, a qualunque tipo di arte si dedichi, iniziare è spesso difficile, ma Bretta non si abbatte mai. “Mi sono sempre considerato un ‘loser’, ho partecipato a diversi concorsi ma non ne ho mai vinto uno. Non mi reputo un gran cantante, faccio musica perché mi diverte e mi fa star bene”. Mi racconta che l’unico vero riconoscimento ricevuto è l’essere arrivato in finale al Festival show ed essersi esibito all’Arena di Verona. E’ inoltre arrivato per due anni consecutivi alle semifinali del Festival di Castrocaro e nell’estate del 2013 è stato selezionato per il Corona socialice tour, durante il quale ha portato la sua musica su numerose spiagge italiane. Grandi soddisfazioni ed eventi importanti, ma tutto questo Luca Bretta lo racconta con sincera modestia, senza mai prendersi troppo sul serio. E’ un ragazzo semplice che ascolta gli Oasis, i The kooks, i Red hot chili peppers, che apprezza tutto il brit-pop e si ispira a Cesare Cremonini e a Vasco Rossi. “Metto esclusivamente biografia nelle mie canzoni. Del Blasco mi piace il suo inserire esperienze di vita nei testi che scrive. Nei miei brani nasce molto spesso prima la musica: se c’è qualcosa che mi turba o mi influenza prendo la chitarra o mi siedo al pianoforte e inizio a comporre. Spesso è la musica a suggerirmi le parole. Per realizzare un brano posso metterci qualche giorno, ma solitamente mi basta qualche minuto. Nella musica sfogo tutta la mia creatività”.

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Copertina del cd d’esordio

E questa sua creatività è appena stata confezionata nel suo album d’esordio, “Disconnesso“, anticipato da “Visualizzato“, un brano pop/rock elettronico che parla della dipendenza delle nuove generazioni verso tutto ciò che è tecnologico. “Con questo disco ho deciso di mettere a nudo una parte della mia vita. Ci sono due aspetti della mia personalità, una parte riflessiva-romantica e una “fancazzista” ed è quest’ultima che ho voluto mettere nell’album. Devo ringraziare Alan Bignardi, Enrico Dolcetto e Agostino Raimo con cui suono abitualmente e che mi hanno aiutato con gli arrangiamenti. Ho rischiato l’esaurimento nervoso, ma volevo che tutto fosse perfetto. Ho speso tutti i miei risparmi per questo disco, ma la soddisfazione è stata enorme”.

Disconnesso” contiene 10 brani scritti in diversi momenti della sua vita e 4 bonus track, alcune molto divertenti a partire dallo stesso titolo, come “Mi cascano le braghe”. Rispondendo alla domanda, quale brano preferisce, dice, “É come chiedere a un genitore “Qual è il tuo figlio preferito?”, sono tutte mie creazioni e ciascuna a suo modo parla di me e del mio mondo. Forse la canzone di cui vado più fiero è “Studio a Fe” perché è nata con il cuore, in maniera spontanea; rispecchia una parte della mia vita e penso che ogni anno possa esserci qualcuno che si rispecchia nelle mie parole”. “Studio a Fe” parla di un ragazzo che lascia il proprio paese per venire a studiare nella nostra città, andando incontro a tutti i pregi e i difetti che Ferrara può offrire a un ragazzo giovane e pieno di voglia di vivere. “Questo brano è come una fotografia e il fatto che rimanga, che possa non invecchiare mai, per me significa molto”.

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Bretta con la chitarra

Se si pensa a Luca Bretta lo si immagina sempre con la chitarra in mano, come si vede da molti dei suoi video musicali quali “Principessa della porta accanto” e “Mi cascano le braghe“. Ma questo non è l’unico strumento che Luca suona, anche se, dice, “alla fine ho fatto della chitarra il mio strumento principale”, nonostante la considerasse “banale” quando gliela regalarono a 15 anni. Come la chitarra, ha imparato a suonare da solo anche il basso, è un autodidatta. Con la sua solita genuina modestia Luca mi racconta di avere anche “conoscenze basilari” di batteria, che ha studiato per un annetto in quinta liceo, e di pianoforte, a cui si è dedicato per un altro anno prendendo lezioni a Ferrara. Ed è proprio il legame che Luca ha con la nostra città che cerco di indagare.

“Quando sono arrivato qui volevo andarmene, mi sembrava una città troppo grande. A Ferrara mi si è aperto un mondo e ho vissuto una fase sentimentale-romantica che mi ha portato a comporre diversi brani in inglese, tutti molto nostalgici. Sentivo la mancanza della mia famiglia, come penso capiti alla maggior parte dei ragazzi che lasciano casa per andare a studiare o lavorare altrove. Ora mi trovo bene, non sono mai stato un amante del “casino assoluto” e Ferrara è una via di mezzo tra la città e la tranquillità di paese”. Come dice nel brano diventato simbolo degli universitari ferraresi, “io me ne vado a studiare a Fe e se ci rimango forse un motivo c’è”. Luca mi spiega che questa canzone è si molto allegra, a tratti spiritosa, ma è anche simbolo di “rinuncia” con cui intende dire “questo è quello che abbiamo, facciamocelo andare bene”. Spirito di adattamento e capacità di apprezzare ciò che la vita gli offre.
Si è trasferito a Ferrara per studiare farmacia, è un ambito che gli interessa molto ma che non è mai stato la sua “prima aspirazione”. Luca sogna di fare il cantautore e ha tutto l’appoggio della sua famiglia. I suoi genitori lo hanno sempre sostenuto, specialmente da quando ha pubblicato il suo primo disco con la band; quel giorno si sono accorti che fa sul serio: “Senza il loro appoggio non riuscirei a dedicarmi così appieno alla musica”.

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Luca Bretta in Piazza Ariostea a Ferrara, durante l’intervista

Bretta è un ragazzo solare, semplice e dice che gli amici lo prendono in giro per la sua timidezza, “poi però conoscono le mie canzoni a memoria” mi racconta con il sorriso sulle labbra. Quando gli chiedo di parlarmi dei suoi pregi e dei suoi difetti mi guarda e mi dice di ascoltare il brano n° 8 del cd dove dice “prima o poi ti accorgerai che non ho difetti”. Ancora una volta Luca fa dell’autoironia. Racconta di essere pigro, (ma mai per la musica!), e allo stesso tempo molto determinato. “Io sono disconnesso, proprio come il titolo del mio album. Spesso quando parlo mi perdo, inizio a fantasticare, ma credo che essere ‘disconnessi’ possa essere anche un pregio. Più si cresce, più si sente il peso delle responsabilità e si fa fatica a disconnettersi dai problemi e dai pensieri, per questo cerco sempre di vedere il lato positivo delle cose”.
Con la sua simpatia, maschera quell’insicurezza che ha chiunque si ponga degli obiettivi importanti: “Più uno pensa in grande, più vede moltissimi ostacoli davanti a sé. L’importante è rimanere sempre se stessi.” Avere personalità è quindi fondamentale per il giovane cantautore. “Ho partecipato a diversi casting, ma se dovessero mai selezionarmi per un talent show, voglio che mi prendano per quello che sono, non voglio scendere a compromessi; ho una mia personalità e non mi lascio costruire. Credo che i talent siano un ottimo trampolino di lancio, una bella opportunità, a patto che non ci si lasci snaturare”. Parlando del futuro, dice: “Mi piacerebbe partecipare a Sanremo, ma il mio obiettivo maggiore è far si che la gente si senta bene ascoltando la mia musica”.
Bretta è un ventiquatrenne che oltre a suonare e cantare ha altri sani passatempi. Fino alla quinta liceo ha giocato a calcio e oggi è maestro di sci, un hobby che con il tempo è diventato anche un mestiere. Ma c’è solo una passione in cui Luca mette cuore e anima, la musica, e nonostante le difficoltà che comporta il dedicarsi a quest’arte, lui non si arrende. “Non ho mai pensato di mollare perché non vedo la musica come una corsa alla gloria. Non si “deve” diventare famosi per forza, dipende tutto dal proprio destino. E’ importante essere sempre consapevoli di ciò che si fa, ma senza fare della propria passione un’ossessione”.

Mentre prendo congedo da lui, Luca mi regala una copia del disco che ha appena inciso e, ripensando alle sue parole, mi rendo conto di non avergli posto la domanda più importante. “Per me la musica è prima di tutto consapevolezza, devo capire quello che faccio e soprattutto essere sempre conscio di chi sono. Questa mia passione mi è indispensabile, non potrò mai farne a meno. La musica per me è allo stesso tempo spensieratezza e concretizzazione dei mie pensieri. La musica è libertà”

Da oggi è disponibile sul canale ufficiale di Luca Bretta anche il video “La mia cameretta” [vedi].

“Italiani veri”, in un film la passione dei russi per la nostra musica

Vincitore del premio del pubblico al Biografilm Festival di Bologna nel 2013 (che, quest’anno, si terrà dal 5 al 15 giugno, vedi), “Italiani veri – lo straordinario successo della musica italiana in Russia” è un documentario sul successo della canzone italiana in Russia e negli altri Paesi dell’ex Urss negli ultimi ’50 anni.
La pellicola, di Marco Raffaini (classe 1967, parmense che vive a Bologna), Giuni Ligabue (classe 1980, modenese) e Marco Bello (classe 1983, fiorentino), ripercorre la passione dei russi per la musica italiana, che con interesse, simpatia, affetto, rispetto e, perché no, dedizione, la seguono da sempre.

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Il documentario è stato premiato al Biografilm festival di Bologna nel 2013.

I russi cantano italiano, lo amano profondamente e il film ripercorre, con intelligenza, le tappe di questo successo, cercando di spiegarne le ragioni profonde e rintracciandone le radici nell’immenso favore che la cultura italiana gode presso la popolazione russa, fin da quando, nell’Ottocento, gli artisti russi, pittori e scrittori, raccontarono l’Italia, e, più tardi, quando in Unione sovietica si diffusero i film del Neorealismo italiano. Per chi, come me, vive a Mosca, non si può fare a meno di notare questa passione del popolo russo per tutto quanto è italiano in generale e per la musica in particolare. Italiano è sinonimo di eleganza, gusto, saper vivere, delicatezza, bellezza e soprattutto di cultura. Anche se qui la cultura si respira, la nostra è particolarmente amata e sentita. Non si può evitare di ricordare Dostoevskij che osservava come «per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo; l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano di essere i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e le presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale». Questo è ancora sentito, in Russia, oggi. E la musica fa parte di quell’arte universale. Una forza, la nostra.
Sullo schermo scorrono le interviste di tanti russi qualunque di oggi, incontrati a San Pietroburgo, come Andrej Groschokiv e Tat’jana Bulanova, che parlano allo spettatore incuriosito, di Robertino Loreti, il bambino prodigio, il cantante delle stelle, che negli anni ’60 aveva conquistato l’Unione sovietica, fino a vendervi oltre 50 milioni di dischi.

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Robertino Loreti

La sua popolarità era talmente grande che Valentina Tereshkova, la prima donna cosmonauta, chiese di poter ascoltare le sue canzoni a bordo della navicella spaziale. La piccola voce bianca delle parole di “Giamaica” e dell’”Ave Maria” incanta tutto il Paese. Ancora oggi Robertino riempie gli stadi in ogni angolo della Russia, un deputato della Duma (Sergej Apatenko) ambisce a duettare con lui, e lo fa. I fan di allora sono quelli di oggi, la passione viene tramandata a figli e nipoti. Tutto continua.

Scorrono le interviste dei testimoni dell’epoca, al simpaticissimo Mikhail, che ricorda come all’inizio confondesse la canzone “Giamaica” di Robertino con “Ma’jka” (maglietta) o con diminutivi di nomi femminili (“Majka, Mishka, Sashka, Alioshka”), o ad Aleksandr, che ricorda la maglietta strappata di Celentano (e lui e i suoi amici avrebbero tanto voluto imitarlo, la erano poveri e strappare una maglia era troppo costoso per loro…).

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Incontro con Albano

Ci sono poi gli incontri con gli artisti italiani maggiormente amati in Unione Sovietica prima e in Russia poi, come Robertino Loreti, Pupo, Al Bano, Toto Cutugno. Si racconta e si spiega, dal punto di vista sovietico, questo enorme successo, fin dagli albori. Le canzoni italiane di musica leggera non veicolavano messaggi politici, sociali o di proteste e potevano, quindi, essere ascoltate senza censure, a differenza di quanto avveniva con i maggiori gruppi rock inglesi e americani, come Rolling Stones o Beatles.

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Incontro con Cutugno

Come ricorda Mikhail, la musica italiana parlava di vita leggera, di amare le donne, il vino, la semplicità di ogni giorno, insomma di godersi la “dolce vita”, non imponeva alle persone di pensare. Mancava il tema del lavoro ma era una musica da giorno di festa. Non veniva zittita (con silenziatori speciali che intervenivano sulle frequenze, come avveniva per la musica del mondo anglosassone), anzi era proposta.

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Gina Lollobrigida
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Le automibili Lada-Vaz

Film e attrici italiane, come Gina Lollobrigida, erano acclamati e amati. Famose sono le immagini di una bella Lollobrigida che incontra e bacia l’idolo dei tempi, Yuri Gagarin. Nel 1964, è il periodo anche della Lada. La Lada-Vaz, infatti, nacque per decisione del Governo sovietico, che deliberò, in quell’anno, la costruzione di un colossale impianto per la produzione di automobili “popolari” da ubicare a Togliatti (città nota in Italia con il nome di Togliattigrad, nei pressi del fiume Volga, fondata nel 1737 col nome di Stavropol’-na-Volge, e che, il 28 agosto 1964, assunse la denominazione attuale, in onore di Palmiro Togliatti, il segretario del Partito Comunista Italiano scomparso una settimana prima). La costruzione degli stabilimenti, nel 1966, fu affidata alla Fiat. Il nuovo impianto produttivo (270km di linea di montaggio e capacità produttiva di quasi 1 milione di automobili all’anno) fu inaugurato ufficialmente nel 1970 alla presenza del Ministro dei trasporti sovietico Tasarov. L’Italia era anche trasporto e movimento.

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Negli anni Ottanta, la televisione sovietica inizia a trasmettere, ogni anno, la serata finale del Festival di Sanremo, vera e propria finestra e valvola di sfogo sul “libero” Occidente. Questo fa sì che la fama dei cantanti italiani più rappresentativi (Toto Cutugno, Adriano Celentano, Al Bano e Romina Power, Pupo, Ricchi e Poveri, Riccardo Fogli) raggiunga ogni angolo di un paese immenso e sconfinato. E fortemente curioso. Interessante il passaggio sui “cutugnisti” (come Olga Zaitseva, Olga Rybakova, Artemij Pominov e Paven Fuks), un gruppo di fan che, con le canzoni, imparavano l’italiano pur coscienti che la possibilità di recarsi in Italia era per l’epoca quasi impossibile.

italiani-veriGli “intellettuali” si avvicinavano, invece, a Paolo Conte, Branduardi o, soprattutto, a Fabrizio de André, considerato il Visotsky italiano (da Marina Kadzheva). In particolare, sono interessanti le testimonianze dei fans che raccoglievano interi quaderni scritti a mano con le foto e gli articoli dei propri beniamini. I diari contenevano interviste ricopiate a mano, ritagli di foto e di articoli di giornale, spesso con la lametta, dall’Unità.

italiani-veriVi sono anche interviste a cantanti russi e russe che hanno collaborato con Toto Cutugno o Albano (Tat’jana Bulanova, Svetlana Svetikova, Diana Gurtskaja), a esponenti della creativa scena underground pietroburghese (Oleg Garkusha degli Auktsyon, Nikolaj Gusev del gruppo “Strannye Igry”), a critici musicali, giornalisti, professori universitari. Tutto ben documentato. Manca solo l’irraggiungibile, Adriano Celentano, il mito, il fenomeno unico, viveur, al quale Mikhail augura ogni bene.
Lo stesso Mikhail che conclude con una vena nostalgica, perché cose e generazioni sono cambiate, il comunismo è andato ed è arrivato non si sa bene cosa, perché nulla può ripetersi e non si ritorna mai nei dove si è stati felici.

Grazie a Marco Raffaini per avermi dato la possibilità di visionare il film.

Per sapere dove vedere il film, consulta la pagina di Facebook  [vedi].
Per saperne di più sul documentario clicca qui [vedi].

Marco Raffaini
Nato a Parma nel 1967, vive a Bologna. Professore di lingua e traduzione russa all’Università di Parma, traduttore, scrittore, è alla prima esperienza cinematografica. Nel 2012 ha scritto “Eto sluchilos’ so mnoj” (Ѐ capitato proprio a me), romanzo biografia di Robertino Loreti, in via di pubblicazione in Russia. Nel 2003, ha pubblicato il romanzo “Storia della Russia e dell’Italia”, con Paolo Nori (ed. Fernandel) e molti suoi racconti sono stati pubblicati su varie riviste e antologie. Ha tradotto dal russo i romanzi “Manuale di disegno” di Maksim Kantor per Feltrinelli e “Maksim e Fjodor” di Vladimir Shinkarjov per Einaudi. Frequenta abitualmente la Russia per passione.

Giuni Ligabue
Nato a Modena, nel 1980, è autore e regista. Si avvicina al mondo del cinema nel 2003 e da allora ha realizzato e partecipato alla realizzazione di vari progetti (videoclip musicali, cortometraggi, lungometraggi, spot e documentari). Si dedica per passione alla realizzazione di progetti di cinema popolare nelle realtà degli spazi occupati e autogestiti. Collabora con diverse realtà indipendenti principalmente tra Bologna e Roma, ed è attualmente impegnato nella realizzazione di altri importanti progetti.

Marco Mello
Nato a Firenze nel 1983, fin da giovane sperimenta il linguaggio fotografico sia nella pratica del reportage amatoriale, che nello sviluppo della pellicola in camera oscura. Iscritto al Dams nel 2002 si avvicina al mezzo audio video, e, a Bologna, comincia a sperimentare la ricerca del linguaggio fotografico nel cinema. Collabora con varie realtà locali e nazionali come direttore della fotografia.

IMMAGINARIO
Treninfiore.
La foto di oggi…

Fiori sui binari. Una piantina gialla e randagia ha messo le radici lì, tra i treni in corsa e la quotidianità della ferrovia. Vita anarchica attaccata alla terra dura e sassosa, che rallegra e lascia un po’ sbalorditi i pendolari così come i viaggiatori casuali che arrivano a Ferrara, stazione di Ferrara. “E’ una pianta di colza – spiega l’esperta giardiniera Giovanna Mattioli – ce ne sono campi interi ovunque. In campagna disegnano immensi tappeti gialli ma, siccome hanno semi molto vagabondi e intraprendenti, colonizzano ogni fessura”. L’ha colta con il suo obiettivo Stefano Pavani sullo sfondo di un convoglio tricolore. Treninfiore per Trenitalia. (gio.m)

OGGI – IMMAGINARIO FOTOGRAFIA

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Treno in fiore (foto di Stefano Pavani)

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic sulla foto per ingrandirla]

ACCORDI
Bud Spencer e il blues
Il brano di oggi…

bsbeOgni giorno un brano intonato a ciò che la giornata prospetta.

[per ascoltarlo cliccare sul titolo]

Bud Spencer Blues Explosion – Fanno meglio

Si mettano insieme l’energia di Bud Spencer e la potenza del blues, ed ecco creato un duo tutto italiano: i Bud Spencer Blues Explosion, ovvero Adriano Viterbini (voce e chitarra) e Cesare Petulicchio (batteria). Attivi dal 2007, i due artisti romani incarnano un rock denso, dai suoni profondi esattamente come i testi proposti. Fanno meglio è un brano estratto dal loro album di debutto, il quale prende il nome dalla stessa band.

GERMOGLI
Gli italiani.
L’aforisma di oggi…

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

AltanMancano 15 giorni ad Expo Milano 2015 e si moltiplica il vociferare sulla riuscita. I ritardi sono ormai dichiarati. E non manca chi dice che l’italianità si conferma ancora una volta.

“L’italiano è un popolo straordinario. Mi piacerebbe tanto che fosse un popolo normale”. (Altan)

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