Skip to main content

Chi è responsabile della guerra a Gaza?

Secondo Save The Children, l’organizzazione internazionale che si occupa di tutela dell’infanzia, dall’inizio del conflitto a Gaza (7/10/23), in media più di dieci bambini al giorno, hanno perso un arto. Inoltre, a causa della paralisi del sistema sanitario causata dal conflitto, molte delle operazioni sono state eseguite senza alcuna anestesia.

Dai dati del Ministero della Sanità di Gaza, nei tre mesi trascorsi dal sette ottobre, circa 22.000 palestinesi sono stati uccisi e altri 57.000 feriti, con bambini mutilati e uccisi a un ritmo devastante e intere famiglie massacrate ogni giorno. A più di 1.000 bambini e bambine sono state amputate una o entrambe le gambe, senza l’anestesia.

Ciò è dovuto alla paralisi del sistema sanitario causata dal conflitto e della grave carenza di medici, infermieri e forniture mediche come anestetici e antibiotici. Il sistema sanitario di Gaza è al collasso: solo 13 dei 36 ospedali rimangono parzialmente funzionanti, ma operano in modo limitato e instabile a seconda della possibilità di accesso al carburante e alle forniture mediche di base. I nove ospedali parzialmente funzionanti nel sud stanno operando al triplo della loro capacità. Inoltre, secondo l’OMS, solo il 30% dei medici di Gaza, in servizio prima del conflitto, lavora ancora.

Si fa fatica a commentare una situazione di questo tipo, indigna e annienta, per l’orrore, per l’impotenza, per il fallimento di tutti i trattati sull’infanzia e di tutte le azioni di salvaguardia dei bambini miseramente fallite. Credo che nessun essere ragionevole, dotato di un minimo di cuore e di misericordia umana, possa trovare una giustificazione ad un orrore di questo tipo, men che meno adducendo giustificazioni politiche, economiche, storiche, antropologiche, sociali.

Mi fa orrore, tra tutti gli orrori, l’amputazione degli arti dei bambini. Già l’amputazione è un trauma indicibile, senza anestesia rischia di far impazzire una persona e di togliergli qualsiasi possibilità di una vita normale. Questo sta succedendo e, in quanto dramma universale, è un dramma di tutti, di ciascuno di noi, delle nostre famiglie e dei nostri bambini.

A mio nipote viene da piangere a sentir parlare dei bambini di Gaza, evita l’argomento perché il suo sistema emotivo non è in grado di reggerlo. Spero non sia sufficiente per fargli odiare tutti gli esseri adulti esistenti sulla terra. Mi ha già chiesto più volte perché nessuno fa niente per quei poveri bambini e io faccio fatica a rispondergli. Gli ho già detto più volte che sono tutti impotenti, che nessun organismo internazionale riesce a fare qualcosa e, in questa affermazione, trovo una tristezza adulta che mi addolora.

L’amputazione è un trauma violento e può verificarsi in maniera netta (per esempio un taglio) o in seguito a strappamento. Nel primo caso i margini sono più riconoscibili, mentre nel secondo i tessuti appaiono più lacerati e la sutura di ciò che resta più delicata. Le amputazioni si diffusero massicciamente durante la guerra civile americana (12 aprile 1861 al 23 giugno 1865) e la rimozione di un arto era la procedura chirurgica più comune negli ospedali da campo.

Circa 60.000 interventi chirurgici, tre quarti di tutte le operazioni eseguite durante la guerra civile, furono amputazioni. Anche se apparentemente drastica, l’operazione aveva lo scopo di prevenire complicazioni mortali come la cancrena. A volte eseguita senza anestesia, e in alcuni casi lasciando il paziente con sensazioni dolorose nei nervi recisi.

La maggior parte dei chirurghi della Guerra Civile erano ben addestrati, e i libri di medicina dell’epoca descrivono con precisione come e quando le amputazioni potevano essere eseguite e quando era appropriato. In molti casi, l’unico modo per cercare di salvare la vita di un soldato ferito era appunto amputare un arto frantumato. Quei medici hanno dovuto ricorrere ad una misura così drastica perché un nuovo tipo di proiettile è stato diffuso proprio in quella guerra.

Nel 1840 un ufficiale dell’esercito francese, Claude-Etienne Minié, inventò un nuovo proiettile. Si differenziava dalla tradizionale palla rotonda a moschetto, perché aveva una forma conica. Quel proiettile, che all’epoca della guerra civile era comunemente chiamato la palla Minié, era estremamente distruttivo. La versione comunemente usata durante la Guerra Civile era fusa in piombo ed era del calibro 58, che era più grande della maggior parte dei proiettili usati oggi.

Quando la palla Minié colpiva un corpo umano, faceva disastri. I medici che curavano i soldati feriti erano spesso perplessi di fronte ai danni causati. Un libro di testo medico pubblicato un decennio dopo la guerra civile A System of Surgery di William Tod Helmuth descrive in modo molto dettagliato gli effetti delle palline Minié. Un orrore assoluto, sembra di leggere la storia della fine del genere umano.

Il poeta Walt Whitman, che aveva lavorato come giornalista a New York City, viaggiò dalla sua casa di Brooklyn al fronte di battaglia in Virginia nel dicembre 1862, dopo la battaglia di Fredericksburg. Rimase scioccato da uno spettacolo raccapricciante e così scrisse nel suo diario:

“Trascorsa buona parte della giornata in una grande casa di mattoni sulle rive del Rappahannock, usata come ospedale dopo la battaglia – sembra aver ricevuto solo i casi peggiori. All’esterno, ai piedi di un albero, noto un mucchio di piedi amputati, gambe, braccia, mani e così via, un carico completo per un carro a un cavallo”.

Comincia così la storia moderna sulle amputazioni in guerra e così prosegue, un orrore dopo l’altro, una guerra dopo l’altra, fino ad arrivare ai giorni nostri. Adesso tutto questo fa ancora più impressione e il dramma si amplifica ancora di più, perché senza arti restano dei bambini inermi e innocenti, senza alcuna colpa se non quella di essere nati in quel tempo, in quel luogo maledetto. La storia prosegue il suo cammino, ma l’orrore che porta con sé la guerra è sempre spaventoso. La guerra porta odio. Dove c’è odio viene distrutta la vita. Lo vediamo quotidianamente, purtroppo.

Mi fanno un po’ impressione quei tentativi un po’ maldestri, fatti da persone influenti, a cui resta un minimo di cuore, di portare via da Gaza bambini orfani. Portarne via 10, 50, 100 per placare la nostra coscienza, per provare a trovare una consolazione, prima personale e poi mediatica, a ciò che è già successo.

Come se il desiderio di maternità e paternità che alberga in molti esseri umani adulti potesse riversarsi su quei pochissimi bambini salvati dal massacro (salvati?) e questo potesse essere una risposta adeguata al dramma. La risposta adeguata non c’è stata. Nessuno l’ha trovata, credo che in questo ci siano enormi responsabilità collettive che però non svincolano il singolo, anzi lo inchiodano davanti alla sua identità e al senso della sua vita.

Secondo Hannah Arendt, la causa principale della responsabilità collettiva è politica e non riguarda le norme giuridiche e morali, che sono accomunate invece dal riferirsi sempre alla persona e a ciò che la persona ha fatto. La responsabilità collettiva riguarda quelle azioni di più persone che i soggetti hanno compiuto “come gruppo”, e che, come individui isolati, non avrebbero potuto realizzare. Parlare di una responsabilità collettiva implica un pericolo, che è quello di sottostimare o addirittura eliminare la responsabilità individuale.

Hannah Arendt, ad esempio, afferma che il grido “siamo tutti colpevoli” pronunciato dai tedeschi riguardo ai crimini nazisti ebbe come conseguenza quella di discolpare coloro che invece erano colpevoli, perché “quando tutti sono colpevoli, nessuno lo è”.

Riflettendo su tutto questo, e tornando a ciò che sta succedendo a Gaza, mi sembra che le responsabilità siano strumentalmente tutte collettive, come se ci volessimo dimenticare che spesso i drammi dipendono da catene di errori compiuti da individui, che ricoprivano in quel momento ruoli politici rilevanti.

Agganciati ai singoli anelli della catena di errori si possono trovare singole responsabilità decisive, che avrebbero anche potuto determinare conseguenze diverse. Penso ad esempio ai capi di Stato. Non è vero che i capi di Stato hanno le stesse responsabilità che ho io e non è vero che la loro possibilità di azione e di intervento è come la mia. Altrimenti non avrebbe senso alcun processo di delega, di cui la politica necessita per esistere.

Questo non toglie che ciascuno nel suo piccolo abbia delle responsabilità, ma rimarca come ognuno di noi ha delle responsabilità dirette come singolo, delle responsabilità di delega (politiche) e delle responsabilità collettive in quanto appartenenti a un gruppo. Io non voglio la guerra! Non voglio nessuna guerra! Se lo dice un capo di Stato, o più capi di Stato è lo stesso che lo dica io? Ovviamente no.

Per leggere gli altri articoli di Catina Balotta su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

tag:

Catina Balotta

Sociologa e valutatrice indipendente. Si occupa di politiche di welfare con una particolare attenzione al tema delle Pari Opportunità. Ha lavorato per alcuni dei più importanti enti pubblici italiani.

Comments (4)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it