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di Emiliano Trovati

Buon compleanno America. Ma all’alba del terzo millennio il prestigio del Nuovo Mondo sembra essere in declino. Nella ricorrenza del 4 luglio gli Stati Uniti d’America festeggiano la propria dichiarazione d’indipendenza dall’impero coloniale inglese. Quell’evento ha scatenato, non solo nei rapporti tra corona e colonia, un terremoto politico internazionale.
Le idee di libertà maturate oltre oceano, alle quali anche l’Italia, grazie al contributo del medico e filosofo pisano Filippo Mazzei, aveva dato un grande contributo, permearono all’interno dell’Europa monarchica e assolutista, trovando terreno fertile fra le masse e portando ai moti rivoluzionari dai quali nacquero gli Stati nazionali moderni. Dal secondo dopoguerra in poi, l’America, grazie al suo paradigma economico, sociale e culturale – l’American way of life -, affascinerà l’immaginario collettivo del vecchio continente, e del mondo intero, arrivando a ricoprire il ruolo di Paese guida, in una posizione di preminenza rispetto ai partner internazionali. Preminenza però che sembra aver imboccato la via del declino, soprattutto dall’ultimo trentennio dello scorso millennio in poi. Responsabili di questo arretramento le forti contraddizioni sociali interne, dai problemi etnici al sistema socio sanitario, che discrimina le fasce più deboli della popolazione, l’avanzata economica di Paesi come la Cina e politica dell’Unione Europea, e dal ruolo a dir poco controverso con cui l’America gestisce la sua politica estera. Di tutto questo abbiamo parlato con la professoressa di storia ed istituzioni delle Americhe, al dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna, Raffaella Baritono.

Professoressa, oggi è il 4 luglio, ricorrenza della dichiarazione d’indipendenza americana. Più di due secoli dopo la sua nascita, cos’è l’America oggi?
Interessante l’utilizzo del termine America. Non è in realtà un errore così strano. Quando noi utilizziamo il termine America oppure Usa, in maniera più o meno consapevole, ci rapportiamo ad un diverso contesto. L’America evoca nell’immaginario, un’idea, una rappresentazione, è un insieme di miti e metafore, prodotte dallo sguardo europeo verso il nuovo continente. Stiamo parlando di un processo secolare avviatosi dopo la sua scoperta, che produsse un terremoto nelle coordinate mentali degli europei e quindi la necessità di dare un senso, di inserire questa cosa, di cui nessuno aveva il sentore, dentro la cultura, il modo di pensare, le coordinate geografiche e lo spazio europei. L’America prima di tutto è una proiezione, un immaginario europeo.
Quando dalla rivoluzione delle 13 colonie si produsse un nuovo Stato, gli Usa cominciarono a costruire una rappresentazione dell’America in antitesi col vecchio mondo: “Noi siamo ciò che non è l’Europa”. Si è creato così uno Stato ben preciso, con una storia significativa, costruita proiettando l’idea di essere differenti e faro della libertà, rispetto alla tirannia, all’autoritarismo o all’intolleranza del vecchio continente. Questa idea, poi, s’è caricata di valori universali e propagata man mano che gli Stati Uniti, da realtà marginale, divenivano potenza mondiale.

E allora, cosa sono gli Stati Uniti d’America oggi?
Senza dubbio sono una potenza mondiale. Una potenza di tipo globale, con interessi geopolitici non solo nel contesto Atlantico – com’è stato per il periodo della guerra fredda -, ma soprattutto nel Pacifico, dove si concentra la loro strategia di politica internazionale.
Sono ancora un Paese in grado di proiettare una visione dinamica, perché demograficamente in crescita, e mobile, se guardiamo ad esempio alle dinamiche generazionali, etniche e razziali.
Un Paese sempre meno bianco, ma fatto di minoranze che diventano piano piano maggioranza: cosa questa che costituisce un elemento significativo, soprattutto se guardiamo alle dinamiche politiche. La presidenza di Obama, infatti, non si spiega soltanto dalla sua capacità innovativa, che indubbiamente ha avuto, o dalla sua strategia, che ha saputo intercettare volontà di cambiamento radicate nella popolazione, ma si inserisce dentro questa modifica significativa della popolazione americana in termini etnico-razziali. Anche per questo l’America è un Paese sempre meno europeo e sempre più globale.

Obama a gennaio nel suo whish list ha parlato di America come di opportunity per l’Europa e per il mondo. È ancora così?
Per certi versi sì e per altri no. L’economia e la società americana sono ancora un modello aperto, è una terra d’immigrazione, nonostante i suoi problemi con l’America latina e le paure o le ansie dei conservatori. Il modello economico e sociale americano sta diventando troppo diseguale e la politica di Obama non è stata in grado di risolvere, a causa di una forte contrapposizione e polarizzazione ideologica, e politica che sta rendendo il sistema americano un sistema immobile. Lo vediamo ad esempio in merito alle battaglie sulla sanità, lavoro o alle scelte sull’ambiente.

Prima ha detto che l’America è nata sull’idea “noi siamo ciò che non è l’Europa”. Vuol dire che c’è una cesura tra i due continenti oltre quella geografica?
I due continenti hanno vissuto di relazioni molto strette ma anche molto conflittuali. Durante la guerra fredda i rapporti tra i Paesi europei e gli Stati Uniti sono stati raramente rapporti pacifici, anche se naturalmente alcuni conflitti di fondo venivano sopiti. I paesi europei hanno sempre avuto bisogno dell’ombrello di sicurezza americano, ma allo stesso tempo perseguivano interessi nazionali che spesso entravano in conflitto con quelli americani.
L’Unione Europea oggi è potenzialmente un competitor economico degli Stati Uniti, ovviamente non militare. Anche la sua configurazione politica è competitiva, per non parlare dell’Euro, che continua ad essere una moneta molto forte.
Si è molto parlato, negli anni passati, soprattutto da quando è più forte il conflitto tra Stati Uniti ed Europa – vale a dire dopo l’11 settembre e la decisione americana di intervenire in Iraq – di un presunto modello sociale europeo da contrapporre a quello sociale americano. Questo è un tema molto dibattuto: il modello di welfare europeo, ad esempio, è molto più inclusivo ed apparentemente più democratico e capace di generare sicurezza e tutele, rispetto a quello americano.
Negli ultimi anni le politiche portate avanti da Obama, mettono in evidenza come negli Stati Uniti temi come la giustizia sociale o le disuguaglianze siano un elemento chiave nel dibattito politico.

Per modello sociale americano cosa intende?
Il Novecento viene definito il secolo americano, proprio per la grande capacità degli Stati Uniti di modellare gli stili di vita e l’immaginario collettivo. Basta pensare al cinema, alla musica, all’arte, ai prodotti del consumo di massa e alla loro commercializzazione. Pensiamo ad esempio ai Walmart e ai centri commerciali.
L’America ha creato una struttura in grado di essere esportata e ha costituito un modello di riferimento. Va capito, però, come questo modello non sia mai stato biunivoco: gli Stati Uniti propongono e gli altri recepiscono passivamente, come il termine “americanizzazione” lascia intendere. Questo processo è sempre stato una elaborazione strategica: per cui venivano prese alcune questioni e rifiutate altre, o alcuni concetti e rifiutati altri, o assorbiti alcuni stili di vita o modalità culturali. Ogni scambio, comunque, veniva tradotto a seconda del contesto in cui agiva.
La grande capacità seduttiva degli Stati Uniti è stata quella di non aver proposto un unico modello egemone, dal punto di vista delle strategie culturali. Nel momento in cui veniva proposto qualcosa, ad esempio la cultura di massa, del Mall o della società dei consumi, per cui il cittadino è soddisfatto perché consumatore; allo stesso tempo lavorava su più piani, ad esempio negli anni cinquanta, dentro le strategie di diplomazia culturale americana, proprio perché ci si rendeva conto delle contraddizioni sociali – in primis il razzismo -, che avrebbero potuto metterne in discussione la capacità seduttiva, venivano organizzati concerti e i tour dei grandi jazzisti neri in Europa e in Africa. E il tutto all’interno delle strategie di guerra fredda. In modo da poter dire, anche questa è l’America. Il Jazz noi lo consideriamo espressione dei valori americani e della sua cultura.
Questo fu un progetto interessante portato avanti da Eisenhower, un presidente moderato e conservatore. Quindi l’America non è soltanto la proiezione egemonica della super potenza, ma anche altro.

Da quando questo processo ha iniziato a scricchiolare?
La capacità seduttiva del modello americano, come dicevo, s’interrompe con la guerra in Iraq. Da quel momento in poi l’America non è più stata un riferimento, soprattutto per le nuove generazioni. Negli anni sessanta i giovani guardavano ai suoi campus universitari, al movimento femminista, a quello del Black Power. Tutto questo ha risvegliato immaginari sia in Europa che nel terzo mondo: pensiamo ad esempio alla considerazione che molti leader dei movimenti anti-coloniali dei Paesi africani o asiatici avevano della dichiarazione d’indipendenza americana.
Con l’Iraq questa situazione cambia, quel modello solido, quasi incontaminato, viene meno e l’America non è stata più capace di offrire alternative. Ricordo qualche anno fa un sondaggio, fatto da un network di ricerca europea, che dimostrava come nelle generazioni giovani europee, anche dal punto di vista delle condizioni materiali di vita, gli Stati Uniti non costituiscono più un modello di riferimento. Gli Usa non sono più il modello preminente, ancorché continuino ad offrire un modello a cui guardare.

La visione che si ha dell’America però è quella di una potenza imperialista?
Si parla molto di America e sembra che sia dappertutto, accendiamo la radio, leggiamo i giornali, guardiamo un film o la televisione. Ma in realtà, soprattutto in Italia, noi conosciamo pochissimo di America. Non sappiamo quasi niente di storia americana. Le opinioni si basano molto più sui pregiudizi che sulla conoscenza vera e propria. Sono pochissimi i corsi di storia americana nelle università italiane e sono pochissimi i docenti di storia o di politica americana. Esempio, ci si può laureare in un corso di storia contemporanea e non sapere niente di Stati uniti d’America. Eppure se ne parla tanto. Tutto è basato su pregiudizi, sul sentito dire o su stereotipi, anziché sulla realtà.

Qual è il più grosso stereotipo che sente in giro?
Innanzitutto la visione onnipotente dell’America. Quando parliamo di Stati Uniti ci interessiamo quasi esclusivamente alla politica estera, sapendo pochissimo di quella interna. Non sappiamo com’è organizzato il loro sistema politico, facciamo difficoltà addirittura a distinguere il partito repubblicano da quello democratico. Non sappiamo che la loro è una cultura politica molto mobile, rispondente ai cambiamenti e alle trasformazioni sociali.
Parliamo di politica estera convinti che se ne occupi il presidente, senza conoscere le dinamiche che ci sono dietro e le complesse strategie di negoziazione. Quando parliamo di governo, non riflettiamo sul fatto che non parliamo solo di Obama, ma di un complesso meccanismo che lo vede confrontarsi con il Congresso e la Corte Suprema, che ha un peso politico molto significativo: pensiamo per esempio a tutta la questione legata ai matrimoni same-sex e al ruolo avuto per le battaglie che vanno dalla segregazione all’aborto, dai diritti sociali alle libertà civili. Inoltre la visione dell’onnipotenza non considera che, molto spesso, alcune strategie di politica estera non sono molto diverse da quelle adottate da altri Paesi. Ovviamente cambia la dimensione della potenza.
Un altro stereotipo è quello dell’individualismo e del materialismo della società americana. È vero che la cultura democratica americana è incentrata sull’individuo, che interagisce con la sua comunità però. Questo intreccio – tra individuo e comunità – dà specificità al concetto di democrazia in America. Non a caso dopo l’11 settembre, uno dei libri che fece più eco anche in Italia, scritto da uno scienziato politico, Robert Patman, che aveva studiato anche la mancanza di società civile in Italia, intitolato Bowling alone (al bowling da solo), mette in luce come l’americano, da Tocqueville in avanti, è sempre stato dentro una moltitudine di associazioni, gruppi civici, dall’università alla scuola, alle comunità di vicinato. Questo è un elemento molto significativo della partecipazione politica. Le associazioni sono state il luogo di costruzione di forme partecipative, molto più che il partito politico. L’individualismo, quindi, deve essere interpretato come un soggetto capace di autogovernarsi e di autodeterminarsi nel suo rapporto con lo Stato.

Quindi, mi sembra di capire che il ruolo di paese leader l’America è uno stereotipo?
Questo ruolo ce l’ha avuto. È tuttora un Paese leader, ma è una leadership sempre più soggetta a processi di negoziazione e meno di accettazione acritica rispetto al passato. Una leadership che deve fare i conti con un mondo che sta cambiando, con altre potenze in grado di sfidarli, soprattutto nelle strategie di carattere economico. Pensiamo alla Cina e ai Bric. C’è un enorme dibattito sul declino e fine del secolo americano: se siamo o meno in transizione verso il secolo cinese. Coloro che non ci credono, a mio avviso a ragione, ritengono che la Cina sia sì un Paese superiore economicamente all’America, ma senza un modello socio politico in grado di costruire un’egemonia culturale. È stato proprio il modello, non solo economico, ma politico e culturale americano ad aver caratterizzato il suo primato e la sua capacità di penetrare società e suscitare desideri, aspettative e bisogni.

L’avanzata di questi Paesi può portare a uno scontro culturale?
Nel Pacifico si sta già combattendo uno scontro di carattere geopolitico interessante tra Stati Uniti e Cina. Gli Usa sono presenti nella regione, non soltanto perché la Cina è il rivale più importante e perché buona parte del suo debito pubblico è in mano cinese – cosa che determina interdipendenza tra le due potenze -, ma anche perché vengono chiamati dagli altri Stati del contesto asiatico che vedono negli Usa l’unico argine ad una avanzata egemonica della Cina. Come dicevo, comunque, l’interdipendenza tra i due Paesi rende i rapporti molto più dinamici e flessibili di quanto fossero quelli tra Usa e Urss. Non si ripresenterà oggi un contesto da guerra fredda.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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