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  • Aperta a Milano la mostra “Amazonia”, la più grande mai allestita in Italia.
    L’abbiamo visitata senza pubblico, in compagnia di Sebastião e Lélia Salgado.

“L’ Amazzonia la si deve sentire dentro” queste le parole di Lélia e Sebastiao Salgado alla conferenza stampa per l’inaugurazione della mostra Amazonia che si tiene alla Fabbrica del Vapore a Milano dal 12 maggio al 19 novembre 2023 presso la Fabbrica del Vapore. Si tratta della esposizione di 200 opere del grande fotografo brasiliano, la più ampia mai allestita in Italia. 

Avevamo incontrato e dialogato con  Sebastião Salgado e Lélia Wanik Salgado ai primi di marzo nella conferenza stampa di presentazione della mostra [vedi il mio articolo su Periscopio], ora abbiamo avuto il privilegio di visitare  “Amazonia” appena prima dell’apertura, senza pubblico, insieme a Leila e Sebastião, per un un ultimo controllo dell’allestimento.

L’incipit della mostra  “Amazonia” – ph. Anna Pitscheider

Varcando la soglia della mostra si ha la sensazione di entrare nel ventre primigenio del nostro pianeta,  e si capisce come quel “sentire dentro”  fa riferimento a tutti i nostri sensi, non solo quelli visivi, ma quelli uditivi, olfattivi, tattili, gustativi; quei sensi biologici che si formano nell’utero e che legano il corpo umano alla sua dimensione spirituale e alla dimensione spirituale del nostro pianeta.
Si, perché c’è un dialogo continuo tra le nostre cellule  e l’ambiente circostante che informa il cervello e il cuore, esattamente come la cellula uomo/donna dialoga costantemente con la natura che lo circonda e con l’universo. Siamo interconnessi e lo sappiamo. Ma perché tutto ciò diventi consapevolezza c’è bisogno del Tempo, il tempo dell’attesa, che noi occidentali spesso consideriamo un tempo inutile, inefficiente, sprecato. Uno dei meriti di questa mostra è anche rimettere al centro questa dimensione del tempo.   

Lélia Wanik, curatrice de0la mostra e del catalogo, durante la nostra visita – ph. Anna Pitscheider

Le 200 foto che Lélia ha accuratamente scelto per la mostra sono il frutto di un lavoro sul campo lungo (7 anni) e appassionato del fotografo ed esploratore Salgado. E in questi 7 anni, 58 lunghi viaggi che lui stesso definisce come “una traversata transatlantica”, per il senso di vastità e dell’ignoto che si deve abbracciare. 

“Bisogna saperci stare in questa dimensione del tempo, si apprende solo con l’esperienza e la determinazione a portare a termine una missione. Le donne la conoscono bene! “, Sebastião Salgado lo racconta grazie ad una domanda acuta della mia compagna di visita, la fotografa Anna Pitscheider, sulle difficoltà tecniche a lavorare in Amazzonia.

Per fotografare ha sorvolato la foresta con l’elicottero dell’esercito brasiliano, da lì ha potuto documentare non solo la vastità ma anche la varietà del paesaggio amazzonico che si snoda anche sul massiccio più alto del Brasile. “Erroneamente  pensiamo spesso alla foresta amazzonica come piatta su cui si snodano grandi e lunghissimi fiumi” ha puntualizzato lo stesso Salgado, che rivendica nuove scoperte scientifiche,  grazie al suo lavoro.

Una volta è salito su una barca e per 38 giorni non ha mai messo piede sulla terra ferma. “Quando si fa un lavoro del genere – piega Salgado – che richiede anni di vita, ci vuole un concetto creativo, non si può semplicemente andare in Amazzonia così per andarci, e dunque abbiamo fatto una scelta precisa: non troverete  foto  degli incendi, delle fattorie, di quello che di brutto succede in Amazonia. Abbiamo voluto proprio che ci fosse la purezza di quella che l’Amazzonia è sempre stata, perché li vive il concetto culturale più importante del mondo: 200 tribù che parlano 186 lingue  diverse che convivono in modo che non esiterei a definire assai raffinato!”  

Quando poi andava nelle comunità indigene, vi si recava sapendo quando partiva ma non quando sarebbe ritornato. Portava con se un grande studio fotografico portatile, 6 metri di larghezza e 9 di lunghezza , srotolabile a seconda delle condizioni meteo.

La sfida fotografica del ritratto o dei ritratti di gruppo è quella di sapere dare al soggetto l’ importanza che merita, è la costruzione di una sincera relazione tra chi fotografa e chi si fa riprendere e le relazioni hanno bisogno di cura e di conoscenza reciproca. “Quando si ha a che fare con una comunità indigena bisogna aspettare che siano loro  a volere venire a farsi fotografare e quindi c’erano giorni in cui non veniva nessuno e giorni in cui arrivavano a decine” racconta Salgado.

Lo sfondo scuro su cui si stagliano volti decorati e interi gruppi di indigeni  (fino a 30 40 persone) è stata una scelta precisa. Gli indigeni sono fieramente decorati e magnificamente tatuati  in tutto il corpo, un decorazione che parla della loro anima, che collega anima a corpo e natura e all’universo, e “se ritratti nel mezzo della foresta sono talmente ben camuffati da rendere molto difficile dissociarli dall’ambiente circostante, e invece se fotografati con uno sfondo neutro si mostra tutta la loro potenza, tutta l’importanza della loro cultura che ovviamente si portano dietro nel loro corpo”  continua Salgado.  

foto da non usare
Gruppo di indigeni – © Sebastião SALGADO

C’è bisogno dunque dell’attesa rispettosa. Un tempo che noi donne conosciamo bene, i 9 mesi di gravidanza. Quello stesso tempo che ci richiede “la natura quando fa il suo corso e trasporta l’immensa produzione di umidità della foresta amazzonica  (ulteriore scoperta scientifica fatta durante questo lavoro fotografico) fin qui da voi in Italia”, continua Salgado. Infatti la foresta amazzonica è l’unico luogo al mondo in cui il sistema di umidità dell’aria non dipende dall’evaporazione degli oceani. Ogni albero disperde centinaia di litri d’acqua al giorno, creando fiumi aerei anche più grandi del Rio delle Amazzoni.

Noi visitatori abbiamo dunque il privilegio di assaporare il tempo lungo della scoperta, condensato nell’essenziale grazie alla sapiente curatela di Lélia, compagna di  vita di Sebastião, che tesse la narrazione in una regia magistrale. Le foto in grandi dimensioni occupano lo spazio della Cattedrale di Fabbrica del Vapore, fluttuando sospese in modo da creare uno spazio immersivo, i suoni dei compositori brasiliani con le tre installazioni a forma di “ocas” (la case comuni indigene),  nelle quali si ascoltano le voci dei capi indigeni.

La grande sala di Fabbrica del Vapore, chiamata Cattedrale, dove è allestita la mostra “amazonia” –ph Anna Pitscheider

Un sapere ancestrale emerge con forza:  i suoni delle gocce della pioggia ci accarezzano la pelle, il fruscio delle foglie ci ricordano i primi passi sulla terra nuda, il canto degli uccelli –  tutte arrangiate da Jean Michel Jarre – la beatitudine della musica e  le composizioni di Heitor Villa-Lobos e Rodolfo Stroeter, i suoni primordiali dell’utero, e poi la vastità degli spazi dei cieli e delle acque, e l’altezza smisurata degli alberi ci lasciano attoniti per la loro prorompente bellezza.
Ma l’Amazzonia “si deve sentire dentro” e a Milano , per la prima volta, ci sarà anche una sezione Touch per gli ipovedenti e i non vedenti e il primo  libro fotografico Touch a ricordarci che non basta vedere con gli occhi: l’invisibile si mostra in tanti modi, basta darsi  il tempo, il tempo dell’attesa.

È un paradigma che sposta radicalmente la prospettiva occidentale da un esasperato  antropocentrismo alla relazione sacra tra esseri umani /natura /universo, tra  sacro e scienza, e di cui i popoli indigeni sono gli ultimi testimoni.
Conclude
Sebastião Salgado: “Il mio desiderio, con tutto il cuore, con tutta la mia energia, con tutta la passione che possiedo, è che tra 50 anni questa mostra non assomigli a una testimonianza di un mondo perduto. L’Amazzonia deve continuare a vivere e, avere sempre nel suo cuore, i suoi abitanti indigeni.”

AVVERTENZA
Le 2 foto di Sebastião Salgado, di cui una in copertina, sono state concesse in esclusiva a Periscopio per questo articolo, non possono essere riprodotte e stampate altrove della mostra. Anche gli altri scatti che illustrano questo testo, realizzate dalla fotografa della fotografa professionista Anna Pitscheider, sono sotto copyright.

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Roberta Trucco

Classe 1966, genovese doc (nel senso di cittadina innamorata della sua città), femminista atipica, felicemente sposata e madre di quattro figli. Laureata in lettere e filosofia con una tesi in teatro e spettacolo. Da sempre ritengo che il lavoro di cura non si limiti all’ambito domestico, ma debba investire il discorso politico sulla città. Per questo sono impegnata in un percorso di ricerca personale e d’impegno civico, in particolare sui contributi delle donne e sui diritti di cittadinanza dei bambini. Amo l’arte, il cinema, il teatro e ogni tipo di lettura. Da alcuni anni dipingo con passione, totalmente autodidatta. Credente, definita dentro la comunità una simpatica eretica, e convinta “che niente succede per caso.” Nel 2015 Ho scritto la prefazione del libro “la teologia femminista nella storia “ di Teresa Forcades.. Ho scritto la prefazione del libro “L’uomo creatore” di Angela Volpini” (2016). Ho e curato e scritto la prefazione al libro “Siamo Tutti diversi “ di Teresa Forcades. (2016). Ho scritto la prefazione del libro “Nel Ventre di un’altra” di Laura Corradi, (2017). Nel 2019 è uscito per Marlin Editore il mio primo romanzo “ Il mio nome è Maria Maddalena”. un romanzo che tratta lo spinoso tema della maternità surrogata e dell’ambiente.

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