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da: Francesco Introzzi (Cuneo)

In occasione della festività del 2 giugno ho pensato di rilanciare una mia riflessione dell’ormai lontano inizio secolo, riflessione che riguardava le forze armate le quali, allora, avrebbero dovuto convertirsi da esercito nazionale italiano in esercito federale europeo. Niente, o quasi, di tutto questo, ma qualcosa è cambiato. Scontri armati stanno investendo l’area mediterranea e si stanno avvicinando pericolosamente ai confini italiani, mentre decine di migliaia di profughi e di tanti altri candidati a diventare “nuovi europei” stanno cambiando la composizione etnica di tutti i nostri paesi.
In particolare sono le funzioni sociali del volontariato che sfuma la differenza e la distanza fisica fra volontari militari e volontari civili. Ormai anche i militari – che non sono più di leva e quindi sono tutti volontari – sono impiegati in servizi di difesa territoriale verso di popolazioni che, invece di essere soggette, come nel secolo scorso, al nostro “patetico” imperialismo, sono diventati oggetto di una nuova solidarietà umana, sanitario-alimentare ed economico-finanziario-militare.
Anche i nostri ospedali (quelli degli amici di Gino Strada, per intenderci) sono organizzati nei territori di guerra e, fra l’altro, sono nel mirino di forze aeree che dovrebbero difenderli. A questo punto, che si tratti di volontariato medico e assistenziale piuttosto che di volontariato militare, varrebbe la pena di unificare tutte le strutture – e i relativi finanziamenti – in modo da migliorare il senso politico degli interventi e i loro risultati pratici. Per questi motivi ho preferito modificare la titolazione del pezzo. F.I.
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Volontariato militare e volontariato civile:
un fronte comune e una presenza contigua
[Titolo originario: “Un modello democratico per la Difesa europea”]

Ricordiamoci del Viet-Nam: l’esercito popolare ha vinto contro la maggiore potenza mondiale e contro il più tecnologico e professionalizzato degli eserciti. In Europa abbiamo solo da seguire un esempio consolidato nei secoli: abbiamo il modello elvetico in cui i quadri professionali rappresentano solo il complemento di un popolo-soldato.
La difesa del territorio dovrebbe infatti essere fondata sulla convinzione profonda – radicata in seno ad una determinata popolazione – che senza garanzie di indipendenza e di sicurezza nessuna comunità può pensare di organizzarsi e vivere secondo le proprie esigenze, i propri interessi e le proprie idee.
Questa concezione dell’esercito come strumento di autogoverno ha una sua tradizione culturale anche in Italia ma questo tipo di cultura militare non è mai riuscita a diventare cultura di governo e, tanto meno, cultura di autogoverno. L’esercito è sempre stato visto dai politici come strumento di governo, difesa dei confini e di controllo dell’ordine pubblico. Nelle due guerre mondiali combattute dall’Italia il cittadino-soldato ha subìto l’esperienza – ricordata anche nelle canzoni alpine – di essere trattato come “carne da cannone” vittima di una pretesa di “grandeur” che sacrifica il proprio cittadino, prima ancora del soldato nemico.
La ragione e la ragionevolezza sono – insieme ai soldati – le vittime di ogni guerra: essere riusciti, in quest’ultimo dopoguerra – ad avviare un lento processo di costruzione federale dell’Europa e di elaborazione di una organizzazione politica ecumenica – di tutti i paesi della Terra – ci fa sperare che, in un prossimo futuro, si riesca ad uscire definitivamente dall’alienazione mentale insita nel credere che la guerra possa essere un valido strumento di costruzione di una pacifica convivenza sovra-nazionale. I confini vanno difesi solo per consentirci di avviare con i potenziali nemici delle trattative che non ci trovino in posizione di debolezza e di ricattabilità: ma la migliore difesa rimane il sostegno che deve essere massicciamente garantito a tutti coloro che – in prima linea – combattono all’interno dei rispettivi paesi la nostra stessa battaglia per il progresso dell’umana civilizzazione e della libertà.
E’ inutile sostenere che si deve morire per la nostra libertà e per la libertà dei nostri paesi di appartenenza, ossia “per la Patria”, se è questa stessa “Patria” a negarci la dignità e la libertà all’interno delle caserme, delle scuole, delle aziende e delle famiglie. Certo, realizzare un’organizzazione non depersonalizzante delle strutture sociali non è facile e richiede una forte (pressoché eroica) determinazione nella assunzione di compiti che richiedono di esporci ad un elevato rischio, non solo di morte, ma anche di debilitazioni fisiche che possono dimostrarsi anche peggiori della morte stessa. Eppure i volontari dell’esercito professionale questi rischi se li assumono senza la pretesa di vivere in una struttura sociale meno gerarchizzata e dai rapporti umani meno “moralmente” e “fisicamente” violenti (la guerra anzitutto ma, senza generalizzare, anche il “nonnismo” e tante altre situazioni di prepotenza, gratuita ma non indolore, possono verificarsi – in Italia come in tutti gli eserciti – e farsi sentire).
Oggi non sono più i sudditi-soldati al servizio di un governo, ma dev’essere il governo a farsi strumento di organizzazione dell’auto-difesa, militare e civile, di un determinato territorio e della popolazione in esso residente. Non più una disciplina militare, fine a se stessa, deve quindi contraddistinguere l’organizzazione del nostro esercito – una specie di spersonalizzazione degli uomini militarizzati – ma l’auto-disciplina di una comunità (l’Unione europea) consapevole dei propri problemi ma anche della propria forza e delle proprie potenzialità.
La disponibilità degli strumenti tipici dell’uso della forza ha sempre automaticamente generato, in chi quegli strumenti deve professionalmente gestire, una inevitabile tendenza ad atteggiamenti di arroganza e a sentimenti di impunità rinforzati, se non proprio fomentati, dalla presenza di una contro parte debole, dal “disarmo morale” della gente, succube di sentimenti di ricattabilità. Questi sentimenti, tipici del rapporto tra militari “armati” e civili “disarmati”, si ripropongono, con un meccanismo psicologico analogo, anche all’interno dei quadri militari – come anche di altre strutture fortemente gerarchizzate – nel rapporto tra “superiori” – che dispongono dell’arma delle “punizioni” – e “inferiori” che quelle punizioni devono subire.
Dobbiamo peraltro riscontrare nell’esercito italiano un carattere di “disciplina umanamente sensibile” che vuole anche dire l’esposizione a sbandamenti maggiori nella gestione della disciplina stessa perché un allentamento nella disciplina può comportare delle “strette” ancora meno accettabili, e quindi psicologicamente incomprensibili e rifiutate, in un clima di normale disciplina allentata, di per sé giustificabile solo di fronte a “ragazzi” dotati di una diffusa, solida e comprovata auto-disciplina. In caso contrario si rischia una generale “debolezza funzionale” che, al momento buono, è destinata a tradursi in “debolezza strutturale”.
Legato alla sensibilità umana rimane il fatto che il patrimonio più prezioso del nostro Esercito è proprio rappresentato dal rapporto positivo con la popolazione: e questo elemento si estende a tutte le Armi: Aviazione, Marina, Carabinieri e si allarga a Polizia e Vigili del fuoco; si direbbe che è il riflesso di un nostro carattere nazionale. Se da un lato il fatto che si tratti di corpi armati già ora ampiamente ed essenzialmente professionalizzati, i quali riescono a riscuotere la generale fiducia della popolazione italiana, da un altro lato non si deve trascurare la sempre possibile insorgenza di zone d’ombra, circoscritte, che trovano la loro origine in isolati, ma non per questo meno pericolosi, ambienti politici; la presenza, di norme di legge che espressamente permettono al governo nazionale italiano di sottrarsi al rigoroso rispetto delle stesse leggi dello Stato, deve mettere sul “chi va là” tutti coloro che si preoccupano della salvaguardia del regime democratico.
Il pericolo cui si espone la democrazia con l’abolizione del servizio di leva risiede nel fatto che un esercito professionale dipende, economicamente prima ancora che gerarchicamente, dal governo in carica e manca – a differenza dell’esercito di leva – di un rapporto familiare e sentimentale con la generalità della popolazione. Le storie ricorrenti dei cosiddetti “Eserciti federali” che sparano sulla popolazione che in teoria dovrebbero difendere – vedi l’Esercito “federale” dell’ex-Jugoslavia e l’Esercito “federale” russo in Cecenia – devono metterci – e tenerci permanente – all’erta.
Il sistematico impiego dei soldati di leva, insieme ai Vigili del fuoco, nelle operazioni di difesa civile stanno poi praticamente sfumando i confini tra difesa militare e difesa civile. La prospettiva sta diventando quella di un’unica struttura di difesa dove l’impiego in funzioni di difesa civile diventa quello principale, mentre l’impiego bellico, diventa – e questo è indubbiamente un fatto positivo – una prospettiva di emergenza sempre meno sperimentata (al contrario del passato).
Il legame col territorio, che contraddistingue il corpo dei nostri Alpini, ne ha da sempre fatto una formazione molto simile ad un esercito localistico, un esercito di montagna quasi simile ad un esercito partigiano che, della conoscenza del territorio e del rapporto, amichevole ed affettivo, con la popolazione ha fatto la sua caratteristica e la sua forza vincente.
L’Italia non ha le caratteristiche di un popolo etnicamente, linguisticamente e culturalmente omogeneo: la sua principale ricchezza è proprio quella di essere un crogiolo di etnie, di lingue e di culture diversificate. L’Italia è fatta per essere la terra della diversificazione e della libertà; la pretesa, invece, di rendere l’Italia la terra dell’uniformità dogmatica è la peggiore disgrazia che poteva colpire il paese e che, di fatto, da motore della cultura europea, nei secoli, l’aveva ridotta a terra di arretratezza, di povertà diffusa e di colonizzazione culturale. Era facile dividere gli italiani, mettere gli uni contro gli altri, facendoli credere fra loro inaffidabili e nemici: i latini contro i celti, i greco-bizantini contro gli arabi, i germanici contro i liguri, gli illirici contro i veneti, i ladini contro i tirolesi. Nessuno, se non l’idea imperiale di Dante, ha mai educato gli italiani a riconoscere nella diversificazione il loro massimo fattore di civilizzazione e di progresso sociale, economico e – per quello che stiamo trattando – anche militare.
Le popolazioni di frontiera hanno conosciuto questa loro risorsa e questo loro dramma: loro, espressione fisica della contiguità e della fusione biologica dei diversi popoli e delle loro diverse culture erano – nello stesso tempo – i più esposti alle scorrerie e alle invasioni da Oltr’Alpe e i meno affidabili per il potere centrale, dati i loro rapporti – commerciali, culturali familiari, affettivi e di amicizia – con le popolazioni stanziali transalpine.
Bene, gli Alpini venivano esattamente da una situazione problematica di questo tipo: più ricchi di problematiche esistenziali, tutto sommato più europei degli altri italiani, e, proprio per questo meno affidabili nelle guerre – sostanzialmente “guerre civili” – che nei secoli hanno insanguinato l’Europa e devastato le nostre campagne e le nostre città.
Gli Alpini – truppe di montagna – vivevano dei rapporti gerarchici molto particolari: era la durezza delle condizioni ambientali che imponeva ai comandanti l’immediata presa di coscienza di poter fare affidamento soltanto sulla solidarietà – intimamente sentita come fiducia, simpatia e rispetto – dei loro Alpini. Voglio qui ricordare un episodio significativo: il preside della Scuola media di Chiusa Pesio (anni ’60-’70) Andrea Gerbaudo, in Russia con la Cuneense al comando di una compagnia, era rientrato sano e salvo in Italia – dopo quella terribile esperienza – soltanto perché “i suoi Alpini” l’avevano portato a spalla fino a poterlo caricare su di un treno che, con loro, l’avrebbe riportato a casa.
In conclusione penso di dover condividere in pieno la prospettiva avanzata sul vostro giornale di riformare l’esercito ex-italiano – ormai parte integrante dell’esercito europeo – ispirandoci al modello elvetico, facendo tesoro di quelle tradizioni nazionali italiane che di tale modello possiedono già le caratteristiche culturali essenziali a partire, naturalmente, dalla consolidata esperienza degli Alpini, eredi, fra l’altro, non dimentichiamolo, dell’esperienza garibaldina risorgimentale dei “Cacciatori delle Alpi”.
Noi non diciamo alla latina “si vis pacem, para bellum /se vuoi la pace, prepara la guerra”, ma indubbiamente il nostro pacifismo non può essere un pacifismo imbelle, il nostro dev’essere un pacifismo, anche armato, ma soprattutto un “pacifismo attivo” in grado di produrre risorse da destinare al consolidamento nel mondo (1) delle condizioni economiche di benessere, (2) delle condizioni culturali di un consapevole esercizio della libertà e (3) delle forze sociali capaci di democrazia e di auto-governo.

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Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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