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Il Museo Guggenheim di Bilbao: la grande nave

Arriviamo attraversando un parco e costeggiando il fiume e, come spesso ci accade, seguiamo l’istinto più della cartina.

Ci appare così la forma argentata di una grande nave, anche le vele riflettono la luce: il museo Guggenheim di Bilbao, progettato da Frank Gehry ed inaugurato nel 1997, è davanti a noi. Siamo in anticipo rispetto alla nostra prenotazione, così ne approfittiamo per osservare la struttura esterna, le statue del grosso ragno “maman“, delle colonne di sfere e di Puppy, l’ enorme forma di cane ricoperto di piante fiorite.

Entriamo. Superati i controlli, alziamo gli occhi, siamo al centro di un ampio spazio, definito da scale, passaggi aerei, vetrate, balconate… Il pavimento di marmo giallo suggerisce allegria, armonia, invita a stare al gioco, a lasciarsi condurre.

Orientarsi non è semplice, le istallazioni permanenti e le tre mostre temporanee sono interconnesse. Il settore 104 contiene “The matter of time” (la materia del tempo) un’istallazione di Richard Serra che, con i suoi enormi pannelli curvilinei, in acciaio, invita i visitatori ad entrare e vivere una personale percezione del tempo: percorrendo stretti corridoi che terminano in spazi ovali, triangolari, a cuspide con lati curvi.

Ci si sente piccoli, deboli, al cospetto di queste ampie lastre metalliche, color ruggine, ruvide al tatto; dall’alto altri visitatori osservano l ‘andirivieni labirintico di chi è al piano terra. Il tempo e lo spazio sono i temi, il filo conduttore che lega idealmente il Guggenheim e le opere che contiene. Il flusso creativo degli artisti percorre il tempo, consacra la loro arte all’infinito, intuizione creativa che diviene materia, collocata in uno spazio, quello espositivo intercettando per qualche istante l’emozione degli spettatori, che divengono essi stessi parte dell’evento creativo.

Attraverso scale e passerelle giungiamo nell’anfiteatro dove è appesa la grande struttura (8 metri x 14) ” Rising sea” (mare che sale) realizzata su progetto di El Anatsui , artista ganese, con migliaia di tappi metallici di bottiglie di alcolivi da un collettivo di artigiani della sua terra.

Sembra un’enorme onda oceanica, ma al contempo fa memoria dell’invasione coloniale degli europei a danno dei popoli africani. Anche qui il tempo e lo spazio si fondono, la potenza artistica irrompe nella nostra mente insinuando l’intuizione, che in seguito diviene analisi e comprensione.

Proseguiamo la visita inoltrandoci su altre passerelle affacciate sull’atrio centrale dell’edificio, fino a giungere in uno spazio triangolare i cui muri sono decorati con enormi forme geometriche di diversi colori : è il Murale n.831 progettato nel 1997 da Sol Le Witt, maestro dell’arte concettuale. Egli sosteneva che l’opera d’arte è eterna perché vive nel concetto, cioè nell’idea che l’artista ha avuto e che rimarrà per sempre nel mondo delle idee.

 

In questo spazio, che accoglie e propone attimi di eternità, sono allestite anche mostre temporanee che ci stupiscono e, in un certo senso , ci provocano: Yayoi Kusama, poliedrica artista giapponese, tra le tante opere esposte, ci hanno colpito i puntini i “polka dots“che lei utilizza su qualsiasi superficie per suggerire l’esistenza di reti d’infinito.

Oskar Kokoschka, il maestro viennese di origine ceca, esponente dell’espressionismo, che nelle sue opere ha catturato la dimensione psicologica dei suoi modelli e l’ha resa immortale.

Lynette Yiadom Boakye pittrice di origine ghanese formatasi a Londra, che esegue ritratti in cui l’interesse non è rivolto al soggetto raffigurato, quanto piuttosto all’osservazione della luce e dei colori: l’esperienza che ci propone è rivolta alla materia artistica in sé, anziché ad un contenuto concettuale.

Sono trascorse diverse ore da quando abbiamo incominciato la visita, gli occhi, il cuore, la mente hanno necessità di una pausa e così, a malincuore, ci avviamo all’uscita.

Ritroviamo la luce del sole, il caldo estivo, tante persone che scattano foto, il rumore del traffico, eppure, lo sfavillio metallico delle pareti esterne del Guggenheim ci ricorda che lì, fuori e dentro lo spazio definito dalle sue vele, abbiamo vissuto un’esperienza d’infinito.

Foto dell’autrice

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Cecilia Bolzani

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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