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“Als das Kind Kind war…”. Il Cielo sopra Berlino, il film capolavoro di Wim Wenders, si apre con il primo piano di un foglio di carta, una mano con una biro scrive una riga sotto l’altra, fuori campo la voce di Bruno Ganz recita una poesia struggente e strepitosa, ‘la canzone dell’infanzia’ di Peter Handke.

Bruno Ganz è l’angelo Damiel che, con il compagno Cassiel, guarda dall’alto una brulicante Berlino in bianco e nero. Ma i due angeli si mischiano alla folla, entrano nella biblioteca verticale, sentono  i pensieri segreti degli umani, ascoltano impotenti il loro dolore. Ecco, ora è sul ponte sulla Sprea, appoggia la mano invisibile sulla spalla del suicida. L’angelo Damiel si innamora di una donna – e sempre più si innamora della debolezza degli umani –  decide di rimanere a terra, per sempre, senza ali.

A febbraio di quest’anno Bruno Ganz ha lasciato la terra degli uomini. E il 10 dicembre – tra molte polemiche – l’Accademia di Stoccolma ha consegnato il Nobel della Letteratura per l’anno 2019 a Peter Handke, per “la sua opera influente che ha esplorato con ingegnosità linguistica la periferia e la specificità dell’esperienza umana”. Confesso di essere un appassionato lettore del grande scrittore austriaco, di tutta la sua opera, dai primi romanzi sperimentali come ‘Prima del calcio di Rigore’, al terribile “infelicità senza desideri’, a “La donna mancina’, ai romanzi-saggio degli ultimi decenni. Ai diari di viaggio. Alle opere per il teatro. E naturalmente la poesia, su cui Handke continua ancora oggi la sua ricerca (sul senso e sul potere della scrittura) iniziata più di trent’anni fa.

Scelgo qualche verso dal suo ultimo poema ‘Il canto della durata’.

“Inutile forse dire
che la durata non nasce
dalle catastrofi di ogni giorno,
dal ripetersi delle contrarietà,
dal riaccendersi di nuovi conflitti,
dal conteggio delle vittime.
Il treno in ritardo come al solito,
l’auto che di nuovo ti schizza addosso
lo sporco di una pozzanghera,
il vigile che col dito ti fa cenno
dall’altro lato della strada, uno con i baffi
(non quello ben rasato di ieri),
la morchella che ogni anno rispunta
in un angolo diverso nel folto del giardino,
il cane del vicino che ogni mattina ti ringhia contro,
i geloni dei bambini che ogni inverno
tornano a pizzicare,
quel sogno terrorizzante sempre uguale
di perdere la donna amata,
l’eterno nostro sentirci improvvisamente estranei
fra un respiro e l’altro,
lo squallore del ritorno nel tuo paese
dopo i tuoi viaggi di esplorazione del mondo,
quelle miriadi di morti anticipate
di notte prima del canto degli uccelli,
ogni giorno la radio che racconta un attentato,
ogni giorno uno scolaro investito,
ogni giorno gli sguardi cattivi dello sconosciuto:
è vero che tutto questo non passa
– non passerà mai, non finirà mai –,
ma non ha la forza della durata,
non emana il calore della durata,
non dà il conforto della durata.”

Molti intellettuali (non tutti per fortuna), molti politici e uomini di stato (compreso il dittatore Erdogan), e i media – quasi senza distinzione – hanno vivacemente contestato la scelta dei giurati del Nobel. L’accusa a Peter Handke – parlo di chi si è almeno documentato, non degli ignoranti che gli hanno buttato addosso gli epiteti più ingiuriosi: revisionista, fascista, filonazista – è di essersi schierato dalla parte della Serbia durante il conflitto fratricida della ex Jugoslavia. Fino al punto di presenziare a Požarevac (senza lacrime, ma con “poche parole di debolezza”) ai funerali dell’ex presidente Milošević, condannato per crimini contro l’umanità dal tribunale dell’Aia.

Sono andato a leggermi quanto Handke ha detto e scritto durante e dopo la guerra jugoslava. Non ho trovato nessun indizio di quella indegnità morale di cui viene accusato il grande scrittore e poeta austriaco. Nessun panegirico del presidente e dittatore serbo, Nessuna parola di giustificazione per il massacro di Srebrenica  e degli altri atti di pulizia etnica. Handke contesta che la colpa ricada solo sul popolo serbo, e cita gli episodi di atrocità messi in atto dalle altre parti in lotta e in particolare dai croati. E mette sotto accusa l’Europa, la sua incapacità (non volontà) di evitare il conflitto (per interessi, anche economici, poco nobili, soprattutto della Germania), un Occidente (Nato in testa) che ha preferito lavarsi le mani, assistere alla disgregazione della Jugoslavia, prendere Milosevich e la Serbia come unico capro espiatorio e, dopo la guerra, raccogliere i cocci, annettendosi economicamente Slovenia e Croazia.

Conosco poco – come tutti del resto – della sanguinosa guerra della ex Jugoslavia, ho capito però che è stata qualcosa di molto più grande e complesso di quanto ci ha raccontato la storia ufficiale. Si può essere in disaccordo con Handke, rifiutare la sua nostalgia per la vecchia Jugoslavia che univa (sotto un unico tallone) popoli diversi, ma non lo si può accusare di indegnità. La sua è una voce fuori dal coro. Una voce intima e sofferta, una voce scomoda, interrogante. La stessa voce profonda che anima tutta la sua opera letteraria.

Forse, invece di criticare l’assegnazione del premio a Peter Hanke, andrebbe criticato (e abolito) lo stesso Premio Nobel. Un premio nato male – con il suo lascito il geniale plurimiliardario Alfred Bernhard Nobel intendeva ripulire il suo nome dalla dinamite e dalla nitroglicerina –  e gestito da una giuria paludata e poco credibile. Non si contano infatti le clamorose cantonate cui è andata incontro, soprattutto per quanto riguarda il controverso Nobel per la Pace.

Non abbiamo bisogno di premi – piccoli, medi o grandi – per apprezzare l’opera di un grande scrittore o di un grande scienziato. Non abbiamo bisogno di stupide classifiche. E non abbiamo bisogno del Nobel – il premio più danaroso, altro che ‘prestigioso’ – per valutare un grande narratore e poeta come Peter Handke. Basta aprire a caso una sua pagina. Tornare, ad esempio, alla voce di Bruno Ganz, al “bambino quando era bambino’ con cui Handke racconta la meraviglia di una infanzia lontana ma che mai ci abbandona.

“Quando il bambino era bambino,

se ne andava a braccia appese.

Voleva che il ruscello fosse un fiume,

il fiume un torrente;

e questa pozza, il mare.

Quando il bambino era bambino,

non sapeva d’essere un bambino.

Per lui tutto aveva un’anima, e tutte le anime erano tutt’uno.

Quando il bambino era bambino,

su niente aveva un’opinione.

Non aveva abitudini.

Sedeva spesso a gambe incrociate,

e di colpo sgusciava via.

Aveva un vortice tra i capelli,

e non faceva facce da fotografo.

Quando il bambino era bambino,

era l’epoca di queste domande.

Perché io sono io, e perché non sei tu?

Perché sono qui, e perché non sono lí?

Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo spazio?

La vita sotto il sole, è forse solo un sogno?

Non è solo l’apparenza di un mondo davanti a un mondo,

quello che vedo, sento e odoro?

C’è veramente il male e gente veramente cattiva?

Come può essere che io, che sono io, non c’ero prima di diventare?

E che un giorno io, che sono io, non sarò più quello che sono?

Quando il bambino era bambino,

per nutrirsi gli bastavano pane e mela,

ed è ancora cosí.

Quando il bambino era bambino,

le bacche gli cadevano in mano,

come solo le bacche sanno cadere, ed è ancora cosí.

Le noci fresche gli raspavano la lingua, ed è ancora cosí.

A ogni monte, sentiva nostalgia di una montagna ancora più alta,

e in ogni città, sentiva nostalgia di una città ancora più grande.

E questo, è ancora cosí.

Sulla cima di un albero,

prendeva le ciliegie tutto euforico, com’è ancora oggi.

Aveva timore davanti ad ogni estraneo, e continua ad averne.

Aspettava la prima neve, e continua ad aspettarla.

Quando il bambino era bambino,

lanciava contro l’albero un bastone, come fosse una lancia.

E ancora continua a vibrare.”

Peter Handke, dal film di Wim Wenders, Il cielo sopra a Berlino

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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