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da: Avv. Piero Giubelli, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Ferrara

Ho letto con attenzione l’articolo a firma Simona Gautieri pubblicato su Ferraraitalia e credo sia necessario fornire ai lettori qualche precisazione in più, anche se con qualche difficoltà, visto che l’articolo parte dal tema di un licenziamento per poi trattare una questione ben più ampia, che non attiene alla questione inizialmente trattata.
Partirei da un’inesattezza contenuta nell’articolo: non è assolutamente vero che l’Ordine non fornisce i dati sugli iscritti e le cancellazioni. Il numero di avvocati iscritti a Ferrara è pubblico, come pure è pubblico il numero delle cancellazioni. La mia relazione annuale è pubblicata sul sito istituzionale ed è possibile verificare ogni dato sul punto. Se qualche qualcuno afferma il contrario è in mala fede e non conosce affatto i meccanismi istituzionali.
Non va dimenticato che l’Ordine è un ente pubblico non economico ( lo si paga perché è obbligatorio per essere iscritti, non per altro !), il cui compito non è quello di tutelare gli iscritti, ma di garantire il cittadino sulla qualità dei professionisti ai quali si rivolge; è vero che, talvolta, l’Ordine assume iniziative che possono apparire sindacali, ma ciò deve essere sempre letto nell’ottica del servizio alla collettività, poiché difendendo il corretto svolgimento della professione tutelo chi a quel professionista si è rivolto.
Venendo al primo dei temi affrontati, nel nostro paese non esiste un contratto per gli avvocati dipendenti degli Studi Legali, così come, invece, esiste in Francia, dove trova, comunque, scarsa applicazione.
L’unico tipo di rapporto, pertanto, che si può avere con lo studio legale con il quale si collabora è di natura libero professionale, il che può essere uno svantaggio, ma offre anche la possibilità di avere pratiche proprie e, dunque, di crescere professionalmente e di percepire, oltre al compenso ricevuto dall’avvocato per il quale si lavora, anche gli ulteriori compensi che pervengono dall’attività libero professionale, cosa che sarebbe impedita se uno fosse inquadrato come dipendente.
Per questo trovo inaccettabile che uno studio pretenda che un collaboratore, se ha pratiche sue, non possa firmarle con il proprio nome, ma ognuno gestisce il proprio studio come meglio ritiene ed un collaboratore al quale vengano imposte simili condizioni dovrebbe avere, come feci io a suo tempo, la forza di rifiutarle, a costo di doversi sacrificare economicamente.
Quanto, poi, dall’andare a prendere i figli a scuola o pagare le bollette, è vergognoso che un avvocato lo chieda ai propri collaboratori come regola e basterebbe ciò per capire che si è scelto lo studio sbagliato e che, a quel punto è meglio rischiare e cercare opportunità migliori ( il sindacato non dice nulla ?).
Tuttavia, ciò che mi risulta inaccettabile è un’immagine degli Studi legali assolutamente contraria alla realtà, facendosi di un singolo caso – pure censurabile se fosse come descritto – il paradigma di ciò che abitualmente avviene. Prova lo è il fatto che su internet, come dice l’articolista, non vi è traccia di articoli o denunce sul tema. Potrei citare numerosi casi nei quali le collaboratrici hanno avuto figli ed al loro ritorno hanno continuato a lavorare per lo studio.
Il problema vero, che non dipende certo dagli Ordini, ma dal legislatore, è rappresentato dal fatto che non esiste, per tutti i liberi professionisti, un’adeguata tutela della maternità. Cassa Forense corrisponde un assegno di maternità alle colleghe, ma, purtroppo, le difficoltà non riguardano solo le esigenze economiche, ma anche quelle organizzative.
In questo quadro, è possibile che uno studio legale strutturato, che necessità di collaboratori presenti sempre e a tutte le ore, possa determinarsi a sostituire la collaboratrice impossibilitata a prestare la sua opera tutto il giorno, ma credo che ciò, ancora una volta , riguardi la libera professione nel suo complesso, che non gode delle tutele sociali di chi svolge un lavoro dipendente.
E’ una scelta di vita, che uno deve operare nella consapevolezza che potrà, astrattamente, avere maggiori opportunità, anche economiche, ma anche maggiori rischi e difficoltà ( anche chi non è un collaboratore di una studio, ma lavora in proprio, incontra le difficoltà tipiche della maternità senza aspettative, stipendio ed altre tutele!), attraverso un percorso lungo, incerto e sicuramente pieno di insidie.
Un lavoro che sconsiglierei a chi ha ambizioni da lavoratore dipendente.
Vero è che ci sono troppi avvocati, fatto che dipende, ancora una volta da un legislatore che non ritiene di mettere filtri alla professione, lasciando il numero aperto alla Facoltà di Giurisprudenza. Da sempre l’avvocatura richiede che si limiti l’accesso, ma all’economia nazionale fa più comodo una classe di liberi professionisti sempre più numerosa e proletarizzata, alla quale si possano imporre condizioni capestro, piuttosto che un’avvocatura numericamente contenuta e contrattualmente forte. E, come in ogni campo, ne fanno le spese maggiori i professionisti più giovani e deboli.

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Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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