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di Giuseppe Pederiali

C’era una volta un macero, uno di quegli stagni artificiali che i contadini usavano per macerarvi la canapa, e sopravvissuti oggi come cimeli e come minuscoli brandelli di palude, in rappresentanza delle antiche valli padane, quando l’acqua e la terra si contendevano la supremazia, alternate a selve e campi coltivati. Attorno ai maceri crescono cespugli ed erbe selvatiche capaci di fiori dai profumi e dai colori dimenticati, sull’acqua galleggiano ninfee e nadrine. Sulle rive e nell’acqua vivono piccole creature altrove scomparse o rarefatte: ricci, rospi, raganelle, colubri, pescigatto, libellule, zucabeghe e zanzare così grosse che arrivano a pesare anche mezz’etto, e poi bosme, anzlìn e anguane, e qualche volta, durante le migrazioni, si fermano a riposare e a rifocillarsi anatre, oche, folaghe e cicogne. E ci vivono molte rane, la più ricca rappresentanza di batraci della Valle del Po.
Il macero della possessione Ca’ Rossa, nella Valle Le Partite, tra Mirandola e Finale, si trova a pochi passi dalla strada detta Fruttarola, alquanto dissestata perché qui ci sono pochi alberi, e d’inverno il vento corre come vuole e il gelo crea di continuo nuove buche sull’asfalto già compromesso dal passaggio dei trattori. Transitano soltanto le poche macchine e i rari camion di chi vuole accorciare di qualche chilometro il tragitto per raggiungere Via Rovere da Gavello. Ragionamento che quel giorno aveva fatto l’autista della cisterna diretta a Campegine. L’autista tenne il motore allegro e l’andatura sostenuta nonostante le buche, e così, proprio all’altezza del macero della Ca’ Rossa, l’autocisterna piena di vino, presa in pieno una buca più ambiziosa delle altre, sbandò prima a sinistra, poi a destra, e finì tra fosso e strada, appoggiata sul fianco destro. L’autista se la cavò con una grande paura, ma nell’impatto contro un piccolo paracarro si aprì sulla cisterna una falla di due spanne dalla quale prese a sgorgare vino, un buon lambrusco di Sorbara pronto per essere imbottigliato.
Il vino uscì con forza, come acqua da una fontana, e il getto, di un bel colore rubino, saltò il fossato, atterrò sull’erba, si scavò un piccolo fiumicello e, favorito dal terreno in discesa, finì nel macero cominciando ad avvinare l’acqua. Un’acqua da sempre immobile, ma rinvigorita e ossigenata dalle piogge e da una minuscola risorgiva che succhiava acqua lievemente salmastra da un Mare Padano rimasto prigioniero sottoterra al tempo dei dinosauri.

Le rane, così come gli altri animali del macero, non conoscevano liquidi diversi dall’acqua. Al massimo avevano assaggiato il succo delle more del rovo cresciuto sulla riva. Conoscevano soltanto l’acqua, che voleva dire vita e sapore. Facevano eccezione le zanzare femmina che, al momento di deporre le uova, succhiavano gocce di sangue ai mammiferi.
Insomma, nessuna delle creature dello stagno aveva mai assaggiato il vino che quel giorno, adagio, zampillava nel macero. Fu la più anziana delle rane, una femmina di quasi sette anni, che si decise ad assaggiarlo, e lo fece tuffandosi proprio alla foce del fiumicello, dove il vino era quasi puro. Spalancò la capace bocca, scostò la valvolina che le serviva a impedire che l’acqua le entrasse in gola quando giaceva sotto la superficie, e bevve una lunga sorsata.
le domandò la giovane rana che l’aveva seguita, mantenendosi però lontana dalla macchia rossa che si andava allargando.
rispose la rana di sette anni. <Però è roba buona.> Per essere sicura ne bevve un altro sorso, e poi un altro ancora. La rana giovane, visto che la compagna stava bene e seguitava a bere a più non posso, ne mandò giù una sorsata anche lei, e poi un’altra, ben presto imitata da tutte le rane del macero. Alla bevuta collettiva parteciparono rospi, colubri e pescigatto: tutti bevvero nel punto dove il vino entrava nell’acqua e non si era troppo diluito.
Dopo la bevuta, molti animali cercarono un posto tranquillo dove mettersi a dormire, vinti dal medesimo languore che li colpiva in vicinanza del letargo. Solo le rane, le più numerose, chiassose e vivaci abitanti del macero, non provarono alcun desiderio di addormentarsi, anzi, non si erano mai sentite più sveglie e arzille. Seguitarono a bere fino a quando glielo permise lo stomaco, e poi si misero a cantare tutte in coro, a tuffarsi nell’acqua rosata, a nuotare. Questi esercizi fisici non bastarono ad attenuare tutto il fuoco, l’energia e l’allegria che avevano dentro, e così le settecentoventiquattro rane del macero partirono tutte insieme nell’ora del tramonto, saltellando tra l’erba e sulle zolle dei campi arati di fresco. Siccome da un lato passava il fiume Luce, dall’altro la strada Fruttarola, e dall’altro ancora un canale, le rane finirono per ritrovarsi tutte sull’aia della Ca’ Rossa, a mezzanotte in punto.

Nella Ca’ Rossa ci abitava il vecchio Adelmo Molinari con la moglie Rosina e il figlio Ermete. Erano tra i pochi contadini che seguitavano a stare nella valle, senza cadere nella tentazione di prendere casa a Mirandola o a San Martino Spino e venire in campagna soltanto per lavorarci. Adelmo amava questa terra al punto che era già d’accordo con moglie e figlio per abitarla anche da morto: l’avrebbero cremato e sparso le ceneri sul campo delimitato dalla Fruttarola, dal canale e dal fiume Luce. Diventato a sua volta terra, Adelmo sarebbe rinato molte volte dentro il frumentone, l’uva, le zucche o le barbabietole, oppure nel corpo di bigatti, topi, talpe o corvi.
Quella notte l’Amleto Molinari stava giusto sognando la Valle così come la poteva vedere un uccello che vola più in alto anche dei pioppi, quando un rumore lo svegliò. Pensò che Ermete o la Rosina avessero lasciato accesa la televisione, giù in cucina, e che questa fosse una delle musiche moderne fatte di ritmo senza melodia, tumtum, gragra o zanzan. Scese in cucina. Televisore, radio e stereo erano spenti. Il gracidio seguitava. Veniva da fuori. Andò alla finestra, socchiuse le imposte e sbirciò sull’aia. In principio non capì bene cosa fossero quelle cosine verdi che si muovevano per terra illuminate dalla luna. Poi capì che si trattava di rane intente a un coro dedicato proprio a lui. Ciascun animaletto gonfiava le gote e usava quell’aria per suonare lo strumento che la natura gli aveva regalato.
Invece di rallegrarsi della serenata, Amleto si spaventò. Come succede a molti uomini, i pensieri dettati dalla cattiva coscienza ebbero il sopravvento. La memoria corse alle tante rane che aveva mangiato in vita sua, specialmente da giovane, quando nelle famiglie dei contadini poveri entrava raramente la carne, e almeno sulle rane il padrone non esigeva la sua parte. Le aveva mangiate fritte, in guazzetto, alla guastalda. Le aveva comprate al mercato, dal ranaro che fino agli anni Cinquanta girava per le case dei contadini, e qualche volta le aveva pescate lui, lungo i fossi, il canale e il macero. Adesso, tutte insieme e tutto in un colpo, le rane avevano deciso di vendicarsi ed eccole qui, radunate davanti a casa, intente a uno spaventoso canto di guerra.
Il gracidio svegliò anche Ermete… Andò alla finestra della sua stanza che guardava direttamente sull’aia e vide le settecentoventidue rane (due erano tornate al macero a farsi un’altra bevuta) che cantavano alla luna. Subito pensò a Fiorella, la ragazza che gli aveva giurato amore proprio in una notte d’estate simile a questa, distesi sull’erba non lontano dal macero, e mentre si abbracciavano le rane facevano da sottofondo musicale, come succede nei film. si disse Ermete…
Anche la Rosina era stata svegliata dal gracidio. Aveva aperto gli occhi e allungato la mano verso Amleto, senza trovarlo. Nel buio ascoltò con attenzione il coro delle rane. Si rivide bambina, quando andava a portare l’acqua e il pentolino della pasta e fagioli a sua madre che lavorava nella risaia. Tre chilometri a piedi ad andare e tre a tornare, sempre da sola, su carradoni e sentieri all’ombra dei pioppi, lungo i fossi, ma non aveva paura perché le facevano compagnia le rane: la guardavano con i loro occhi sporgenti, la salutavano saltando in acqua, gracidavano o addirittura le attraversavano la strada per farsi vedere. Le rane non avevano dimenticato la bambina e questa notte, per uno dei miracoli che nelle campagne di una volta succedevano spesso, erano venute a trovarla.

La lontananza dal vino e dall’acqua fece svanire l’euforia delle rane. Il canto diminuì di intensità e si spense del tutto sulla via del ritorno. Le rane, diversamente dagli uomini, erano creature semplici, vicine alla natura e lontane da complicazioni alimentari, d’amore, di memoria. Raggiunsero il macero, si tuffarono, cercarono invano il vino, ormai troppo diluito dall’acqua. Pur rassegnate al loro destino acquatico, per un attimo rimpiansero il vino.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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