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Vite di carta. Al funerale con la Coscienza di Zeno

Di mercoledì, in questa primissima parte del nuovo anno, ho avuto il primo giorno libero dopo la ripresa delle lezioni, ho saputo della operazione subita da una cara amica, sono andata al primo funerale dell’anno.

Vorrei soffermarmi proprio su quest’ultimo, che sento di poter affrontare con leggerezza. L’argomento ‘funerale’, intendo. Eh sì, perché negli ultimi anni e dopo avere subito le perdite più dolorose affronto i funerali ‘degli altri’ con serenità. Vado alla messa, mi sento in compagnia di adulti che come me devono avere già fatto l’esperienza e partecipo tiepidamente ma con sincerità all’ultimo saluto. Mi avvicino in compagnia alla fine naturale della vita, così come mi hanno insegnato Seneca e mio padre.

Sono una persona riservata, ma mentre siedo nella posizione più opportuna in chiesa (non troppo avanti, ma nemmeno negli ultimi banchi che di solito ospitano i ritardatari o gli irresoluti) lancio brevi occhiate all’intorno in cerca di messaggi corporei. Si impara tanto dalla postura dei fedeli, dal tono della loro voce mentre pregano o cantano seguendo la liturgia. Si registrano paure, indifferenza, senso di precarietà… Senso di onnipotenza, un po’ anche questo direi. Tra tanta compiaciuta mediocrità.

Ai funerali mi è capitato anche di assistere a scene comiche, brevi ma esilaranti. Sarà che le parole sono la mia passione, ma quando qualcuno usa un termine inadeguato in occasioni simili io sento che questo ‘errore’ è come una esplosione, non fa danni all’intorno, ma mi smuove dal profondo il riso.

Carnevalizzo l’attimo? Penso di sì; penso che gli ‘auguri’ fatti ai parenti del defunto al posto delle ‘condoglianze’ riescano a rovesciare il mondo: ti vedo qui davanti a me infelice e spento, ma preferisco negarti la mia empatia di oggi per proiettarti nel futuro, nel tuo futuro intendo. Non ti esprimo il mio dolore di ora, da condividere con te, ma eseguo in forma essenziale un rito propiziatorio e invoco dalla Tyche le prossime buone possibilità per te.

Rido per questa mia interpretazione straniata. Rido perché subito dopo torno con i piedi per terra e realizzo che nel dire ‘auguri’ la persona si è semplicemente sbagliata; forse per l’emozione di avere davanti il ritratto del dolore ha riesumato la formula che era andata bene fino all’ultimo compleanno… A me capita di ringraziare, anche quando ho appena fatto io un piccolo favore.

La prima volta che mi sono messa a ridere per un funerale è stata durante la seconda lettura di La coscienza di Zeno, al capitolo settimo. La mia reazione è stata in parte pilotata, devo ammetterlo. Alla prima lettura che risale agli anni del liceo, infatti, mi ero solo stupita della imbranataggine di Zeno, quando aveva sbagliato funerale: si era recato in ritardo alle esequie del cognato Guido Speier, aveva seguito per un buon tratto il trasporto di un altro feretro e solo all’ingresso del cimitero greco lo aveva sfiorato il dubbio di avere commesso un indelicato errore.

“Il signor Guido era greco? Domanda sorpreso l’accompagnatore di Zeno, un certo Nilini”.  “ Può essere che sia stato protestante – dissi io dapprima, ma subito mi ricordai d’aver assistito al suo matrimonio nella chiesa cattolica”.

Poi, durante le lezioni all’università, ero stata condotta a considerare La coscienza di Zeno come un romanzo profondamente comico, e così alla seconda lettura avevo dovuto riposizionarmi e avevo cominciato a godere della beata relatività con cui Zeno vive la propria vita. Beata anche la sua inettitudine, che gli fa sposare non Ada, la più bella delle tre sorelle Malfenti, non Alberta che pure lo respinge, ma la più bruttina delle tre, Augusta, che invece è interessata a lui ed è il ritratto della salute. Ed è un buon matrimonio, e l’unione con Augusta si rivela felice.

Zeno è stato il secondo antieroe (il primo, nell’infanzia, era stato Paperino), che ha segnato i miei pensieri da adulta; il primo ad affrontare la complessità della vita con la ‘malattia’ addosso, con il doppio fondo nella propria valigia da usare come viatico. Il primo che ha azzeccato per caso alcune scelte importanti, che ha mescolato la morte e la vita per ricavarne insospettate alchimie: nel giorno stesso in cui non si presenta al funerale del cognato ottiene un buon successo, passando dalla banca a tutelare gli interessi della vedova, sua cognata Ada. E in famiglia viene apprezzato per questo.

Non vado ai funerali in cerca di comicità, né rileggo parti della Coscienza alla ricerca della risata facile. Vado per far sentire la mia vicinanza a chi attraversa in quel momento la Perdita, il Dolore. Leggo e rileggo i grandi libri per farmi educare, una volta di più, dalla letteratura.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di carta, clicca [Qui]

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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