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Giorno: 1 Dicembre 2016

Il tramonto di un sogno

Weimar è una città della Germania Nord-Orientale di 65.479 anime, nella regione della Turingia, lontana dagli affollati flussi turistici che portano inevitabilmente a Berlino, Dresda e più su, Amburgo e Lubecca. Anzi, nelle mappe si fa perfino fatica a trovarla e per quanto la si cerchi, il più delle volte si rimane delusi. Anche se un tempo fu dimora di Bach, Goethe, Schiller, Liszt, Wagner, Nietzsche e in Weimar nacque la famosa scuola di avanguardia di architettura, arte e design, il Bauhaus di Walter Gropius; anche se oggi è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità Unesco.
Ma ci sarebbe anche un altro buon motivo per segnalare con più evidenza la città sulla cartografia, un evento particolare che ha unito per sempre il suo nome ad una delle più complete, equilibrate, democratiche costituzioni dell’epoca moderna. Una Costituzione che anticipò con un grande margine d’anticipo i nostri tempi, precorrendo bisogni sociali, esigenze istituzionali, richieste culturali con tempestività, intuizione e contributi prestigiosi come quelli di Hugo Preuβ, Carl Schmitt e Max Weber. In essa, la Repubblica edificò un welfare dettagliato che rimane punto di riferimento delle democrazie attuali, anche se l’epilogo dimostra delle falle nell’impianto istituzionale che, in concomitanza con altre variabili storiche e sociali, posero termine a questo notevole tentativo. Radicali riforme sociali, interventi economici, progetti per la collettività cambiarono l’ottica sui rapporti tra cittadini e istituzioni, tenendo conto realmente della metamorfosi culturale in atto.

Era il 1919, l’alba amara di una disastrosa guerra che aveva messo in ginocchio la Germania, quando il Congresso Nazionale elaborò ed approvò la nuova Costituzione, riunito al Deutsches Nationaltheater, lontano dai clamori, gli scioperi, i tumulti e le manifestazioni di piazza a Berlino. Il Paese chiedeva con urgenza una Carta costituzionale per poter essere governato e guidato nella fase di passaggio da monarchia a democrazia parlamentare, in un contesto di grande confusione e disorientamento, mentre l’intera nazione sprofondava nel caos, tra molteplici tentativi rivoluzionari di destra e di sinistra per la conduzione dello Stato. L’11 agosto 1919 la Costituzione divenne legge che prevedeva un panorama rappresentativo completo: Un Reichstag (Parlamento) eletto a suffragio universale con sistema proporzionale; un Presidente del Reich eletto con plebiscito direttamente dal popolo ogni 7 anni che godeva di ampi poteri e attribuzioni, come scioglimento e revoca nei confronti del Parlamento e del Governo e in sostanza, il vero “custode della Costituzione”; un Reichsrat (Senato) formato dai rappresentanti dei Länder (Regioni) che vedevano anche rafforzate molte competenze, prima fra tutte quella legislativa in materie ed ambiti previsti.

Il Cancelliere (Bundeskanzler), Primo Ministro, godeva di un terreno di azione, controllo e decisione nelle direttive e indirizzi della politica. Un grado di responsabilità molto vicino a quello del presidente e questo per garantire una distribuzione di potere che potesse rafforzare l’ equilibrio. Con questo modello semipresidenziale, è inevitabile concludere che le coalizioni parlamentari instabili (primo partito l’SPD, Sozialistische Partei Deutschlands) esercitarono gravi ripercussioni sulla formazione dei governi con ricaduta negativa su tutto l’assetto statale.
La costituzione di Weimar, avrebbe dovuto rappresentare un grande tentativo di tessitura della nuova carta fondamentale della Germania postbellica, in cui trama ed ordito tra istituzioni e loro competenze apparivano e dovevano risultare una superba realtà di equilibri e reciproche induzioni. Un unico, affascinante e notevole esperimento, un laboratorio di idee e decisioni non sempre perfette e coerenti ma sicuramente pionieristiche.

Nella realtà storica dei fatti però, la repubblica di Weimar (1919-1933) incontrò difficoltà e venne travolta proprio dalle contraddizioni e dalle zone d’ombra che finirono con il creare quel baratro in cui precipitò la democrazia, per lasciare il posto alla dittatura nazista. Il sistema elettorale proporzionale e le coalizioni mutevoli condussero alla frammentazione del parlamento e alla formazione di governi ballerini, decisionalmente inefficaci, minando l’equilibrio fra i poteri e tutte quelle garanzie che la Costituzione proclamava. Su quella base traballante non fu possibile dare vita a formazioni governative durevoli e sviluppare strategie politiche consistenti. Nell’arco dell’esistenza della Repubblica, dal 1919 al 1933, si ebbero ben 20 cambiamenti di governo; la durata più breve, 48 giorni, toccò al governo Stresemann nel 1923 e quella più longeva, appartiene al governo Müller, 636 giorni, nel 1928.
In un clima di perenne crisi economica aggravata dall’influenza della grande depressione americana del 1929, sei milioni di disoccupati, salari e sussidi di disoccupazione tagliati, enormi debiti di guerra da onorare puntualmente, rapporti tesi con l’esterno e conflitti interni alla nazione, la china era inevitabile. La crisi spezzò i reni dello Stato, senza autorità, che manifestò il suo tallone d’Achille proprio in quella magnifica Costituzione che avrebbe dovuto accompagnare il popolo tedesco nella nuova dimensione.

Nel 1930, l’inaspettata vittoria del partito nazionalsocialista di Hitler è da interpretare come lo stato d’animo popolare, la protesta e il dissenso contro la situazione esistente. La popolarità del partito crebbe in modo esponenziale negli anni a seguire e il 30 gennaio 1933, il Presidente von Hindemburg nominò cancelliere Adolf Hitler, il quale, avvalendosi subito del famigerato Art. 48 della Costituzione, emanò decreti d’urgenza per censurare stampa, libertà di opinione e manifestazione di pensiero.
E’ l’inizio del Nazismo; il resto ci è tristemente noto. Doloroso rammentare che a soli 80 chilometri da Weimar si trova quello che rimane del lager di Buchenwald, il campo di concentramento in cui vennero uccise più di 54.000 persone tra il 1937 e il 1943 e in cui morì Mafalda di Savoia.

La fine della democrazia tedesca, con l’avvento del nazionalsocialismo, fa pensare ad una frase di Immanuel Kant: “Die Demokratie ist kein Naturzustand unter den Menschen – sie muβ also gestiftet werden, Tag um Tag.” ( La democrazia non è una condizione naturale tra gli uomini – essa deve essere dunque curata nelle fondamenta giorno per giorno.)

Referendum Costituzionale, c’è chi dice “boh”
Ad un passo dal voto regna ancora il caos

[Pubblicato il 14 ottobre 2016]

Dunque il 4 dicembre si vota al referendum per dire sì o no alla riforma costituzionale che porta la firma della ministra Maria Elena Boschi. Se sia o no una buona riforma, il fatto stesso che il fronte dei costituzionalisti italiani sia irriducibilmente diviso, sembra di per sé una prova che si poteva fare meglio. Anche le perplessità nel fronte dei favorevoli suonano come una conferma a questo ragionevole dubbio (per Massimo Cacciari, senza mezzi termini, è “una puttanata”).
Ulteriore prova è che su una quantità di questioni è possibile dire tutto e il suo contrario. Esempi?
Partiamo dal quesito scritto sulla scheda. Come dicono tanti: tendenzioso. Difficile negarlo. D’altra parte, è altrettanto vero che si tratta del titolo della legge. E allora di chi è la colpa se deputati e senatori che oggi sbraitano sul punto, non hanno posto la questione durante le sei letture del testo complessivamente fatte nei due rami del Parlamento?

Come scrive Massimo Franco (Corsera del 6 ottobre), è parso poi maldestro il tentativo di attribuirne la responsabilità alla Presidenza della Repubblica, quando una nota del Quirinale fa sapere che il quesito è stato “valutato e ammesso dalla Corte di Cassazione”.
Si può andare veloci sulla questione degli imbarazzi che ciascuna delle singolari alleanze prodotte da questa contesa può rilanciare nell’altrui metà campo: da una parte Renzi-Verdini, dall’altra D’Alema-Brunetta-Civati-Salvini …

Non meno controverso è l’impianto della riforma. Difficile dare torto a Marco Travaglio e Silvia Truzzi nel loro libro “Perché no”. Quando la sinistra si mise di traverso alla riforma costituzionale del 2005 dell’allora governo Berlusconi (poi bocciata dal voto popolare), quello che sorprende non è tanto una differenza di posizione fra due riforme oggettivamente diverse (quella cambiava la forma di governo: il presidenzialismo, questa formalmente no), quanto le ragioni che scongiuravano di non compiere quel passo. Ci fu un vero e proprio diluvio di parole, essenzialmente su due fronti.
Il primo: non si cambia la Costituzione, che è di tutti, a colpi di maggioranza, altrimenti ogni maggioranza si riscrive la sua. Il secondo: la Costituzione più bella del mondo non va stravolta (erano 53 gli articoli toccati nel 2005), ma basta modificare pochi e singoli articoli. “Semplicemente perché non ce n’è bisogno”, scriveva l’Unione del centrosinistra nel suo programma del 2006. Qualcuno si spingeva a limitare ulteriormente l’ambito di possibili incisioni, ritenendo sufficienti leggi ordinarie, oppure la sola legge elettorale.

Ora, lasciando stare la riforma del 2001 del titolo quinto, targata centrosinistra (avvenuta coi soli voti di quella maggioranza), effettivamente è difficile trattenere la domanda: cos’è cambiato oggi perché la stessa parte politica arrivi a riscrivere 47 articoli? Per inciso, La Civiltà Cattolica (28 maggio scorso) scrive della modifica di 43 articoli della seconda parte, uno della prima, abrogazione di quattro, cambio di tre leggi costituzionali e introduzione di 21 nuovi commi come disposizioni transitorie, ma non perdiamo il filo.

Altro esempio: c’è chi dice che il nuovo Senato, non più elettivo, anziché essere composto dai consiglieri regionali, oltre ai sindaci e ai senatori a vita nominati dal presidente della Repubblica (e qui c’è anche l’obiezione: cosa ci fanno nella camera delle autonomie locali?), avrebbe potuto essere formato dagli assessori delle giunte regionali. Così sarebbe stata più chiara l’impronta amministrativa e di governo dei territori, invece di quella politica (i consiglieri espressione dei partiti).
Sul punto hanno replicato il costituzionalista Stefano Ceccanti (Il Mulino 4/2016) e Carlo Fusaro (docente di diritto pubblico comparato, su Aggiornamenti Sociali 6-7/2016), che il modello Bundesrat tedesco non è stato possibile perché il Pd controlla 17 governi regionali su 21 e qualcuno avrebbe certamente puntato il dito sulla furbata politica. C’è poi l’obiezione del “combinato disposto” di riforma costituzionale e nuova legge elettorale (Italicum), vera e propria anticamera verso derive autoritarie. E’ stato il filo conduttore del faccia a faccia tra Gustavo Zagrebelski e il presidente del Consiglio nello studio di Enrico Mentana a La 7.

Si può capire che lo stesso Carlo Fusaro, apertamente schierato per il sì, eccepisca che in Gran Bretagna il premier è il risultato di un sistema maggioritario in collegi uninominali e che non rappresenti mai la maggioranza assoluta degli elettori (La Nuova Ferrara 2 ottobre). E’ storicamente successo che lì abbia vinto le lezioni un partito, nonostante quello sconfitto abbia avuto numericamente più voti. Eppure nessuno si sognerebbe di definire la Gran Bretagna una dittatura.
Diverso è se a smontare la tesi del “combinato disposto” è uno schierato dalla parte del no come il politologo Gianfranco Pasquino: “una eccessivamente temuta deriva autoritaria” (La Nuova Ferrara, stesso giorno). Si potrebbe andare avanti con gli esempi, come sul raffronto fra le nove parole dell’attuale articolo 70 della Costituzione e le 438 usate dal riformatore nel nuovo, ma la musica non cambia: ci sono ragioni da una parte e dall’altra.

Per tentare di capire di più (o per complicarci la vita), è utile spostare l’attenzione dal testo al contesto. Michele Salvati fonda la necessità di rendere le democrazie più veloci su alcuni “passaggi storici epocali” (Il Mulino 4/2016) e quella italiana, secondo lui, avrebbe bisogno di essere più rapida per tenere il passo coi tempi. Più terra terra, ma non meno interessante, il ragionamento di Bruno Manfellotto su L’Espresso (2 ottobre). “E se vince il no?”, si chiede l’ex direttore del settimanale.
Certamente c’è vita, come qualcuno dice, dopo il 4 dicembre in caso di sconfitta del sì.
Anzi, anche in questo caso ci sono costituzionalisti che rivolgono l’appello del no perché poi sarebbe complicato tornare su norme una volta rafforzate dal consenso popolare, ma ce ne sono altri che dicono l’opposto.

La bocciatura referendaria, questa la lettura, rende possibile lo scenario del “Renzi a casa”, peraltro innescato dall’iniziale personalizzazione che lo stesso presidente del Consiglio ha voluto dare alla questione. Lo vuole la destra e lo vuole quella parte della sinistra che ha visto il ritorno in grande stile di Massimo D’Alema, il cui programma del suo Pds nel 1994 prevedeva una riforma tremendamente simile a quella oggi definita una schiforma e a cui il partito della nazione fa lo stesso effetto della croce per Dracula. Ha detto Enrico Mentana che l’uditorio presente al lancio del comitato per il no dell’ex “lider Massimo” più che antirenziano è parso antidiluviano. Un’ipotesi tutt’altro che di scuola quella della fine dell’esecutivo se prevale il no, visto che sulla riforma il governo ci ha messo tutto il suo peso e che, come ha detto Ezio Mauro, è difficile pensare a Renzi disposto a fare l’anatra zoppa.

Qui le ipotesi si accavallano fra un governo di unità nazionale con lo scopo di fare una nuova legge elettorale, visto l’azzardo di andare a votare con l’Italicum per la Camera e il Consultellum (ossia il Porcellum falciato dalla Corte costituzionale) per il Senato rimasto tale e quale, con lo spettro di due maggioranze diverse e in mezzo le grida di M5S e Salvini che darebbero del traditore al presidente della Repubblica nel caso non se la sentisse di mandare tutti alle urne in queste condizioni.
Come se non bastasse, anche l’Italicum è sotto giudizio della Corte, la quale, non a caso, ha detto che deciderà dopo il referendum e in tanti non si aspettano buone notizie. Sarà anche per questo che dopo l’iniziale “va bene così” ora pare riaprirsi il discorso sul piano politico. Nel ritorno in pompa magna di sua maestà l’ignoto, è comprensibile che il capo dello Stato stia reclamando la messa in sicurezza dei conti pubblici (si approvi prima la legge di stabilità), senza contare che nel frattempo c’è una parola sussurrata con sospettosa insistenza: proporzionale.

Si fa strada la tentazione di un ritorno alla legge che, si dice, garantirebbe la più diretta rappresentanza degli elettori. Lo ha detto anche il costituzionalista Massimo Villone in un recente dibattito ferrarese timbrato cinque stelle: il proporzionale ha consentito l’approvazione di leggi italiane di grande contenuto civile. Il professore ha dimenticato di ricordare che è il sistema di voto che ha sorretto anche il pentapartito, dal patto del camper che inaugurò il Caf (Craxi-Andreotti e Forlani) nei primissimi anni ’80, fino alla deflagrazione di tangentopoli nei primi ’90. Un decennio e oltre, fra i cui frutti più velenosi ci ha lasciato in eredità l’everest di un debito pubblico fra i primi al mondo e che nessuno sa come abbattere.

Un sistema rivelatosi esattamente all’opposto della rappresentanza popolare, perché i partiti fecero e disfecero alleanze, maggioranze e governi, prescindendo dalle volontà di voto.
Esteso è quindi il fronte del no, scrive Manfellotto, “ma non ha un leader di riferimento e nemmeno una strategia condivisa e – conclude parafrasando Mao Tse Tung – grande è la confusione sotto il cielo del no”.

In parole povere? Speriamo solo di non perderci tutti

Vediamo di seguire la logica e di non farci prendere dal panico. Se non si vuole avere un Senato zavorra, bisogna votare ‘Sì’. Poi però dobbiamo cuccarci quella nuova subcreatura composta di consiglieri regionali potenziati. Per forza. Non si scappa: questa è la legge ‘causa-effetto’. Allora aspetta, forse è meglio votare ‘No’. E rimarrà tutto così com’è. In ogni caso è del tutto inutile: hanno detto in tv che il problema è la legge elettorale. Il Primo Ministro invece avverte che quella di domenica è la nostra unica occasione per smetterla di pagare così tanto i politici. O meglio, così tanti politici, che è un po’ diverso. Quindi che fare? Panico. Aspetta. Ritorniamo al punto di partenza.

Dunque io voglio abolire il Cnel. Oh, su questo non ci piove. Mi ha sempre dato fastidio il nome Cnel. E questo è risolto. Poi continui a pensare. Da una parte togliamo il potere alle Regioni, dall’altro creiamo una nuova casta di consiglieri intoccabili. Di nuovo il panico di prima. Aspetta. Ritorniamo al punto di partenza.

La verità è che questo è un referendum difficile. Non che votare sia mai stato facile. Tuttavia in questo caso c’è qualcosa in più. La complessità è data non tanto dall’indecisione del cittadino, ma dal labirinto di strade e stradine, vicoletti, rotonde, bivi che sono impliciti nel quesito referendario. Se almeno ci avessero lasciato l’illusione di votare pro o contro il Presidente del Consiglio, pro o contro l’Europa. Questo quesito referendario nasconde un mare di questioni, nessuna visione bianca o nera. Bisognerebbe votare per il “Sì, però…” o per il “No, tuttavia…”. Oppure creare caselle apposite come “Ciononostante dico…”, o altre.

Aggiungici che, presentato come è stato presentato dai nostri politici, l’insidioso sopracitato quesito non sembra neppure una domanda vera e propria, ma un ricatto: “Se non voti così sappi che poi…”. Di poche cose siamo certi, una di queste è che entrambe le strade al bivio sono salti nel vuoto, con la complicazione di una legge elettorale non riformata che è come un coltello puntato alla gola.

Noi di FerraraItalia abbiamo deciso di lasciare ai talk e agli altri giornali tutta la retorica politically correct, le pagine equamente separate, i tempi attentamente cronometrati. Abbiamo chiesto a qualche nostro autore di fare ‘coming out’ allo scopo di svincolare il politicamente corretto e di confrontarci a carte scoperte. Non so se ci siamo riusciti, ma di sicuro potremo aiutare un po’ gli indecisi a formarsi un’idea, cambiare prospettiva, buttarsi.

Non sappiamo chi vincerà, noi speriamo solo di non perderci tutti.

Gli effetti del voto sui mercati finanziari

Continuano le sempre meno velate minacce alla stabilità economica dell’Italia in riferimento all’esito del referendum ma anche, come scrive qualcuno, semplicemente perché la speculazione agisce dove trova terreno fertile per aumentare i guadagni e quindi prescinde dal referendum stesso.

Probabilmente sono vere entrambe le visuali, ma a questo punto sarebbe interessante capire come funziona questa speculazione.

Il punto centrale sono i rendimenti dei BTP, rendimenti condizionati dalla variazione su acquisti o vendite degli stessi che conseguentemente determinano l’interesse. Importante è sapere che:
– i BTP offrono rendimenti a tasso fisso e questo rende possibili le considerazioni che faremo di seguito;
– sulla quota del debito pubblico italiano incidono per circa 1.600 miliardi e quindi è su questa somma che agisce la speculazione.

La speculazione si può fare sia se l’interesse sulle nuove emissioni aumenta sia se questa diminuisce perché in entrambi i casi esiste un mercato secondario sul quale questi titoli possono essere sempre messi in asta. Di conseguenza se il rendimento sui nuovi BTP si abbassa, quelli che ne hanno acquistati ad un tasso di interesse maggiormente remunerativo possono rivenderli complicando la vita a chi ne sta vendendo di nuovi. Se l’interesse proposto sui nuovi è più alto, chi ha acquistato a meno può rivendere abbassando il valore stesso del BTP in suo possesso in modo che per chi compra sia indifferente comprare il nuovo o il vecchio.

Per una spiegazione più approfondita ho trovato questo articolo a cui rimando, perché qui si cerca semplicemente di fare informazione corretta http://www.comeinvestiresoldi.it/bot-e-altri-titoli-di-stato/btp-valore-nominale/ oppure http://www.comeinvestiresoldi.it/bot-e-altri-titoli-di-stato/investire-in-btp/

Il governatore della BCE, Mario Draghi, come si sa sta acquistando Titoli di Stato italiani nella misura di circa 9 miliardi al mese che fanno circa 108 miliardi in un anno con l’operazione denominata Quantitative Easing e che è prevista fino al 2017 ma che sembra possa anche continuare (inizialmente, si precisa, il programma prevedeva una durata di 19 mesi e acquisti per 60 miliardi all’anno e la quota riservata all’Italia in totale era di 167 miliardi. Poi è variata la quantità mensile, portata a 80 miliardi, ed esteso il periodo lasciando incertezza sulla durata finale). Avverte però in questi giorni “pre – referendum”che tali acquisti sono finalizzati all’aumento dell’inflazione e quindi, seppur assicura che nel caso di vittoria del no saranno effettuati acquisti supplementari ciò avverrà solo per qualche settimana. Sarà il MES (ESM) a doversi occupare di eventuali altre e successive necessità.

Cosa vuol dire questo? C’è una bella differenza tra un acquisto effettuato da una Banca Centrale e un acquisto effettuato dal Fondo di aiuti per gli Stati dell’eurozona istituito con il MES.

Primo caso: una Banca Centrale può effettuare tutti gli acquisti di BTP che vuole perché è l’unico Ente che può andare in negativo senza conseguenze (dichiarazioni in tal senso chiarificatrici dello stesso Draghi che potrete trovare qui https://m.youtube.com/watch?v=mA2cK83SeQw ). Una Banca Centrale spende e non deve dar conto a nessuno se non allo Stato da cui dipende (e qui il primo problema: da chi dipende la BCE?). Nel suo “bilancio consolidato” gli acquisti di BTP effettuati sul mercato vengono semplicemente annullati e causano un abbassamento del debito pubblico, e qui spiego. Se io ho un debito con Tizio e a ricevuta di questo debito gli do un foglietto con su scritto “alla scadenza ti ridarò la cifra x”, quando estinguerò il mio debito lui mi ridarà quel foglietto. La mia obbligazione è estinta, prendo il foglietto e lo strappo, non esiste più.
Vedere per questo il bilancio della Gran Bretagna degli ultimi anni che si è ricomprato qualche centinaio di migliaia di sterline del suo debito e di conseguenza lo ha annullato dal suo bilancio (potete scaricare da qui un paper molto interessante sull’argomento www.monetazione.it/DocumentiScaricabiliCobraf/77_PDF.pdf oppure cercare qualche dichiarazione di Claudio Aquilini Borghi o altri, insomma affermazioni documentabili e dimostrabili).
La domanda è: perché il nostro debito continua a salire nonostante gli acquisti della BCE effettuati a mezzo Bankitalia da qualche anno? E perché Draghi ci rimanda al MES? di seguito.

Secondo caso: quando il MES acquista titoli pretende garanzie a supporto e prevede penalità. Della serie, abbiamo una Banca Centrale che può fare quello che dovrebbe fare per istituto ma non qialcuno decide diversamente. Perché? Perché la filosofia dell’euro, dei trattati europei e delle sue istituzione è che noi dobbiamo sempre agire sul mercato libero, tenere fuori gli Stati, ognuno deve fare per se e il debito non deve essere estinto (altrimenti di cosa vivrebbero i mercati?). Ai lettori il giudizio sulle convenienze di questo sistema!

Cerchiamo ora di collegare il tutto di nuovo alla proposta riforma costituzionale e al referendum del prossimo 4 dicembre. Il tutto, nell’ottica di comprendere bene i messaggi che vengono lanciati attraverso TV e giornali dai nostri rappresentanti politici, cioè alla ricerca del messaggio reale dietro le parole.

Per farlo bisognerebbe sempre stare negli spazi o tra le righe, facciamo un esempio semplice andando a pescare una dichiarazione di Renzi: “Il giorno dopo il referendum, se le cose andranno bene, chiederò al Parlamento di mettere il veto sul bilancio europeo se l’Unione non cambia atteggiamento sulla politica sui migranti. Sull’immigrazione bisogna voltare pagina”.

Che bisogno c’è di aspettare l’esito del referendum per fare un’operazione del genere? Se si è ravvisato la scorrettezza del bilancio europeo si contesta a prescindere e in virtù dell’interesse nazionale. Con questo atteggiamento invece il messaggio è chiaramente ai soli fini elettorali e di interessi personali: faccio se votate per me, altrimenti…

E dello stesso tenore il Ministro Gentiloni: “Il referendum domenica in Italia non riguarda soltanto alcuni aggiustamenti del funzionamento delle istituzioni del paese. Le poste in gioco sono molto più elevate e riguardano l’Europa intera. L’approvazione di queste riforme stabilizzerà il nostro paese e accelererà ulteriormente il cammino delle nostre riforme”.

Negli spazi o tra le righe c’è scritto anche qui altro. Che in realtà le nuove regole previste dalla riforma costituzionale non sono importanti per il nostro Paese ma per la sua integrazione nel sistema europeo, comprese le storture che abbiamo visto sopra e compresa la speculazione finanziaria. Quindi la stabilità significa che tutti questi meccanismi saranno ancora più automatici e grazie alle previsioni dei nuovi art. 55 e 70 e 117, grazie ai quali i Trattati Europei salgono a rango Costituzionale, sarà molto più complicato discostarsene.

Interessi dei cittadini e interessi portati avanti dai riformatori sono completamente agli antipodi. Di questo non se ne parla, ovviamente, ma si va avanti per spot e problemi marginali.

Ultima nota sullo spread, che comunica da solo in quanto tale e in forza semplicemente di un numero. In questi giorni sta salendo ed è arrivato a quota 190, ne ho già scritto su queste pagine poco tempo fa per cui non mi ci soffermo più di tanto. Se si eliminasse la speculazione o se semplicemente la si controllasse tramite operazioni di banche centrali che acquistino nella maniera descritta sopra e se a corredo i parlamenti nazionali o addirittura a livello di parlamento europeo (ops: il parlamento europeo non può fare leggi!!!) facessero delle leggi contro la speculazione sugli stati mettendo l’interesse nazionale e dei cittadini davanti agli interessi della finanza. In questo caso: lo spread sarebbe un problema?

Lo spread è un problema e lo sarà fino a quando si vorrà che lo sia così come la speculazione. Semplice. Ora si capisce perché mi piace pensare, e dire, che basta un NO, non per rimanere fermi ma per pretendere un serio cambiamento.

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