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Giorno: 26 Gennaio 2016

Onde anomale nel mare dei big data

Tutti sono convinti di vivere nella società dell’informazione, pochi riescono a coglierne le caratteristiche profonde, pochissimi sono in grado di capire fino a che punto potrà spingersi il processo di informatizzazione e quali conseguenze potrà comportare per la società e la cultura del futuro. Fatto è che, parlando di informazione, quasi tutti pensano ai contenuti che vengono trasmessi dai vecchi e dai nuovi media, pochi riflettono sugli scopi che gli attori sociali perseguono nel produrli e nel diffonderli, e ancor meno pensano ai significati che essi veicolano e generano nell’interazione con i fruitori. Certo è che viviamo immersi in un mare di informazioni e che la soglia da superare per catturare l’attenzione delle persone diventa sempre più alta proprio perché ognuno elabora meccanismi di selezione e di difesa indispensabili per dare senso al proprio ambiente di vita. Vivere in questo ambiente ci mette di fronte per esperienza diretta al rumore e all’ambiguità caratteristica della società dell’informazione; ci rende consapevoli nostro malgrado dei limiti che abbiamo come sistemi biologici di elaborazione di informazione nell’affrontare questa complessità caratteristica dei nuovi ambienti di vita.
In tale situazione possiamo pensare il mondo come un’enorme biblioteca, un archivio che si autoalimenta per le azioni stesse dei suoi utilizzatori, un deposito culturale che contiene in forma digitale infinite informazioni che nessuno potrà mai attingere e dominare completamente. Contrariamente all’inquietante biblioteca fisica di Borges la digitalizzazione consente a tutti e ad ognuno di essere sia produttori che consumatori in un processo che ne fa aumentare esponenzialmente l’ampiezza. In linea di principio la mega biblioteca digitale che si alimenta è un prodotto collettivo su scala planetaria, un potenziale bene comune di cui allo stato attuale si ignorano ancora i limiti e i reali utilizzi. E’ un bene utilizzabile allo stesso modo del linguaggio che ognuno di noi impara quando viene al mondo.

Questa prospettiva rappresenta tuttavia solo una piccola parte del problema e, a ben vedere, neppure la più importante. Accanto e dietro a questi flussi di informazioni palesi (almeno potenzialmente) esistono giganteschi depositi di informazioni incorporate nei manufatti, nelle tecnologie, nelle organizzazioni, nelle istituzioni, nei reperti storici ed archeologici, nelle istituzioni deputate alla scienza e alla conoscenza, nelle grandi burocrazie. Soprattutto esistono e crescono esponenzialmente le informazioni che noi stessi produciamo senza averne precisa coscienza: ogni interazione che abbiamo con qualsiasi dispositivo digitale, ogni clic sulla tastiera del pc, ogni uso della carta di credito, ogni fotografia o videoclip, è informazione che viene restituita al sistema tecnologico: in internet nulla va perduto e si sta creando dunque un enorme deposito dinamico di informazioni che continua a crescere e a svilupparsi in seguito alle azioni quotidiane svolte da miliardi di persone, milioni di aziende e Amministrazioni, decine di miliardi di dispositivi connessi nel cosiddetto internet delle cose (Iot) che è in grado di raccogliere informazioni in modo automatico. Non si tratta più dei meri contenuti ai quali siamo abituati a pensare ma di bit, tracce, processi, segni, localizzazioni, data point granulari che consentono di qualificare e posizionare nel tempo e nello spazio ogni tipo di contenuto, in grado di gestire qualsiasi tipo di processo: è il tipo di informazione che consente il funzionamento del navigatore dell’auto, il riconoscimento automatico delle nostre preferenze in qualsiasi negozio digitale, la precisione micidiale di un missile militare…
In quest’ottica possiamo immaginare il mondo come un’immensa matrice digitale alimentata da una enorme e crescente rete di connessione materiali che, poco alla volta, si sovrappone e per certi versi sostituisce l’ambiente naturale.

Questa colossale disponibilità di informazioni è davvero rivoluzionaria anche se l’impulso dal quale scaturisce ha radici molto antiche. L’esigenza di dati è nata con l’affermarsi dei grandi imperi e con le necessità di controllo delle burocrazie statali; con l’età moderna e la nascita della scienza fondata sull’osservazione, l’esperimento e la matematica, l’importanza dei dati è andata crescendo: proprio la difficoltà e il costo della raccolta di buone informazioni rappresentava (e in molti casi rappresenta ancora) un vincolo sostanziale per la produzione scientifica, l’amministrazione statale e la gestione di grandi imprese. Non a caso per aggirare questa difficolta i primi statistici avevano messo a punto le tecniche di campionamento che consentono a tutt’oggi di individuare pochi casi, studiarli ed estendere le conclusioni all’intero universo con un ristretto e prevedibile margine di errore.

Anche in questi contesti la digitalizzazione irrompe con una potenza devastante e rivoluzionaria: per la prima volta nella storia il problema non è più solamente quello di produrre direttamente le informazioni che servono strappandole con fatica dai contesti naturali ma, piuttosto, quello di selezionare e combinare informazioni già esistenti per generare qualcosa di nuovo. La straordinaria quantità di dati disponibili cambia radicalmente il panorama: le scienze sociali per prime sono messe in crisi da questi sconvolgimenti che aprono grandi opportunità e per certi versi ne mettono in discussione l’utilità se non proprio il fondamento. Questo passaggio dall’analogico al digitale, dal qualitativo al quantitativo, dai chilogrammi ai bit, è una rivoluzione paragonabile a quella di Gutenberg che passa incredibilmente sotto silenzio; big data è il termine con cui si etichetta questo fenomeno di abbondanza informativa assolutamente nuovo nella storia umana. Con tale termine si designa da un lato l’infinita disponibilità di dati utilizzabili direttamente attraverso i calcolatori e, dall’altro, le operazioni che si possono fare su di essi attraverso potenti algoritmi di calcolo. Queste operazioni consistono nell’applicare la matematica e la statistica ad un universo di informazioni in crescita esponenziale per estrapolare tendenze e probabilità, scoprire strutture sottostanti ed eccezioni, individuare regolarità e storie ricorrenti, trovare nicchie e casi estremi, generare e testare ipotesi e teorie, in modi inaccessibili al costoso campionamento e sicuramente molto più rapidi ed economici.
Potenzialmente non c’è limite alle informazioni che possono essere estratte attraverso gli algoritmi di calcolo; queste possibilità mettono in discussione il nostro modo di vivere e di interagire con il mondo, creano nuove indicazioni o nuove forme di valore con modalità che vengono a modificare i mercati, le organizzazioni, le relazioni tra cittadini e governi, il lavoro. Armati delle interpretazioni prodotte dagli algoritmi digitali possiamo rileggere il nostro mondo con modalità che si stanno appena cominciando ad apprezzare.

Tutti i dati raccolti per uno scopo si prestano ad essere utilizzati anche in altri modi e in questa flessibilità risiede la loro capacità di generare valore. Proprio su questa possibilità si regge la sfida centrata sulla competizione per scoprire il valore intrinseco non ancora espresso dei dati, nel farli parlare. Un valore economico e commerciale enorme che risiede in potenza negli archivi digitali che proprio in questo momento stiamo contribuendo ad alimentare: un valore che attualmente spetta in via quasi esclusiva ai proprietari dei contenitori digitali (basti pensare a Facebook o Google) che possono usare a titolo gratuito i contributi dei miliardi di persone connesse in rete direttamente (ad esempio tramite i social) o indirettamente (tramite i comportamenti rilevati dai sistemi di sensori, i chip etc.).

Nel mondo di big data la noiosa statistica diventa improvvisamente sexy e l’analista di dati (data scientist) diventa la nuova figura di scienziato costantemente impegnato nella ricerca di correlazioni e nella messa a punto di algoritmi matematici sempre più potenti e raffinati. Nel paradiso degli statistici ognuno potrebbe esplorare la matrice digitale per inventarsi un nuovo modo di vivere e di dar senso alla propria vita.
Ma anche gli statistici più visionari già vedono il loro successo minacciato da nuove generazioni di macchine molto più “intelligenti” di loro…

Matisse e don Patruno, oggi…

da: Maria Cristina Nascosi Sandri

Son passati nove anni ormai dalla scomparsa di don Franco Patruno, una delle poche eccellenze intellettuali della ferraresità degli ultimi decenni, avvenuta nel mese di gennaio di 9 anni fa.
Figura indimenticabile, eppure non ricordata mai quanto sarebbe giusto, è comunque facilmente associabile nel ricordo – almeno di chi scrive – ad alcuni grandi della pittura di cui volle occuparsi, molte volte nella vita.
E così accade che anche la mostra aperta da poco a palazzo Chiablese di Torino, ‘Matisse e il suo tempo’, riporti alla memoria alcuni scritti di don Franco ed in particolare quelli sulla religiosità di Matisse e di Chagall pubblicati in un preziosissimo manualetto di molti anni fa, Chagall e Matisse: due templi della spiritualità in Provenza, edito da Book , in cui descriveva da par suo le sublimi opere matissiane racchiuse nella Chapelle du Rosaire, la Cappella Matisse a Vence, in Provenza, raro esempio di arte totale e mono-autoriale.
La mostra di Torino è curata da Cécile Debray del Centre Pompidou di Parigi, il catalogo pure è a cura sua, pubblicato da 24 ore Cultura e sarà in parete fino al 15 maggio 2016: sarebbe stata particolarmente grata a Patruno – conoscendolo – perché il suo fil rouge descrive una sorta di ‘spirito del tempo’, quello che unisce Matisse e gli altri artisti e che coinvolge momenti finora poco studiati, come il Modernismo degli anni Quaranta e Cinquanta.
Racconta, infatti, del legame tra il pittore ed altri pittori suoi contemporanei.
Esposte nelle sale torinesi cinquanta opere di Matisse (quadri, sculture e le 20 tavole «Jazz» realizzate con la tecnica dello stampino) e 47 altri artisti, tra cui Modigliani, Severini, Mirò, Gris, Dufy, Le Corbusier, Masson e Braque.

A proposito del lavoro per Jazz, Matisse ebbe a dire:
Ho realizzato queste pagine di scrittura per pacificare le reazioni simultanee delle mie improvvisazioni cromatiche e ritmiche, pagine a formare come un ‘fondo sonoro’…

Alcune tra le venti tavole del testo di Jazz erano state esposte e presentate ad Artelibro di Bologna, nel settembre del 2012, nell’edizione in fac-simile della Electa: lo splendido libro di Henri Matisse è, senza dubbio, il più bel libro d’artista pubblicato nel corso del Novecento.
Uscito nel 1947 da Tériade, raffinato editore d’arte parigino ( lo stesso della rivista Verve ), fu stampato in tiratura limitata, solo 250 copie. Quelle oggi ancora in circolazione, in alcuni musei e presso collezionisti privati, hanno un inestimabile valore di mercato.

LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Cittadini della Terra felici e responsabili

Ci sono espressioni che faticano a scomparire. Una di queste continua ad accompagnare la vita degli studenti: è “libro di testo”. Non un “libro” e basta, ma libro “di testo”. Un po’ come dire “libro libro”, quasi il libro per eccellenza, naturalmente dopo il libro del libri, la Bibbia.
C’è però chi ha pensato a un libro di testo per una scuola mondiale che, sventolando la bandiera dell’umanità, insegni a vivere una vita lunga e felice. Si chiama “Humanity”: non propone nozioni, ma itinerari didattici da realizzare in classe, temi di ricerca e di riflessione, indirizzi di siti web da consultare, da cui scaricare materiali o farsi coinvolgere dalle attività suggerite.
L’ha proposto, già diversi anni fa, nel 2007, il pedagogista statunitense Joel Spring, nel suo libro “A new paradigm for global school systems”, mai tradotto nel nostro Paese.
Di qui, a mio avviso, dovrebbero prendere l’avvio i curricoli nostrani di educazione alla cittadinanza attiva. Se non si è formati a una cultura del mondo e di una vita che vale la pena di vivere, perché è quella desiderata, perché merita che tutti si operi affinché essa sia lunga e felice per ciascun essere sulla Terra, tutto il resto perde di significato.
Produzione e consumo non sono il massimo per garantire all’umanità una vita lunga e felice. Ogni giorno pezzi di questo sistema mostrano la loro fragilità e i danni che arrecano alla nostra esistenza. Ciò nonostante le nostre scuole continuano a educare le giovani generazioni in funzione di questo modello economico e sociale, che non ci promette né una vita lunga né una vita felice.
“Humanity” propone agli insegnanti e agli studenti di ogni età di riflettere, lavorando per grandi aree i cui titoli sono di per sé stessi significativi:
1. Il mondo in cui viviamo
2. C’è abbastanza cibo per tutti?
3. Il nostro prossimo
4. Che cosa vogliamo e di che cosa abbiamo bisogno?
5. Diritti umani, tutela della vita e felicità
6. Scegli la tua vita.
Già da come si presenta è chiaro l’obiettivo formativo di “Humanity”: educare le nuove generazioni alla responsabilità che ogni essere umano porta nei confronti della Terra e della vita su di essa, alla responsabilità circa le conseguenze delle nostre scelte e dei nostri comportamenti, a partire da quelli nei confronti dell’ambiente per finire con quelli che riguardano la produzione e i consumi.
Un’educazione alla cittadinanza attiva mondiale, non solo europea o locale, la cui portata appassisce, se per prima non sentiamo la responsabilità di essere cittadini del pianeta.
I percorsi che Spring propone, lasciando poi libertà di adattamento alle singole realtà ed esigenze didattiche, sono olistici e transdisciplinari, rimandano alla ricchezza di materiali offerti dai siti web delle Nazioni Unite sull’ambiente, il cibo, la povertà, i diritti umani.
Nelle nostre scuole l’educazione alla cittadinanza attiva, che ha sostituito la vecchia educazione civica, fatica a trovare una sua collocazione, innanzitutto perché non ha una quantificazione oraria e, da questo punto di vista, è una non-disciplina. Non sarebbe neanche un male, se però vivesse un’effettiva transdisciplinarità, cioè attraversasse e oltrepassasse tutte le discipline, offrendosi come occasione per gli studenti di comprendere la complessità del nostro mondo, restituendo nel contempo quella unitarietà al sapere umano che a scuola si perde nella distribuzione per materie.
Spring con “Humanity” ci riesce e qualcosa di molto simile potrebbe essere realizzato nel nostre scuole a tutti i livelli, l’autonomia conquistata dagli istituti scolastici oggi lo consente. Non solo, quell’ora di attività alternativa all’insegnamento della religione cattolica, che troppo spesso resta vacante, potrebbe prevedere a regime un curricolo come quello che Spring propone con “Humanity”.
Offrire agli studenti conoscenze e capacità per essere cittadini attivi nell’assicurare le condizioni ambientali, economiche e sociali alla base di una esistenza lunga e felice, aiutandoli a comprendere quale vita desiderano vivere e cosa in questo potrà aiutarli.
Il capitolo finale del volume, “Scegli la tua vita”, richiama il concetto di “capacità” di Amartya Sen. Sen definisce l’eguaglianza o l’ineguaglianza sociale a seconda della capacità che le persone hanno di condurre un tipo di vita che valga e abbia ragione di valere. Essere capaci di vivere la vita che si desidera influenza direttamente la nostra sensazione di benessere, mentre l’incapacità a vivere la vita che si è desiderata produce stress, con conseguenze sulla longevità e sulla salute individuale.
Joel Spring dimostra che è possibile un nuovo modello di scuola mondiale, che è possibile una scuola che insegni a vivere a lungo e felici, suggerendo un prototipo di eco-scuola dalla parte dell’uomo e del suo ambiente, dove si apprende a essere cittadini della Terra imparando a difendere e tutelare i diritti della biosfera e dell’umanità intera, per sostenere la felicità e il benessere di ogni persona, dal personale della scuola, agli studenti, alle nostre comunità. Forse di qui potrebbe iniziare la nostra guerra pacifica contro ogni terrore e fanatismo.

La versione italiana di “Humanity” è scaricabile dal blog Istruireilfuturo.

LA NOTA
A Palermo l’orgoglio di chi crede nella propria città

Palermo sta cambiando; in meglio. Per esempio: si stanno aprendo importanti zone pedonali, è attivo il car-sharing, gli autobus sono frequenti (il 101 ogni tre minuti) e si introducono i tram. Per non parlare poi delle osterie in cui i profumi e i colori si sommano ai sapori dei loro piatti.
Passeggiare è piacevole, e non solo seguendo le indicazioni delle guide turistiche. Sono interessanti le Sale al Genio, che ospitano una mostra privata di maioliche di grande interesse, in cui si apprezza lo spirito del valore conservativo e non del mercato. La chiesa dello Spasimo, che cerca di ritrovare il suo fascino in un quartiere antico quanto difficile, la Kalsa, rappresenta bene il contrasto mistico tra decadenza e resilienza. L’ho visitata con una simpatica guida che ne ha parlato con orgoglio e competenza. In zona ho visitato l’orto botanico, che ha piante meravigliose di tutto il mondo; la natura si sa difendere contro l’incuria. Ho visto tanti palazzi, tante storie. A palazzo Steri, ora rettorato, ho visitato le celle dell’inquisizione la cui storia mi è stata raccontata con grande impegno da una giovane guida: anche in questo caso sentivo l’orgoglio palermitano di chi crede nella propria città.

E’ bello sentire i siciliani che credono nel futuro e che sperano un giorno di vedere valorizzata la loro storia. Molti sono costretti a lavorare fuori, ma sperano di tornare. Anche l’emozionante quadro di Guttuso tornato dell’Expo, la “Vucciria”, è una meraviglia. Curioso come sua moglie Mimese, quando andò a vivere a Palazzo Galati fece togliere un bel mosaico con un pavone perché uccello portatore di sventura. Ora nel palazzo restaurato c’è un B&B che consiglio perché ti godi una sincera ospitalità, ti svegli con una bella fetta di torta e guardi la terrazza di fronte al teatro Massimo.

Insomma io credo che la nostra bella Italia abbia tanti posti fantastici da vivere come se fosse (perché lo è) casa nostra e in particolare con i siciliani che credono in un mondo migliore.

Questa sì che è vita

Urla, scherzi, giochi e risate. Com’è bello essere bambini e divertirsi follemente con gli amici… uhhmmm che invidia.

Ebbene, questi bambini vivono in un orfanotrofio del Kerala gestito da suore, alcuni hanno una famiglia che vive lontano e non si può curare di loro, altri sono soli al mondo. Eppure che sorrisi, che felicità. Questa sì che è vita.

In foto: bambini dell’orfanotrofio “Shanti” (sì, come l’amica di Mowgli nel Libro della giungla), che si trova nella regione del Kerala, nella foresta vicino a Mangalore, in India. La foto è stata scattata da un ferrarese che sta visitando gli orfanotrofi della zona.

Immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

 

La maestra

26 gennaio 1876: nasce Alda Costa, maestra elementare ferrarese socialista e antifascista. Durante la Prima Guerra Mondiale si rifiuta di accompagnare i suoi scolari alle manifestazioni patriottiche in nome di una scuola umana e universale. Nel 1926, Alda rifiuta di giurare fedeltà al regime; quando le perquisiscono la casa e vi trovano il ritratto di Matteotti assassinato due anni prima.
Trasferitasi a Milano, viene arrestata e confinata prima alle isole Tremiti e poi in un piccolo paese della Basilicata.Rientrata a Ferrara dopo il confino, continua nella sua attività antifascista, finché un agente dell’ Ovra la arresta. Il 25 luglio 1943 viene liberata, ma gli amici non la riconoscono: i patimenti l’hanno ridotta a uno spettro. Viene nuovamente arrestata nella “lunga notte” del 15 novembre 1943 e portata in carcere a Copparo, morirà nell’ospedale locale il 30 aprile 1944.
Giorgio Bassani è uno dei giovani antifascisti che frequentano la casa della maestra elementare ferrarese, a lei è ispirato il personaggio di Clelia Trotti, la protagonista di una delle “Cinque Storie Ferraresi”.

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Giorgio Bassani

Bruno la guardò in viso. Ma i suoi occhi intensamente azzurri, fermi e asciutti sotto le grige sopracciglia aggrottate, erano pieni di speranza. (Giorgio Bassani)

Eddie, il re del ‘tapping’

Auguri a Edward Lodewijk van Halen, conosciuto da tutti semplicemente come Eddie van Halen, che oggi compie 66 anni. Cofondatore e storico chitarrista dei Van Halen, Eddie viene annoverato come uno dei chitarristi che più hanno influenzato le giovani generazioni; l’innovativa tecnica del tapping – il suonare ovvero una chitarra con entrambe le mani sulla tastiera – da lui perfezionata, ha fatto scuola e inciso profondamente le sonorità rock e heavy metal della musica contemporanea.

Ogni giorno un brano intonato a ciò che la giornata prospetta…

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