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Giorno: 2 Aprile 2015

Caviale del Po: ritrovamento di un cibo favoloso

Un cibo che sembrava estinto. La ricetta seppellita in un manuale del Rinascimento di Ferrara. A farla rivivere, nel primo ’900, arriva una signora che gestisce la rosticceria del quartiere ebraico cittadino, ma le leggi razziali la obbligano a chiudere. Quel piatto – adesso – torna a prendere forma e sapore grazie alla testardaggine di un’altra signora. Protagonista di questa avventura con tante peripezie a cavallo dei secoli è il caviale del Po: un nome altisonante e misterioso, che evoca tavole imbandite per commensali esclusivi, ma che si lega anche al nome del fiume che impregna questa terra. La fonte primaria che dà sostanza alla specialità è il pesce storione, estinto dal Po, spazzato via dai miasmi delle acque del grande fiume corrotto e invaso da nuovi predatori, e quindi impossibilitato a crescere e concepire quelle uova così preziose. Insomma, un piatto avvolto da un alone di mistero, riportato in tavola a dispetto di difficoltà dure come quelle leggi terribili e come un disastroso capovolgimento ambientale.

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Cristina Maresi al Mercato della terra di Slow food, a Ferrara, con la produzione del suo caviale del Po (foto Sara Cambioli)

Il libro e l’incontro. Sapore perduto che riemerge dall’archeologia culinaria e si offre a forchette ambiziose, raffinate, curiose. A raccontare il rocambolesco ritorno di questa pietanza è Michele Marziani che ci ha scritto sopra un libro – “Il caviale del Po” – e lo presenta giovedì prossimo, 9 aprile, a Ferrara. A riproporne la sostanza è invece la cucina di quella signora che l’ha voluto realizzare oggi, a costo di andarsi a prelevare le uova da un allevamento sperduto di questa specie ittica, dopo essersi assicurata l’insegnamento dell’ultima delle sue cuoche. La signora che lo fa è Cristina Maresi – che ne parlerà giovedì insieme all’autore del libro – e che fa rivivere la pietanza citata dal famoso cuoco della corte estense, Cristoforo Messisbugo. Lo produce nel suo agriturismo di Runco (vicino a Portomaggiore) e lo mette in vendita quasi tutti i sabati al Mercato della Terra organizzato da Slow food sui baluardi di viale Alfonso d’Este, a Ferrara.

Il pesce storione. In comune con quello celebrato dai ricevimenti alla James Bond, il caviale del Po ha il fascino, il costo elevato e la raffinatezza; ma non bisogna aspettarsi di vederlo così smaccatamente a palline e nemmeno di assaporare la specialità cruda e soda sotto ai denti. Perché il caviale locale è una preparazione cotta e più omogenea, condita e centellinata – come il suo omologo “global” di origine russa – sopra a tartine di lusso. Entrambi i caviali si fanno con le uova dello storione di specie ladano, meglio conosciuto come beluga. In Italia il pesce spazzato via dal Po è stato re-impiantato a Santa Cristina di Treviso, 120 chilometri sopra a Ferrara, nelle vasche predisposte con un fondale ghiaioso e riempite dalle acque vicine alla sorgente del fiume Sile.

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Caviale di storione imbandito in occasione del Carnevale rinascimentale 2015 (foto dal portale del Carnevale rinascimentale di Ferrara)

Scalchi, rosticciere e cuoche. La prima notizia della cattura e della lavorazione dello storione è datata 1° gennaio 1501, quando serve per imbandire il pranzo di nozze di Alfonso I d’Este con Lucrezia Borgia. A dare testimonianza scritta della preparazione del favoloso caviale del Po è invece il manuale di ricette di Cristoforo Messisbugo, cuoco di corte, intitolato di “Banchetti, composizioni di vivande et apparecchio generale”, edito a Ferrara nel 1549, un anno dopo la sua morte. Un altro libro rievoca quel piatto cinquecento-e-passa anni dopo; è “Il giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani, che menziona la rosticceria di Benvenuta Ascoli, detta Nuta. Negli anni ’30 la Nuta produce e vende il caviale padano alla clientela del ghetto ebraico, nel negozio di via Mazzini accanto alla sinagoga. La serranda della rosticceria è costretta ad abbassarsi a causa delle leggi razziali fasciste, che colpiscono i cittadini di origine ebraica. Nel 1940, però, la rivendita alimentare viene rilevata da Adolfo Bianconi, ex garzone della Nuta, che torna a produrre e vendere il caviale del Po insieme con la moglie Matilde Bianconi, detta Tilde. A cercare di tenere viva la memoria di preparazione del piatto entra in scena la passione di un notaio buongustaio, Enrico Brighenti, che si accorda con la signora Bianconi perché passi la ricetta alla sua cuoca, Giuseppina Bottoni.

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Il negozio della Nuta in un’immagine storica (foto dal sito dell’agriturismo Le Occare di Cristina Maresi)

Qui il filone di continuità della storia sembra interrompersi. Finché Giuseppina non fa da maestra-cuoca a una nuova aspirante cheffa, che è Cristina Maresi. La signora si incaponisce su quel piatto e si mette a cercare gli storioni. Li trova, ma deve aspettare che uno di quei grandi pesci faccia le uova. Finalmente una telefonata interurbana le annuncia che lo storione ha deposto il prezioso carico. E lei esegue le istruzioni tramandate dalla Nuta a Tilde fino a Giuseppina e indicate dal leggendario scalco ducale: “Ponerai le uova nel forno che sia onestamente caldo per spazio di due pater noster”. Preghiera esaudita. Il caviale del Po torna sano e salvo.

L’appuntamento. Per conoscere meglio questo cibo c’è un incontro che fa parte della rassegna su “Il mito di Ferrara”, organizzata dalla Pro loco estense. Dedicato al Caviale del Po l’appuntamento di giovedì 9 aprile alle 17 nella sala dell’Arengo dell’ex palazzo ducale, ora sede del Comune di Ferrara, piazza Municipale 2.

I giorni dell’ira. L’ultima settimana di guerra dell’esercito di Mussolini

Molti i documenti inediti italiani e tedeschi, più di 200 i titoli consultati dall’esperto di storia militare Andrea Rossi che con il suo quarto saggio “Il gladio spezzato”, la mostrina dei repubblichini, ricostruisce l’ultima settimana di guerra, dal 25 aprile al 2 maggio del 1945, dell’esercito di Mussolini. Nel libro (edizioni D’Ettoris – collana Biblioteca di Storia sociale italiana), che sarà presentato il 16 aprile, alle 16.30, al Museo del Risorgimento di Ferrara, lo storico indaga tradimenti, ingenuità, voltafaccia, doppi giochi e atti di valore che ebbero come protagonisti i soldati della Repubblica di Salò, una decina dei quali vennero fucilati sulla sponda del Po dai partigiani ravennati di Bulow, Arrigo Boldrini, ad Ariano Ferrarese.

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Andrea Rossi

“Una vicenda poco nota – spiega Andrea Rossi – I repubblichini furono disarmati dai ferraresi e consegnati ai ravennati, i quali avevano diversi conti da regolare come dimostrano gli episodi drastici di cui furono protagonisti durante la risalita in Veneto. Il loro agire è da considerarsi la risposta allo squadrismo romagnolo, che era stato tra i più aggressivi”. Dal canto loro i ferraresi non s’aspettavano l’epilogo immediato e sanguinoso ordinato da Boldrini, tanto che, dice Rossi, “falsificarano il verbale di consegna per prendere le distanze dalla fucilazione”.

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La copertina del libro

In quei sette giorni morirono tra i 4-5mila repubblichini, la variabile volutamente esclusa dalle trattative di resa tra il plenipotenziario delle forze armate tedesche, Karl Wolff e Allen Dulles, del servizio segreto statunitense Oss (Office of strategic service), progenitore della Cia. I tedeschi volevano andarsene dall’Italia senza subire troppe perdite e gli Alleati erano decisi a evitare di restare coinvolti in una guerra “interna” come quella greca tra nazionalisti e comunisti. “I repubblichini erano stati abbandonati – afferma – il duce in fuga verso la Svizzera e i tedeschi indifferenti al loro destino tanto da usarli per coprirsi le spalle e arretrare verso il Brennero. E’ tutto documentato”. Il generale Eccard von Gablenz, alto ufficiale dell’organismo di difesa delle retrovie della 10° armata, si accordò per la ritirata senza farne parola agli italiani e l’esercito di Mussolini, circa mezzo milione di uomini, sprofondò nel caos di una guerra civile – diecimila morti tra militari e civili – riconosciuta come tale solo alla fine del Novecento.

Considerati traditori dal ’43, quando il Regio esercito entrò in guerra con la Germania, i repubblichini rei di aver collaborato con l’invasore tedesco e disorientati dagli eventi, cercarono la salvezza nella diserzione o nella resa ad americani e inglesi per evitare i tribunali straordinari istituiti dal Cln. Il tentativo di evitare la fucilazione non sempre diede l’esisto sperato, il caso dei soldati della Rsi bresciani, che si arresero al Cln di Lumezzane nel medesimo giorno in cui si resero responsabili di una rappresaglia, finì con la fucilazione. “Ci furono anche casi in cui si formarono alleanze dell’ultima ora tra gli alpini di Mussolini e i partigiani, successe a Gorizia dove stavano avanzando i titini e in Val d’Aosta, dove i francesi tentarono l’invasione della valle”, continua. Erano alleanze strategiche dovute alla volontà di mantenere i confini italiani inalterati. E, in qualche modo, limitarono il numero delle vittime del conflitto civile che ebbe pesanti strascichi per i militari dell’Rsi in Piemonte, dove nel Cuneese i morti furono centinaia.

Dettagli, carteggi, eventi minori si inanellano nel libro di Rossi, una vera e propria guida rivolta a chi si occupa o è appassionato di storia militare: “I 200 titoli e i documenti consultati sono un buon punto di partenza per chi desideri approfondire determinati fatti”, dice. Una guida di storia militare, sei anni di lavoro e la consapevolezza che oggi, grazie alla lente del tempo e alle sterminate possibilità di documentarsi, la qualità dei libri di ricerca sia molto più alta rispetto al passato e maggiormente esente da operazioni ideologiche.

Danilo Dolci, prove pratiche di rivoluzione nonviolenta

Alla base dell’operato di Danilo Dolci c’è l’esperienza di partecipazione popolare, attuata soprattutto in quella Sicilia da lui scelta come luogo simbolo per le difficili condizioni di vita, la povertà diffusa ed un degrado urbano giunto al tempo a livelli insostenibili. Un progetto a lungo termine sposato da buona parte di quella stessa cittadinanza allo stremo, riconosciutasi nei valori e negli obiettivi di un uomo che ha deciso di abbandonare tutto, laurea in architettura compresa, per dedicare la propria vita all’attenzione verso i più deboli e gli emarginati. E’ ciò che si ricava dagli interventi di Francesca Leder e Leandro Picarella, ospiti del consorzio Wunderkammer che, nella suggestiva cornice di palazzo Savonuzzi, ha offerto il palcoscenico per un importante evento, tenutosi sabato scorso, dal titolo “Ciascuno cresce solo se sognato” e incentrato appunto sulla figura di Danilo Dolci, attivista della nonviolenza e intellettuale tra i più importanti del dopoguerra, scomparso nel 1997.

Anna Rosa Fava
Anna Rosa Fava

Organizzata da Urban Center Ferrara e dalle associazioni “Basso Profilo” e “Farmacia delle Immagini”, la serata è stata introdotta dall’intervento di Anna Rosa Fava, portavoce del sindaco e responsabile del percorso partecipativo “Ferrara Mia”. Fava ha illustrato le principali attività dell’ufficio Urban Center, oltre che dello stesso percorso di “Ferrara Mia” e i suoi obiettivi nell’ottica della cittadinanza attiva.

Ospiti della serata due personalità la cui attività ruota da tempo attorno alla memoria di Danilo Dolci: la docente del dipartimento di Architettura di Unife Francesca Leder, studiosa di tematiche di urbanistica partecipata e appassionata cultrice del pensiero di Dolci, e il regista Leandro Picarella, co-autore del documentario “Dio delle zecche – Storia di Danilo Dolci in Sicilia” proiettato a conclusione dell’evento.
Nei loro interventi, i due esperti hanno contribuito a tracciare una dettagliata biografia dell’attivista triestino, trapiantato in terra siciliana, soffermandosi sulle principali fasi della sua densa opera, basata su non-violenza, digiuni, scioperi e manifestazioni.

E così hanno ricordato i primi scioperi della fame di Dolci a Trappeto nei primi anni ‘50, DSC_0093simbolicamente scelti per attirare l’attenzione circa la denutrizione infantile diffusa in quelle zone, ma anche gli “scioperi alla rovescia”, incentrati sul fatto che “i disoccupati, al contrario degli operai che decidono di non lavorare, possono altresì scioperare lavorando in questo caso al riordino di strade”. Quest’ultimo fatto provocò, davanti all’incredulità di tutta la nazione, l’arresto di Dolci, poi scagionato, difeso nel processo anche da Piero Calamandrei.

Nel ’57 arrivò la vittoria del Premio Lenin per la pace, accettato da Dolci nonostante il suo rifiuto di avvicinarsi a qualsiasi partito politico e i molti tentativi di avvicinamento da parte di varie fazioni. Parallelamente, in quegli anni, si sviluppava anche il suo impegno nella denuncia del potere mafioso.
Ma Danilo Dolci non fu solamente un’attivista, come hanno testimoniato nei loro interventi Picarella e Leder, specificando i ruoli di sociologo, scrittore e soprattutto educatore che lo hanno reso un personaggio incredibilmente ampio e dalle mille risorse. Soprattutto sul versante educativo, importantissima fu l’applicazione del “metodo maieutico”, consistente nell’idea che “chiunque vada ascoltato, coinvolto e assolutamente non escluso dal confronto, in modo da raggiungere la pura verità”. Questo fu il punto di partenza per altre grandi conquiste di Dolci in terra siciliana, come la realizzazione della diga sul fiume Jato, nata dalla partecipazione attiva dei cittadini, e la nascita del Centro Educativo di Mirto.

Leandro Picarella e Francesca Leder
Leandro Picarella e Francesca Leder

Dopo gli interventi, è stato poi il momento della proiezione del documentario prodotto dal Centro Sperimentale di Cinematografia – Scuola Nazionale di Cinema – Sede Sicilia con registi lo stesso Picarella e Giovanni Rosa. Il protagonista è En Dolci, figlio di Danilo, ripreso durante il suo viaggio dalla Svezia (paese nel quale è cresciuto) alla Sicilia sulle orme del padre. En ha avuto la possibilità di confrontarsi con chi suo padre lo ha conosciuto per davvero, chi con lui ha collaborato e chi lo ha solamente sentito nominare. Particolarmente importanti e significative si sono rivelate le immagini di archivio recuperate dai registi.
Un tributo quindi alla memoria di un uomo che ha sicuramente lasciato il segno in una terra, la Sicilia, che ha trovato anche grazie al suo prezioso contributo la forza di reagire. Un esempio, oggi più che mai, da seguire nella nostra quotidianità e fondamentale per la nostra società, così bisognosa di tornare a dare importanza e centralità alla partecipazione attiva dei cittadini.

Mosca-Kiev, messaggi di vita aggrappati ai muri

Il giovane street artist Timofeï Radya, originario di Ekaterinburg, ha realizzato, durante il mese di marzo, un progetto di scrittura sui muri tra Mosca e Kiev, battezzato “Orientir”. Si tratta di uno scambio di corrispondenze fittizie fra le due città, scritte su alcuni muri fatiscenti delle due capitali. Due immaginari scrittori, anime perse e dubbiose (ma certe di alcuni sani principi), si domandano come uscire dalla grave crisi in atto, che attanaglia e strangola di due Paesi… Perché con le parole impresse sulle pietre magari si riesce a trasmettere un messaggio a chi, passando di lì, non guarda e passa, ma si ferma per un attimo. A pensare. Parole profonde, che lasciano il segno. Un segno.

Di seguito il contenuto del messaggio sulla Trubnaya ulitsa, rivolto a Mosca (nella foto in evidenza)

Sulla fronte
Come pensiamo di salvarci, K [Kiev]? La guerra seduce, è sempre stata alla moda. E’ possibile che la guerra unisca le persone? Sì, ma giusto per un istante, prima di una morte imminente. E’ un onore o un disonore, una simile fine? La verità o un oblio? Assomiglia di più alla liberta o alla morte? Con il tempo, la sporca guerra dei morti diventerà una bella storia dei viventi. Penso che questa sia la più grande truffa.

Nel viso
Un Paese assomiglia al cristallo, a volte nasconde qualche cosa, altre volte, nulla.
La schiavitù dona la vita al vuoto. Fai attenzione alla tua preziosa Patria, per non essere svuotato. Il governo si comporta duramente e tu ti ritrovi fra il martello e l’incudine. Volteggia al suono dei colpi, danza, utilizza questo circolo vizioso, agisci con precauzione ma coraggiosamente e non avrai punti deboli. Meno liberta vi è all’esterno, più essa è forte all’interno. Questa liberta è inattaccabile, la sua fonte è ben nascosta, è impossibile prenderla. La si può solamente vendere più cara, ma non è per questo che abbiamo cominciato, vero? Non per diventare prostitute di lusso, vero?

Negli occhi
Siamo tutti seduti intorno a un tavolo. Uno dei piatti è avvelenato, è una trappola. Ognuno lo sa ma continua a mangiare senza attenzione. Il pane è avvelenato, contiene la più antica delle pesti. Questo tipo di banchetto ha sempre servito gli interessi dei ricchi. Abbandoniamo la tavola. Sii prudente, non lasciarti affascinare dalle parole contaminate e fragili. E quando la nebbia fredda invaderà le strade e avvolgerà le nostre teste, non dimenticare che l’antidoto è nascosto dentro di noi. Noi ci salveremo, K., se resteremo noi stessi.

Questo, invece, il messaggio a Kiev…

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Il murales con scritto il messaggio a Kiev

Come pensiamo di salvarci, M. (Mosca)? Gli accordi non sono più validi. Grandioso vivere più a lungo degli esseri umani. Non c’è nessuna guerra, odio e paura, abbiamo scelto giochi di altri tipi. Boati di cannoni anticarro, occhiali in frantumi, ma i loro colpi non sono nulla rispetto al tuo eterno battito del cuore.
L’immagine del passato trascende attraverso la parte destra. L’immagine del futuro trascende attraverso la parte sinistra. A ogni urto, il cuore spinge in avanti il tempo; non ci sono tempi futuri o passati, sono le immagini dissolte nel sangue. C’è solo il presente, bloccato nel torace. Non ci sono altre storie che noi. Non ti confonderò con nessuno.
Le strade sono le librerie che mantengono la vita all’interno delle case. Le città vivono abbastanza a lungo per servire la vita. Coloro che somministrano la morte, non vivono a lungo. Il sonno della ragione genera mostri. Ho visto interi paesi dire di andare a dormire, tutti in una volta.
Le strade sono le parole che hai mormorato, le piazze sono i segni del tuo silenzio. Mi hai lasciato le città. Sto cercando sopra la mia spalla. Mi hai lasciato migliaia di città, fondendo il tutto in uno. Non ho intenzione di lasciarti andare a dormire.
Ogni incrocio segna un bacio. Prendi il tuo vestito, decomprimi i ponti e gli argini. Lascia le luci della città scivolare lentamente verso il basso e rompersi in mille pezzi. Lasciaci confondere con il buio. La metropolitana è spenta, gli aeroporti sono chiusi, non c’è bisogno di guardare fuori dalla finestra. Siamo solo noi. Niente acqua, nessuna medicina e, grazie a dio, non fai domande all’entrata …. Tu, la catastrofe.
Ci salveremo, M., non andremo mai a dormire.

Fotografie dal sito t-radya.com

Il mondo ‘a la fin del mundo’. Viaggio in Patagonia e nella Terra del fuoco

Luoghi enigmatici animati da personaggi coraggiosi e intraprendenti ritratti dalle migliaia di parole che eccellenti scrittori hanno consegnato alla nostra voracità di lettori curiosi e affascinati. Soggetti che hanno acceso nella mia immaginazione lo stimolo a una bramata esperienza da vivere, nel punto geografico del mondo ancora chiamato “la fin del mundo”.
Charles Darwin, Francisco Coloane, Bruce Chatwin in ordine cronologico di nascita, per diverse motivazioni hanno rappresentato al meglio ciò avrei voluto mi rimanesse scolpito nella mente di questo viaggio. Ma vi è anche un quarto narratore, meno famoso, che a mio parere ha lasciato una traccia profondamente poetica del lembo estremo sudamericano: padre Alberto Maria De Agostini.

Canal Beagle
Padre Alberto Maria De Agostini
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Grande esploratore e fotografo della Patagonia

Nato nel 1883, religioso salesiano, grande esploratore, fotografo e presbitero italiano, padre de Agostini era celebre nell’area perché operava in aiuto agli ultimi indios fueguini, e per le sue grandi esplorazioni della Patagonia e della Terra del fuoco nei primi decenni del ‘900. Da ricordare, oltre alla sua attività di fotografo e documentarista, anche il suo contributo alle scienze naturali e all’antropologia: raccolse minerali e fossili, contribuì attivamente alla classificazione di numerose specie vegetali, approfondì le conoscenze sulla morfologia glaciale delle zone esplorate e descrisse la vita e le tradizioni degli ultimi indigeni.

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Patagonia, Terra del fuoco, Canal Beagle

Un viaggio viene intrapreso frequentemente per percorrere le orme di un esploratore, un mito della propria infanzia o una leggendaria figura della storia; nel mio (nostro) caso (ho condiviso questa esperienza con mia moglie Anna, inizialmente in po’ frenata) molto avviene per un innato e insopprimibile desiderio di scoperta.
Il periodo migliore suggerito per visitare questo triangolo estremo del nostro globo terracqueo è l’inverno del nostro emisfero nord, corrispondente all’estate australe. Previsioni di temperature a Capodanno che si aggirano fra lo 0 °C e qualche grado sotto. Siamo volati da Bologna il 27 dicembre 2010 e, via Roma, siamo atterrati a Buenos Aires con Aerolineas Argentinas 14 ore dopo, dall’altro lato del mondo, dell’Equatore e dell’Oceano Atlantico, alla latitudine della città Sudafricana di Cape Town, a circa 35°C di temperatura (a Bologna avevamo lasciato -5°) e con diverse ore di sonno da recuperare per il fuso orario.

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Buenos Aires, vista aerea
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Buenos Aires, favelas

Il trasferimento verso l’albergo ci ricorda che Buenos Aires dopo la crisi del 2000 ha sì un trend di crescita elevato visibile nelle costruzioni che si innalzano al cielo, ma dove le ‘villas miserias’, più note in Brasile come favelas, incombono drammaticamente. Buenos Aires, che visiteremo in parte anche al ritorno dal sud del Paese, è una città di dimensioni enormi con 12 milioni di abitanti (su 40 milioni totali in Argentina ). La nostra guida ci dice che oltre il 50% degli abitanti ha un cognome italiano, frutto di un esodo dall’Italia che, a cavallo fra ‘800 e ‘900, portò milioni di italiani a solcare l’oceano verso il sogno in Sudamerica ma dove le terze e quarte generazioni dalla grande migrazione hanno perduto oggi il legame con la terra dei padri.

Buenos Aires è la citta della Plaza de Maio e delle migliaia di desaparecidos, è la città del quartiere Caminito dove, fra le case in legno colorate, nei primi anni del ‘900 nasce il Tango (ancora ballato nelle strade), dove si mangia la miglior carne di mucca del mondo cotta all’’asado‘, è la citta del Gran Café Tortoni dal 1958 e del Liberty, ancora esibito e palpitante in tantissimi angoli della città.

Da qui inizia un viaggio verso sud nelle distese apparentemente senza confini della Patagonia, fra migliaia di pinguini di Magellano a Punta Tombo, di guanacos, di albatross, di leoni marini, di foche, di megattere gigantesche che risalgono dal profondo marino per respirare in superficie e farsi ammirare da noi turisti avidi di ogni immagine rubata ad una natura che appare qui resistere.

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Ma lo spettacolo da prima fila è certamente il ghiacciaio Perito Moreno raggiungibile da El Calafate, centro abitato sul lago Argentino trafficato da inquietanti iceberg galleggianti. Il ghiacciaio, alto 60 metri per 250 km quadrati, è immenso e schiaccia la dimensione umana, oltre a prestarsi per un whisky on the rock servito con il ghiaccio centenario recuperato a colpi di accetta, riserva colori e sfumature bianche, blu, turchese indimenticabili, che lascio descrivere alle parole di Padre De Agostini “Lo sguardo si spinge avido attraverso quell’immensa estensione di nevi, di ghiacciai e di giogaie che la cristallina trasparenza dell’atmosfera e la sfolgorante luce del giorno rendono ancora più evidente, e cerco di scrutarne i segreti.” (Alberto M. De Agostini, “Ande Patagoniche”, Vivalda Editori, Torino 1999).

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Terra del fuoco, ghiacciaio Perito Moreno

Una escursione al Parque nacional Torres del Paine in territorio cileno, nell’area andina, ci consente di ammirare senza fiato una natura a colori mai vista prima. Scendiamo a Sud, un percorso di centinaia di chilometri in aereo e in autobus nella piatta patagonica fra distese di pecore e di stupende e isolate ‘estancias’ (fattorie); un’emozione unica attraversare lo stretto di Magellano che separa a nord la Terra dei Patagoni e a sud la Terra del fuoco, e poi ancora verso sud ai confini del mondo dove Charles Darwin imbastiva la sua teoria evoluzionista.

Ecco la Terra del fuoco o Tierra del fuego, così chiamata da esploratori spagnoli cinquecenteschi che videro fra le brume tanti fuochi degli indigeni residenti, esplorata a fine ‘700 dallo scienziato antropologo e naturalista a bordo del brigantino inglese Beagle, comandato dal mitico capitano Fitz Roy, oggi scolpito nella toponomastica cilena con una cima altrettanto mitica per gli scalatori, la cima Fitz Roy inglobata nel gruppo Cerro Torre nella catena andina.
Puntiamo ancora a sud sul Canal Beagle, così chiamato oggi, sul quale si rispecchia la città di Ushuaia posta fra il 54° e il 55° parallelo, città considerata la più a sud del mondo abitato, circondata da alte montagne e raggiungibile attraverso un aeroporto che, visto dall’alto, sembra un minuscolo cordone sabbioso circondato dalle acque del canale. Da non dimenticare l’esperienza gastronomica dell”asado’ (arrosto), il ‘cordero’ o agnello cotto alla brace in vertical, e del Tren del fin del mundo, il vecchio e ottocentesco treno del presidio carcerario per detenuti ai lavori forzati, che oggi consente la visita al Parco nazionale della Tierra del fuego. Il cielo terso e le sue stelle, milioni di stelle (a queste latitudini estreme sono uno scenario notturno indimenticabile e impareggiabile) che padre De Agostini descrive così: “Quando… I nostri occhi contemplano di botto la volta azzurra del cielo dove scintillano migliaia di stelle, l’anima si sente come sorpresa e annichilita, e innalza spontaneamente la sua umile preghiera di adorazione a Dio, sommo Fattore di sì grandi meraviglie.”

Poche miglia più a sud ci sono Capo Horn, con i suoi velieri affondati nelle tempeste e, ancora più a sud, l’Antartide. Ma questa è un`altra storia da raccontare.

Le foto della Terra del fuoco sono di Marco Bonora.

Earthing, grounding, barefooting, ovvero l’arte di camminare a piedi nudi

Va di moda, pare, camminare a piedi nudi. Io lo faccio da sempre, da quando ero piccola, allora per sentire il contatto puro con la terra, libera, ora (anche) per evitare di portarmi in casa batteri o tracce di strade malconce, poco pulite e curate. Ho spesso provato l’incredibile sensazione di camminare a piedi scalzi su un prato o sulla tiepida sabbia del Sahara, la sera, al tramonto (non fatelo… potreste trovare qualche piccolo scorpione…). Aiuta a scaricare la tensione, a sentirsi in contatto con l’essenza della vita.
Jane Fonda camminava “a piedi nudi nel parco”, lei, che, non a caso, è sempre stata una convinta e atletica salutista. Era un gesto di libertà e leggerezza, atipico ma liberatorio. Oggi, scienziati e medici, con relativi e imponenti studi, sostengono l’esercito di passeggiatori che hanno compreso i benefici per la salute di tale piacevole pratica. Che scoperta, direbbe qualcuno. Chi non ama passeggiare sulla chiara spiaggia morbida o sull’erba fresca di un prato o di un bosco, bagnata dalla leggera rugiada?

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A piedi nudi sull’erba

La pratica del ‘grounding’, ossia del radicamento a terra attraverso i piedi, è ben conosciuta nello yoga così come in altre discipline orientali come il T’ai chi ch’uan e il Qi Gong ma alcun scienziati statunitensi, oggi, hanno portato la pratica a un altro livello. Lo scambio diretto tra la nostra pelle e gli elettroni che si accumulano sulla superficie della terra neutralizza, pare, le molecole instabili nel nostro organismo, all’origine di molti danni fisici. Si tratta dei cosiddetti radicali liberi, il prodotto naturale ma tossico di alcuni processi metabolici del corpo umano. Un eccesso di queste molecole cariche positivamente è la causa di una serie di reazioni che provocano distruzione cellulare e invecchiamento, possono indebolire il sistema immunitario e peggiorare le infiammazioni nel corpo. Fino ad ora ci siamo difesi contro l’attacco dei radicali liberi soprattutto attraverso il cibo, mangiando verdure fresche e frutta di stagione. Ma la scienza dimostra oggi che esiste un altro sistema molto efficace e non dispendioso: basterebbe, infatti, camminare per 30 minuti al giorno a piedi nudi per neutralizzare la carica positiva dei radicali liberi, tornare in sintonia con la componente energetica terrestre e in sostanza ricaricare il nostro sistema immunitario. Si può anche dormire sul suolo. Parliamo dell’‘earthing’, una vera carica che arriva dalla nostra Madre terra. Uno studio dell’Università della California Irvine dimostra, inoltre, che praticarlo migliora la fluidità del sangue diminuendo così i rischi cardiovascolari come infarto e ictus, i disturbi del sonno, dei dolori muscolari e articolari, dell’asma. Si tratta di una connessione con la natura, persa negli ultimi decenni, e che ora si vuole recuperare, si vuole evitare ogni strumento d’isolamento dalla crosta terrestre. Per ritrovare piena armonia, energia, equilibrio, naturalezza, empatia e, perché no, libertà, leggerezza e spensieratezza.

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Copertina del libro

Se, invece, parliamo di camminare semplicemente a piedi scalzi (senza quindi riferimento specifico al lato scientifico della connessione con la terra, di cui sopra), qualcuno lo definisce ‘Barefooting’, un’idea che nasce, qualche anno fa, in Nuova Zelanda per poi arrivare negli Stati Uniti e in Italia, dove le persone che lo praticano sono note anche come ‘gimnopodisti’ o ‘nati scalzi’. Si tratta di una vera filosofia di vita che attira le persone che amano vivere, camminare o correre a piedi nudi, riappropriandosi degli spazi naturali e delle sensazioni che può trasmettere al corpo il contatto diretto con il terreno. Anche un adagio tradizionale dei nativi americani recitava “i piedi sani possono ascoltare il vero cuore di Madre terra”, una terra che è sacra ed energetica, aggiungerei. I piedi nudi percepiscono meglio il mondo, questo resta importante. L’obiettivo degli appassionati di ‘earthing’ (che sono tanti, e sempre di più) è, quindi, quello di riconnettere l’intera popolazione mondiale al pianeta. Perché è un piacere e un piacere che fa bene.

Clinton Ober, Stephen T Sinatra, Martin Zucker, “Earthing a piedi nudi. Curarsi con l’energia della terra. La più importante scoperta di tutti i tempi sulla salute?”, Macro Edizioni, 2012, 364 pp.

Dries Mertens, la mia maglietta per l’Africa

Che i social network facciano parte della nostra vita in pianta stabile, abbiamo modo di appurarlo quotidianamente. Che possano essere veicolo di umanità però, non è cosa di tutti i giorni. Solitamente si pongono sui media passioni, attimi di frenesia o semplici pensieri figli di una giornata non proprio positiva.
Tuttavia succede che a volte le piattaforme digitali possano fungere da tramite per veicolare umanità e quando questo capita, è il cuore a parlare e a mettersi in moto. E’ il caso di Dries Mertens, ala 27enne del SCC Napoli, squadra del capoluogo campano iscritta al campionato di Serie A Tim. In campo è un funanbolo, tutto istinto, sulla fascia sinistra della squadra partenopea.
Il centrocampista belga, navigando su Instagram (noto social network dove caricare le proprie foto) si è imbattuto in un’immagine molto particolare. Siamo in Africa, precisamente a Meliandu (nel sudest della Guinea), ci sono una ventina di bambini seduti su alcune panche di legno, stanno assistendo ad una lezione di francese. E’ un’istantanea, inserita all’interno di un progetto sulle conseguenze dell’ebola e dei conflitti armati nell’Africa Nera. Nella foto, scattata da Pete Muller (fotografo di National Geographic, rivista per il quale ha realizzato il servizio), spiccano due elementi sopra gli altri.

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La foto di Pete Muller pubblicata dal National Geographic

I bambini sono attratti quasi folgorati dalla lezione, da tutti quei segni sulla lavagna, in quel momento nulla è più importante per loro (un po’ come succede nelle classi dei nostri istituti italiani, dove schiamazzi e confusione sono all’ordine del giorno…). E poi i colori: lunghe tuniche, camicie azzurre, beige o viola, magliette a righe o quella rossa, in primo piano, con una grande scritta sulle spalle. I colori di un continente che troppo spesso viene sottovalutato, relegato alle questioni di Paese da terzo mondo, sempre più scippato di ogni bene, dilaniato dalle guerre e abbandonato dai più. Spicca una divisa, sulla destra, camouflage. Sembra uno dei “soliti” vestiti dismessi, uno di quei capi “fuori moda” che noi occidentali buttiamo nei cassoni della Caritas come se fossero il peggio del peggio sulla terra… ma per qualcuno sono essenziali. E’ una t-shirt, una divisa di gioco. Precisamente è la divisa del Napoli, della scorsa stagione. Mertens, 14. I caratteri sulla maglietta sono grandi e ben leggibili. Il giocatore non può rimanere indifferente, è stato bambino anche lui. Ha indossato anche lui la “camiseta” di qualche suo idolo. Ma questa volta è diverso, e lui lo sa. Lo sa talmente bene che vuole fare qualcosa per quel suo piccolo grande ammiratore, consapevole o meno che sia.
Da qui la richiesta di aiuto, tramite il suo account Twitter, al canale ufficiale di National Geographic sul medesimo social network: “Aiutatemi a trovare quel bambino, voglio regalargli la maglia di quest’anno”.
Non sappiamo ancora come si risolverà questa bella vicenda, fatta di casualità e attenzione verso il prossimo. Si parla molto della figura dei calciatori, dei loro pochi ideali, della loro propensione ai soldi, alle auto di lusso e alle belle donne. Mertens ci stupisce, e siamo contenti che lo faccia, in un mondo che sempre più sembra chiudersi nella sfera dell’io, c’è ancora qualcuno che riesce a vedere un Noi. Speriamo che possa essere questo un briciolo di luce per un continente spesso definito maledetto come l’Africa, augurandoci che il proposito dello sportivo possa andare a buon fine.

IMMAGINARIO
Simmetrie di confine.
La foto di oggi…

“Supersymmetry” è il titolo della personale fotografica di Fabio Zecchi.

“Ci sono infiniti modi per tracciare confini tra uno Stato e l’altro, e infiniti modi per rimuoverli, accantonarli, metterli da parte. Così un’estate abbiamo deciso di saltare su quei confini, percorrendoli di qua e di là come se fossero una cucitura.”

La mostra si può visitare fino al 6 aprile al Patchanka di Pontelagoscuro che ha da poco riaperto i battenti con la nuova gestione di Giulia e Ares.

OGGI – IMMAGINARIO FOTOGRAFIA

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic sulla foto per ingrandirla]

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foto di Fabio Zecchi

Vita di contrada
I musici di Santo Spirito: “Fra noi solo note intonate”

Il futuro del Palio è nelle mani dei giovani iscritti che scelgono di impegnarsi nelle attività delle contrade, sono loro i tutori della tradizione. I ragazzi sotto i 15 anni, che siano musici o sbandieratori, sono inseriti nei gruppi under e vengono preparati per essere pronti, dopo il loro 16esimo compleanno, a passare nei gruppi senior degli adulti. Ad allenare il gruppo under dei musici di Santo Spirito ci pensano Mattia, in contrada dal 2000, e Luca, che ne fa parte solamente da un anno.

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Allenamento del gruppo under delle chiarine

“Sono entrato a far parte di questa contrada l’anno scorso – ci racconta il sedicenne Luca – è sono stato benissimo, ho trovato persone disponibili, pronte ad aiutarti e a farti sentire integrato. Non avevo mai pensato di far parte di una contrada, fino a quando un mio amico non mi ha invitato a provare, visto che lui frequenta Santo Spirito da tanto. Io suonavo già la batteria e mi sono inserito tra i musici: per i primi tre mesi mi sono allenato con loro, ma era un periodo di prova, per capire se potevo trovarmi a mio agio e se poteva interessarmi, e così è stato. E’ un bell’impegno, prende molto tempo e più ci avviciniamo alle gare maggiori saranno gli appuntamenti per gli allenamenti ma non mi pesa, è una buona scusa per uscire di casa e qui si respira sempre un’atmosfera di amicizia e d’affetto”.

Quando Luca entrò e si unì alla contrada di Santo Spirito un anno fa, venne seguito e allenato da Mattia, che oggi lo prepara a diventare a sua volta allenatore per il gruppo under, come, anni fa, fece suo zio con lui. “Io sono stato portato in contrada da mio zio, nel 2000, e ho iniziato come figurante. Anche mia mamma era attiva in contrada, partecipava alle sfilate, e loro due hanno trascinato qui tutta la famiglia. Per un anno ho sbandierato, dal 2003, invece, sono passato al gruppo dei musici con il tamburo e adesso insegno ai più piccoli. Quando uno entra in un gruppo non è obbligato a farne parte per sempre, si possono provare sempre cose nuove, partecipando a tutte le attività che la contrada offre, per poi inserirsi dove si riesce meglio”.

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Maria Vittoria e Matteo, tamburi Under

Ad allenarsi sotto un timido sole primaverile, nel sottomura tra via Garibaldi e via Portamare, oggi ci sono Maria Vittoria, che ha quattordici anni, Mattia, di undici anni e una nuova stella delle percussioni, Filippo, che di anni ne ha solo quattro. “Io non sono di Ferrara – racconta il papà del piccolo Filippo – e per me quello delle contrade è un ambiente nuovo, però sarei felice che mio figlio ne facesse parte perché è una bella realtà e mi piace l’idea che si mantengano le antiche tradizioni cittadine”. Filippo, occhiali da sole e bacchette in mano, non dà confidenza a nessuno, si avvicina a Luca e iniziano a suonare insieme: è troppo piccolo per unirsi agli under ma, se vorrà, potrà iniziare a frequentare la contrada e si potrà allenare insieme agli altri bambini fino a quando non sarà un po’ più grande.

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Luca con il piccolo filippo

“I miei volevano che suonassi la chiarina – mi racconta sorridendo Maria Vittoria che, anche se ha solo quattordici anni, ha le idee ben chiare – ma io voglio suonare il tamburo. Sono entrata a Santo Spirito cinque anni fa e, dopo aver fatto la dama per un anno, ho visto come si divertivano i musici a suonare il tamburo e ho deciso di provare. E’ divertente, serve anche a sfogarsi quando si è arrabbiati, per questo ho deciso di continuare a suonare e sono riuscita anche a far venire la mia migliore amica, così passiamo più tempo insieme”.
Anche Mattia ama suonare, ha iniziato quattro anni fa, quando aveva sette anni, e continua con il tamburo, “è stato mio padre ha spingermi a provare qualche attività in contrada, perché mio fratello aveva iniziato a sbandierare qui a Santo Spirito. Non mi pesa passare delle ore a provare, è bello stare qui”.

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Chiostro del convento di Santo Spirito, allenamento degli sbandieratori

I contradaioli di Santo Spirito tengono particolarmente alle giovani promesse e al loro divertimento, e cercano di coinvolgerli in piacevoli attività all’interno della contrada, organizzando eventi musicali e gare culinarie, ma anche in altri ambienti, tra cui spicca Città Magica, il villaggio rinascimentale all’interno del Balloons Festival. “Sono otto anni che la contrada organizza il villaggio, insieme al gruppo medievale di Gemona del Friuli, creando spettacoli, intrattenimento e giochi per i più piccoli. Nel tempo lo stand è diventato sempre più organizzato, offrendo tante attività: vestiamo i bambini con gli abiti storici, costruiamo un mini labirinto, creiamo spettacoli medievali e sfilate. E’ un modo per farci conoscere di più, anche da chi non è di Ferrara, e per garantire qualche entrata in più alla contrada. Un altro gioco che organizziamo, sempre aperto a chiunque volesse unirsi a noi, è “Il mestolo d’oro”. Come in ogni contrada, durante l’anno si organizzano delle cene e noi abbiamo deciso di renderle più divertenti organizzando una gara culinaria: si creano dei gruppi e ad ognuno viene assegnata una Regione e, ogni sabato sera, le squadre si sfidano tra loro preparando una cena per cinquanta commensali con i prodotti tipici di quella regione. Ultimo evento estivo è il Night & Blues, organizzato qui nel Chiostro di Santo Spirito, durante il quale per venti serate si esibiscono gruppi o cantanti solisti”.
I contradaioli cercano anche un modo di essere utili alla cittadinanza: per questo hanno creato un gruppo di donatori di sangue, infatti è possibile trovare il foulard verde e giallo, i colori della contrada, nella sede dell’Avis della città.

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Chiostro di Santo Spirito, allenamento degli sbandieratori

Maggio si avvicina, e con lui le gare e gli scontri tra le varie contrade che, anche se non accesi come un tempo, risvegliano la rivalità fino alla fine del Palio. “Tanti anni fa chi faceva parte di una contrada non poteva avere contatti con gli altri contradaioli, non solo durante il periodo del palio ma per tutto l’anno. Ora non è più così, c’è rivalità ma anche amicizia, non siamo nemici tra di noi. Naturalmente sotto maggio è più facile scontrarci tra di noi, gli animi s’infiammano, ma è tutto limitato alle gare del periodo. Ci vediamo tutte le sere durante quel mese, tra battute scherzi e bevute, si chiacchiera e si sta insieme. C’è voglia confrontarci, perché si cresce con le stesse passioni: quello che è un problema per una contrada può essere qualcosa di risolvibile per un’altra. Alla fine il modo per scaricare la tensione l’abbiamo trovato nei gavettoni, perché tra il Giuramento e il Palio ci sono circa due settimane d’attesa e, durante quelle sere, scateniamo delle vere e proprie battaglie d’acqua, con agguati e strategie. Se la contrada avversaria ti cattura, ci sono dei pegni da pagare o si deve affrontare una penitenza, e la tua contrada deve preparare un riscatto”.
Mentre parliamo, Matteo si guarda intorno, ogni tanto mi lascia per andare a correggere uno dei suoi ragazzi o per incoraggiare chi si sta allenando seriamente. “Ogni anno dico che sarà l’ultimo, perché cercare d’incastrare i loro allenamenti con i miei, oltre che con il lavoro e la vita privata, è sempre più complesso. Ma ogni volta che arriva maggio e loro entrano in gara, io li osservo fuori dalle transenne e appena partono i rullanti, guidati dal capo musici, Lorenzo, che dà lo stacco, mi viene la pelle d’oca. Mi sono impegnato tutto l’anno, abbiamo discusso, li ho premiati o sgridati, ho insegnato loro tutto quello che potevo e loro lo portano in piazza davanti ai giudici, mostrandomi che, alla fine, ho fatto un buon lavoro. Non è solo suonare lo strumento, dietro c’è tanto altro, il mio compito è quello di trasmettere la stessa passione con la quale io sono cresciuto, per amare la vita di contrada e quello che comporta”.

Il nuovo Boldini? Digitale e tecnologico ma sempre non allineato

Il Cinema Boldini è l’unica sala d’essai di Ferrara, ci sono passate intere generazioni di cinefili, attori e registi. Chi non ci ha visto un film che gli è rimasto dentro per sempre? Chi non ha formato attraverso le sue proiezioni la propria cultura (e qualcuno magari anche un lavoro nel cinema)? Chi non si è innamorato su quelle poltroncine?

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Il Boldini, per gli amici Boldo, è di proprietà del Comune e la programmazione serale viene gestita dal circolo Louise Brooks dell’Arci. Per lungo tempo il responsabile è stato Roberto Roversi, ora presidente nazionale di Ucca, Unione dei circoli cinematografici Arci. Adesso la referente è Alice Bolognesi, laureata al Dams, ex servizio-civilista poi entrata in forze all’associazione ferrarese. E’ lei che si occupa della programmazione del cinema, e noi l’abbiamo intervistata per capire come funziona.

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Chi sceglie i film che vengono proiettati al Boldini?
“I film hanno una distribuzione nazionale che viene filtrata e di conseguenza gestita dalle agenzie regionali che hanno in esclusiva una serie di titoli da programmare nelle sale cinematografiche”.

Quali sono i criteri?
“Sicuramente incide il profilo della sala cinematografica. In una sala d’essai come il Boldini passano in prevalenza titoli premiati a festival internazionali e film d’essai”.

Cosa viene deciso dalle agenzie di distribuzione e cosa rimane all’autonomia del cinema?
“Il cinema ha pochissima autonomia, la vita di un film in sala dipende molto dalle presenze della prima settimana di uscita, però l’ultima parola è delle agenzie di distribuzione regionale. Abbiamo invece piena autonomia sulle rassegne anche se dobbiamo ovviamente fare i conti con le uscite e le richieste delle distribuzioni”.

Oltre alla programmazione, Arci ha anche lavorato per adeguare la sala all’evoluzione tecnologica. Un passaggio necessario, ma non indolore che ha comportato la sostituzione di schermo e proiettore.
“Lo schermo andava cambiato, quello vecchio credo avesse qualcosa come vent’anni.
Il nuovo proiettore digitale ha un fascio di luce molto più potente rispetto al 35 millimetri. Se avessimo mantenuto il vecchio schermo la qualità delle proiezioni sarebbe stata pessima.
Il digitale ha pro e contro. Sicuramente è semplice gestire più titoli anche per una sala sola come la nostra, possiamo proiettare più contenuti e in diversi formati.
Con il digitale abbiamo la possibilità di proiettare film in lingua originale. Con le pellicole era praticamente impossibile, venivano infatti stampate pochissime copie con dei costi di noleggio altissimi.
Altro aspetto interessante è la trasmissione satellitare: questa tecnologia ci consente di trasmettere contenuti in live streaming.
Lo svantaggio maggiore del digitale riguarda invece la parte tecnica: se il proiettore digitale ha dei problemi il rischio di annullare la proiezione è dietro l’angolo, con il 35 millimetri questo era praticamente impossibile. Se si rompeva la pellicola o si bruciava una lampada si riusciva comunque a proiettare, a risolvere dalla cabina.
Con il proiettore digitale invece si rischia proprio di mandare a casa gli spettatori.
Ulteriore nota negativa è l’usura e l’avanzamento di nuove tecnologie (che non è una cosa negativa in generale, anzi!): i primi proiettori digitali sono già considerati obsoleti e poco performanti rispetto a quelli nuovi. Con il digitale si vive un po’ nel “terrore” di dover cambiare dei componenti della macchina. Con dei costi non indifferenti”.

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Il Boldini ha sempre cercato di associare le proiezioni alla presenza degli autori, l’ultima in ordine di tempo è stata “Qui” di Daniele Gaglianone, dove il regista era in sala per parlare del movimento No Tav. Ultimamente si sta anche sperimentando la formula dell’evento associato al film, come per esempio lo spettacolo di danza di Elisa Mucchi che qualche sera fa ha anticipato il documentario “Dancing with Maria” di Ivan Gergolet. [clicca qui per leggere il nostro articolo]

Quali saranno i prossimi eventi?
“Per il mese di aprile abbiamo in programma la rassegna del Festival dei Diritti, due serate di Doc in Tour e due sorprese italiane: il documentario ‘Smokings’ il 14 aprile e il film ‘The repairman’ il 21 aprile.
Per il mese di maggio stiamo organizzando una rassegna in collaborazione con Arcigay dove non mancheranno prime visioni e incontri con autori.
Finita la programmazione primaverile, durante l’estate, il Boldini sospende la programmazione e si trasferisce all’aperto proponendo il meglio della stagione precedente. La location non è fissa. All’inizio è stata il parcheggio dell’Ipercoop le Mura, poi il Parco Pareschi, infine il giardino di Palazzo dei Diamanti”.

Qual è al momento la situazione dell’arena estiva?
“Ci stiamo lavorando, sicuramente cambieremo location.
Dal 2012 infatti eravamo ospiti di Palazzo dei Diamanti ma quest’anno con il prolungamento della mostra fino al mese di luglio non sarà possibile utilizzare il cortile adiacente per l’allestimento del cinema all’aperto.
Stiamo valutando diverse situazioni per offrire uno spazio alternativo e una proposta culturale valida per il pubblico che resterà in città nel periodo estivo”.

(foto di Stefania Andreotti)

Il programma del cinema è visibile qui [clicca].

GERMOGLI
Libri e ragazzi.
L’aforisma di oggi…

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

imagegenOggi è la Giornata Internazionale del Libro per Ragazzi, istituita in questa data perchè ricorre il compleanno di Hans Christian Andersen. A Bologna, una Fiera dedicata si svolge proprio in questi giorni.

“La vita di per sè è la favola più fantastica”. (Hans Christian Andersen)

L’ovazione per Nanni Moretti, autarchico di successo

Qualche giorno fa, un evento ha sconvolto il normale svolgimento della sesta edizione del Bifest, Festival internazionale del cinema di Bari, ideato e diretto da Felice Laudadio e presieduto da Ettore Scola: nel Teatro Petruzzelli è stato proiettato “Caro Diario“, e subito dopo Nanni Moretti ha svolto una master class di cinema, nel corso della quale ha letto il diario scritto nel corso della preparazione, le riprese e il montaggio del film. Il risultato è stato clamoroso.

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Nanni Moretti premiato al Bifest 2015

Il Festival, che oramai si è affermato come uno dei più rilevanti nel panorama attuale, aveva peraltro ospitato altri eventi di grande rilevanza: Alan Parker, regista de “Le ceneri di Angela”, di “Evita e Mississipi Burning”; Jean Jacques Annaud, il cui film “L’ultimo lupo” è nelle sale in questi giorni; Edgar Reitz, un monumento del cinema mondiale, autore dei film di durata monstre “Heimat 1”, “Heimat 2”, e di “Heimat 3. Cronaca di una svolta epocale”, di prossima uscita nelle sale; il regista polacco Andrej Waida, che con “L’uomo di ferro” ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes; Costa Gavras, regista e intellettuale greco autore dell’indimenticato “Z Orgia del Potere”; Margarethe Von Trotta, vincitrice del Leone d’Oro a Venezia con “Anni di piombo”; il nostro grande Ettore Scola, di cui è inutile dire ai nostri lettori.

Ma sabato mattina presto, in una Bari peraltro grigia e piovosa, davanti al Petruzzelli, si respirava l’aria del grande evento: mezz’ora prima della proiezione di “Caro Diario”, il teatro straboccava nella platea e in ognuno dei 6 ordini di posti, e fuori centinaia di persone si accalcavano nel vano tentativo di entrare.
nanni-superstarIl film, a distanza di oltre 20 anni (è del 1993), ha ancora affascinato, divertito e commosso il pubblico, in maggioranza giovani; la corsa in Vespa nei quartieri di Roma e all’Idroscalo dove Pasolini fu assassinato, con lo struggente brano Koln Concert di Keith Jarret; l’irresistibile episodio “Isole”, dove in una Lipari stravolta dal traffico e una Panarea milanesizzata si aggirano ex sessantottini straniati e surreali; e infine la parabola agro amara della sua malattia tra dermatologi autistici e medici cinesi.

nanni-superstarE quando al termine della proiezione è entrato Nanni il teatro è esploso; la cordialità attenta e competente dimostrata dal pubblico verso gli altri ospiti, si è trasformata in una ovazione da stadio, in un omaggio devoto e divistico verso uno dei personaggi più significativi del cinema italiano.
Perché Moretti oggi, con i suoi maturi e splendidi 60 anni, appare davvero come uno dei più carismatici personaggi del nostro cinema; abbiamo molti grandi registi e attori, il nostro Sorrentino ha vinto l’Oscar, come anche Roberto Benigni, che anche per le sue presenze televisive ha maggiore popolarità tra il grande pubblico. Ma per il pubblico del cinema, Nanni è una icona: amato, spesso anche inviso; definito “pignolo”, talvolta “antipatico”, troppo “esigente”, spesso “maniacale”, qualcuno lo definisce “presuntuoso”, sicuramente invidiato.

nanni-superstarPersonalmente, provando a usare la sua autoironia, lo definirei un ‘luterano’ monteverdino (quartiere di Roma). Moretti è uno che fa le cose che vuole fare, che si scrive e si produce i suoi film; uno che nella generale crisi degli esercizi cinematografici si è fatto una sua sala, dove programma i film che piacciono a lui, ma lo riempie ogni giorno. Un autarchico di successo, in coerenza col suo primo film.

Quando in “Caro Diario”, riferendosi agli estremisti anni ’70, dice “Voi gridavate cose orrende e violentissime, e voi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste, e ora sono uno splendido quarantenne” rivendica a buon diritto la sua identità.

La lucida affettuosa consapevolezza con la quale ha raccontato la sua e le nostre storie (da “Io sono un autarchico”, per proseguire poi, solo citandone alcuni, con “Ecce Bombo”, “Palombella Rossa”, “La stanza del Figlio”, Palma d’oro a Cannes, al “Caimano”, satira profetica su Berlusconi, come fu pure anticipatore delle dimissioni del Papa con “Habemus Papam”) dà il senso del percorso che rende Moretti mentore e testimone di queste nostre storie.

Lo aspettiamo ora con il suo ultimo filmMia madre“, dal 16 aprile nelle sale, con la speranza che possa concorrere e magari aggiudicarsi la Palma d’Oro al Festival di Cannes.

ACCORDI
La fantascienza.
Il brano di oggi…

Richard Strauss
Richard Strauss

Ogni giorno un brano intonato a ciò che la giornata prospetta.

[per ascoltarlo cliccare sul titolo]

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Stanley Kubrick

Richard Strauss – Also sprach Zarathustra

Usciva proprio oggi, nel 1968, “2001: Odissea nello spazio”, uno dei più bei film del grande Stanley Kubrick nonché tra i più famosi della storia del cinema, destinato a stravolgere la concezione della fantascienza del tempo. Tra le caratteristiche che più lo hanno contraddistinto nel tempo sicuramente troviamo la colonna sonora, dalla quale compare il celebre brano “Così parlò Zarathustra” del compositore Richard Strauss.

Tanto rumore per nulla attorno “all’Intervista”

Arrivato in Italia in home video il 25 marzo (ma visibile in rete da qualche tempo), se ne era parlato molto lo scorso mese di dicembre, quando la prima del film a New York era stata cancellata. La Sony, produttrice del film “The Interview” con la Sony Pictures Entertainment, era stata attaccata, hackerata, minacciata. Un fatto storico, un caso da manuale senza precedenti, una saga quasi hollywoodiana durata diversi giorni. L’antefatto: a giugno, una lettera dell’ambasciatore nordcoreano a Ban Ki-Moon con la quale si accusano gli Stati uniti d’America di sponsorizzare atti di terrorismo e guerra attraverso la trama di un film (non citato espressamente). I fatti: della missiva non si parla, finché a Novembre la Sony si rende conto di essere stata hackerata, con impiegati che non accedono alla rete aziendale e scheletri che appaiono sui monitor, c’è un messaggio inquietante, di “warning”, “Hacked by Gop” (i “Guardians of peace”).

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Avvertimento

Dati cancellati e mandati online, insieme a documenti e informazioni riservate (38 milioni di file tra i quali email, stipendi, informazioni sui film in uscita come la sceneggiatura di Spectre, il nuovo film di James Bond in uscita nell’autunno 2015, commenti e dati riservati delle star hollywoodiane, da Sylvester Stallone a Jessica Alba), un danno da 200 milioni di dollari. Viene richiesto un compenso monetario, una sorta di ‘ricatto’ per non vedersi attaccare fino in fondo. La pista nordcoreana viene messa in mezzo, riesumando quella lettera alle Nazioni unite, l’Fbi indaga, Pyongyang nega ogni coinvolgimento, anche se celebra il fatto come azione ispirata da indignazione e non esclude che sia stata condotta da ‘simpatizzanti’. I Gop minacciano, evocando un 11 settembre contro i cinema che proiettino il film. Anche se non vi sono elementi per credere alla possibilità di attentati, la pellicola è ritirata dalla programmazione. Arrivano le accuse ufficiali alla Corea del Nord, il 19 dicembre, pur “in assenza di poter mostrare tutte le prove”. Infine, una nota (non attribuibile con certezza agli hacker): via libera a far vedere il film. La conclusione: dopo tanta confusione, il film oggi, è in alcuni cinema, in rete e in home video. Forse qualcuno, semplicemente, si diverte e ride alle spalle di Sony e di due Stati potenti.

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La locandina

Tanto rumore per nulla, tuttavia, perché il “The Interview” è un film come tanti. Non molto diverso da tanti, forse. Ci pare incredibile che abbia potuto causare tanta polemica e una seria crisi internazionale, se non altro perché ci troviamo davanti a una commedia classica, di quelle anche un po’ volgari, pesante in toni e allusioni, e non certo di fronte a un film serio o con veri intenti satirici, nonostante il soggetto politico di partenza. Insomma, è un film realizzato solo con l’ambizione di far ridere e basta (chi piaccia tale tipo di risata). Il polverone dimostra certo la scarsa autoironia del regime nordcoreano, ma non bisogna farsi ingannare da un film semplicemente comico-demenziale. I protagonisti sono particolarmente scemi, la trama improbabile, le situazioni surreali, le battute triviali.
Eccoci, allora, di fronte a due giornalisti (Seth Rogen e James Franco) di uno show scandalistico molto seguito che scoprono che il leader nordcoreano Kim Jong-un (Randall Park) è un loro spettatore e grande fan. Da qui l’idea di intervistarlo, per fare lo scoop, per approdare, finalmente, nel mondo del giornalismo “serio”, un salto di qualità con il botto.

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I due giornalisti

Prima della partenza, tuttavia, la Cia, nei panni della bella agente Lizzy Caplan, li contatta per chieder loro di eliminarlo, con un veleno letale nascosto in un cerotto. Ottenuto il benestare coreano per l’intervista, arrivati in Corea del Nord, i due protagonisti sono affascinati dallo charme del leader e, in particolare, il conduttore David Skylark (James Franco), che rimane ammaliato da quello che Kim Jong-un gli confessa per farselo amico. Tutto l’intreccio si basa sul falso benessere esibito che viene poi scoperto dai due e sulla doppia faccia di Kim Jong-un, placido amico prima e poi spietato massacratore pronto a lanciare testate nucleari.

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Il leader nordcoreano Kim Jong-un

Alla fine i due giornalisti riescono a far fuori Kim con una granata con propulsione a razzo, in un film dalla trama improbabile e in una scena finale davvero poco credibile. Se si parla, comunque, male della Corea del Nord (Kim Jong-un è visto come un bambinone triste e viziato, abile manipolatore ed egoista, che dà di matto quando gli dicono che bere i Margarita è da gay, che si aggira indeciso nel suo armadio per scegliere quale delle decine di uniformi identiche indossare, e che minaccia di bombardare il mondo per sentirsi importante, un fondo di ragione per indispettirsi c’è…), molto peggio ne esce la televisione americana: il personaggio di David, che diventa subito amicone di Kim (vanno a sparare con i carri armati insieme cantando Katy Perry), è il vero idiota del film, un uomo inutile che conduce un programma seguitissimo, ma completamente digiuno delle più basilari regole del giornalismo, profittatore e vigliacco, disposto a tutto per il proprio bene e completamente rimbecillito dalla pop culture. Kim gli fa solo da spalla.

il leader nordcoreano Kim Jong-un
Una scena del film

Una volta deciso di ambientare la vicenda in uno dei paesi più chiusi del mondo, il film poteva mostrare gli aspetti più problematici e complessi della Corea del Nord, invece, li ha banalizzati, umanizzato Kim Jong-un, come un bamboccione con problemi di autostima e terrore notturno di restare solo, e puntato molto di più sulla satira del vacuo mondo dell’entertainment americano che non su quella geopolitica. Altro che film politico, alcuni potrebbero addirittura obiettare che il film ha scelto di ridere laddove si è in costante presenza di pesanti violazioni dei diritti umani, aspetti davvero poco comici. L’intervento nordcoreano ha finito solo per fare (enorme ed esagerata) pubblicità ad una semplice commedia che, forse, sarebbe passata nei cinema senza farsi troppo notare…

The Interview“, di Evan Goldberg e Seth Rogen, con Seth Rogen, James Franco, Lizzy Caplan, Diana Bang, Randall Park , Usa 2014, 112 mn.

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