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Giorno: 4 Agosto 2015

DIARIO IN PUBBLICO
Ritorno sulle patrie spiagge

E così il ritorno ai Lidi tra salvifici temporali e frescure umidicce si è concluso dopo un caotico e terrificante viaggio di ritorno. Come cantò il Poeta “stessa spiaggia, stesso mare”, davanti a me i dannati della terra esibiscono ancora per la gioia di cicciute dame la loro mercanzia proibita e ormai non più controllata. E più strabordano le damazze e più si provano i ‘cenci’ che vengono loro esibiti con targhe mirabolanti naturalmente false.
Se è vero che Ferrara e il suo territorio sempre più assumono le prerogative di luoghi del silenzio di carducciana e dannunziana memoria tra silenti raduni per assistere alla definitiva perdita della banca di riferimento dove nessuno più, secondo la mia teoria dei ferraresi ‘smangoni’, s’assume il compito almeno di protestare o gli urlati proclami degli sfracelli sanzionatori del sindaco di Comacchio ormai passati nel silenziatore più assordante, tento di fare un piccolo riassunto di cosa sia diventata Ferrara sempre più ‘Ferara’.

Un esempio classico del degrado e della pericolosità a cui lentamente sembriamo fatalisticamente rassegnarci. Un odore nauseante mi ha svegliato questa notte. Ho pensato a qualche fuga di maleodoranti gas poi stamane la verità più semplice. Gli eroi delle notti libertine: bianche, rosa o di qualche altro colore che sollevano le braccine scatenandosi nelle loro mossucce e nella loro falsa libertà d’interpretare la giovinezza tra un urlo e un rutto hanno incendiato i cassonetti della spazzatura e così stamane l’umiliante vista dei poveri eroi di queste malnate serate, i vigili del fuoco, che spegnevano gli ultimi focolai, e pulivano e nascondevano il danno per non offendere tra puzze e rifiuti la delicata sensibilità dei villeggianti.

Frattanto arrivano i rumors dell’assemblea della ‘banca di riferimento’ dove le pecorelle condotte al pascolo di azioni ormai carta straccia affrettano il passo per lasciar libera l’ultima fase della ‘deferarizzazione’ della Carife. E che commenti dotti, seri, meditati e lievemente sofferti giungono dalle ‘auctoritates’ che tutto negano e tutto oracolarmente viene presagito!
E il silenzio, come un coltre del medesimo odore dei cassonetti bruciati, avvolge il tutto e tutto coinvolge negli annunci urlati di qualche poveretto che invita a qualche danza o a qualche partita di racchettoni.

Il grande Massimo (leggi Gramellini) invita dalle pagine di Tutto libri della Stampa di Torino alle letture sotto l’ombrellone. Una straordinaria analisi del perché non si può leggere in nessun modo in spiaggia. Dubito poi dell’interesse dei miei vicini di sdraio o di lettino a coltivare questo passatempo in quanto non vedo circolar carta se non quella che avvolge il panino mentre tutte le mani si protendono a scattar selfie o a immortalare il/la vezzoso/vezzosa che siede loro al fianco.
Scrive Gramellini “Piccoli teppisti travestiti da bambini che strillano e movimentano la sabbia a mezzo metro dal tuo rifugio letterario. Gli altoparlanti del bar che a intervalli regolari annunciano la scomparsa purtroppo solo momentanea, di uno dei teppisti. I loro fratelli maggiori che obbligano l’intero stabilimento e le spiagge adiacenti ad ascoltare le orribili hit spagnoleggianti dell’estate , ignari dell’esistenza di un ritrovato della modernità chiamato ‘cuffie’.” (La Stampa, 1 agosto 2015).
E non si creda che l’analisi sia applicabile a qualche spiaggia particolare bensì a tutte le spiagge e spesso nei giardini montani.

Sono uno snob? Forse sì, ma ancora attento alle virtù civili dei gesti che rivelano come ormai siamo ridotti. E’ il caso della signora di novantatrè anni legata e lasciata forse a morire per una catenina d’oro e che solo il sospetto di un vicino ha salvato da morte certa.
Snob per rifiutare i grandi eventi e pensare che la cultura italiana si salva solo con l’ordinaria amministrazione.
Snob perché rifiuto di credere che le sovrintendenze siano affidate alle prefetture.
Snob perché come scrive Ermete Realacci sull’Unità credo che l’Italia, patria della bellezza, possa produrre risorse con l’arte e la cultura.
Ma purtroppo non più snob per riflettere che, per effetto paradossale, l’Italia non ha ancora trovato il modo di mettere a frutto questa bellezza che sembra soffocarci per troppo ingombro di responsabilità.

Musica Marfisa: Marco Giardini in concerto martedì 4 agosto

da: Circolo culturale Amici della Musica “Girolamo Frescobaldi” – Ferrara

Stasera (martedì 4 agosto 2015, ndr) alle 21,30 c’è il gradito ritorno di un pianista ferrarese a “Musica a Marfisa d’Este”: sarà in pedana Marco Giardini per un recital che propone musiche di Wolfgang Amadeus Mozart (Sonata in La minore K 310) e Fryderyk Chopin (le Ballate Op.23 n.1, Op.38 n.2, Op.47 n.3 e Op.52 n.4). La rassegna è organizzata dal Circolo Frescobaldi in collaborazione con i Musei Civici d’Arte Antica di Ferrara. L’ingresso è a offerta libera pro Ant.

Marco Giardini, nato a Ferrara nel 1982, ha cominciato lo studio del pianoforte all’età di sette anni sotto la guida di Maria Luisa Reschiglian, completando poi la sua formazione con Florenta Barbalat presso il Conservatorio Frescobaldi di Ferrara, dove si è diplomato, a diciassette anni, ottenendo il massimo dei voti, la lode e la menzione d’onore. All’attività pianistica, in virtù della quale sin dall’età di sedici anni è stato chiamato a tenere recitals solistici in diverse località italiane, nonché a collaborare con gruppi cameristici, corali e orchestrali affianca, in un contesto di più ampio respiro musicale, l’attività di compositore, privilegiando l’ambito pianistico, con ampie escursioni nella musica vocale e cameristica.

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PUNTO DI VISTA
Cittadini o consumatori: sei riflessioni sulla crescita del Pil e l’aumento inesorabile dei bisogni

Se si osserva la società dal punto di vista dei bisogni, liberi per quanto possibile dai preconcetti del pensiero unico economico che quotidianamente ci assedia con PIL, Spread, Dow-Jones, FTSE e simili amenità, il nostro sguardo si apre su prospettive e paesaggi  molto diversi da quelli che siamo abituati a vedere solitamente. Liberati un poco dal pregiudizio, da molti cliché e fors’anche da qualche strisciante ideologia, possiamo perfino immaginare che il fine della società nel suo insieme possa essere espresso con un linguaggio e con criteri differenti da quello della crescita, della riduzione del debito pubblico, dell’aumento dell’occupazione.

Possiamo ad esempio ipotizzare che il fine della società non possa e non debba essere disgiunto dalla sua capacità di risolvere i bisogni dei suoi membri, possiamo immaginare che esso non possa essere pensato come completamente indipendente dal più vasto sistema ecologico dal quale le società sono emerse e traggono sostentamento, possiamo vedere la gabbia d’acciaio che Max Weber ci ha insegnato a riconoscere e mettere in dubbio la presunta certezza di vivere in un mondo disincantato, indifferente alla sorte degli umani.

Siamo tuttavia così immersi nel brodo dell’informazione mainstream che un simile passaggio (mettere tra parentesi l’ideologia economica imperante) risulta essere molto difficile, ed è percepito dai più come un esercizio poco utile, se non completamente insensato. Cosa possiamo scoprire se osserviamo il nostro mondo da questa prospettiva particolare e, nell’osservarlo, immaginiamo di farlo assumendo diversi punti vista che possano essere rappresentativi di differenti posizioni dentro la struttura sociale?

1. Lo spirito del consumismo
All’alba del pensiero diventato oggi egemone (siamo nel 1955, l’epoca dipinta nei suoi aspetti positivi dalla situation comedy Happy Days), un economista allora molto autorevole Victor Lebow, membro del gruppo di analisti economici del Presidente degli USA Eisenhower, se ne uscì con questo asserto, che è la chiave di volta dell’intero edificio della “nostra” società del consumo:

«La nostra economia incredibilmente produttiva ci richiede di elevare il consumismo a nostro stile di vita, a trasformare l’acquisto e l’uso di merci in rituali, di far sì che la nostra realizzazione personale e spirituale venga ricercata nel consumismo. Abbiamo bisogno che sempre più beni vengano consumati, distrutti e sostituiti ad un ritmo sempre maggiore».

Questa prospettiva, nella quale viviamo oggi completamente immersi come il pesce nell’acqua, al punto di non sapere neppure più cosa si intendesse (e si intenda) con il termine consumismo, pone la nozione stessa di bisogno su una base che ne determina in buona sostanza la dissoluzione. In un contesto di sovra-produzione, tutte le vecchie nozioni che si fondavano sulla penuria di beni e i rischi derivanti da eventi esterni imponderabili, sull’esigenza di mantenere una centratura rispetto alle esigenze basilari dell’esistere, vengono messe in discussione e presto cadono nell’obsolescenza; di fatto parlare di bisogno, almeno al livello di politica economica, diventa inutile poiché la prospettiva più importante, se non unica, diventa quella del consumo.

In che modo dunque, all’interno di questa prospettiva, le nostre società rispondono al bisogno? Superata la soglia della produzione di una massa di beni statisticamente sufficiente a coprire i bisogni primari di sussistenza, sostanzialmente attraverso 7 meccanismi fondamentali il cui scopo è appunto quello di aumentare i consumi:

  • la manipolazione sistematica dei sistemi di desiderio attraverso l’educazione al consumo che inizia fin dai primi anni di vita (“consumo quindi sono”);
  • l’obsolescenza programmata delle merci prodotte (i beni devono durare poco per essere      sostituiti spesso) che si coniuga con il fascino dello sviluppo tecnologico;
  • la moda con tutte le sue implicazioni (ciò che ha ancora piena funzione d’uso deve essere rigettato in quanto non socialmente adatto);
  • lo specialismo esasperato e diffuso, dove il ruolo dell’esperto porta allo svuotamento sistematico delle capacità che possono rendere autonoma la persona e alla loro sostituzione con prestazioni a pagamento (“non so fare nulla che esca dal mio ambito ma so a chi rivolgermi”);
  • la sostituzione di attività prima svolte informalmente nelle reti comunitarie e familiari, con prestazioni specialistiche a pagamento;
  • la credenza acritica che la crescita del PIL sia l’unica via ed indispensabile per far crescere la torta da spartire, creare lavoro e quindi far entrare sempre nuovi consumatori nel sistema (è necessario crescere indefinitamente);
  • l’estensione forzosa del modello ritenuto (unico) portatore di benessere in tutto il pianeta e, con esso, dello stile di vita occidentale, ovviamente presentato come (unico) portatore di libertà e di democrazia.

2. Siamo ancora in grado di riconoscere i nostri bisogni?
Lasciamo i suggerimenti del consigliere del presidente degli anni ’50 e proviamo ora a recuperare una sana prospettiva soggettiva, cambiamo punto di vista e consideriamo il tema del bisogno (nella duplice accezione di carenza e di motivazione all’azione) secondo ciò che percepiamo e sentiamo come persone, come singoli esseri sociali dotati di corpo, di emozioni e di pensieri. Con un impegno che ci è stato insegnato dalla fenomenologia, cerchiamo di mettere tra parentesi il nostro ruolo sociale e tentiamo di individuare in cosa consistono i nostri bisogni: ne scaturirà un elenco simile al seguente, proposto da un altro economista, Manfred Max-Neef (per non citare sempre il citatissimo Maslow), un personaggio decisamente diverso da quello citato in precedenza:

  • Sopravvivenza
  • Protezione
  • Affetto
  • Partecipazione
  • Ozio
  • Creazione
  • Identità
  • Libertà
  • Spiritualità

Osserviamo questo elenco, liberi per quanto possibile da soluzioni precotte e preconfezionate, affrontiamolo in modo creativo, e chiediamoci in quali modi possa essere affrontato da singoli soggetti e in quali modi concretamente lo affrontiamo nella nostra vita. Da questo punto di vista, chiamati in causa direttamente, siamo decisamente più propensi a credere che l’economia debba servire alle persone, piuttosto che le persone servire all’economia.

3. Il marketing ovvero l’arte di vendere e costruire nuovi bisogni
In che modo la nostra società tende attualmente ad interpretare ed onorare tutti ed ognuno di questi bisogni? Secondo l’ipotesi mainstream o neoliberista, proprio e solo attraverso i mercati, la crescita forzosa del PIL e la conseguente corsa sfrenata al consumo (ben espressa dalla famosa PublicitàProgresso (!) “Fai girare l’economia”). Questa visione è esemplarmente sintetizzata in alcuni detti recentissimi (verbatim) che girano nel mondo (affascinante) del marketing, il sottosistema economico deputato per antonomasia a far crescere le vendite (e i consumi) che, sul tema dei bisogni, ha uno sguardo tanto originale quanto interessato:

    • “la pubblicità non è più l’anima del commercio, ma il commercio dell’anima”;
    • “senza sogno non c’è bisogno”;
    • “il consumatore compra emozioni, non materia: un marchio senza emozione è solo merce”;
    • “siamo ciò che compriamo”.

Considerati a prescindere dal loro appeal creativo ed attuale, questi motti esprimono perfettamente l’idea di un consumismo ormai orientato a dare risposte proprio a quelle che sembrerebbero essere le aspirazioni più alte e “spirituali” dell’uomo (il modello Marketing 3.0 dal prodotto, al cliente all’anima, discusso da P. Kotler nell’omonimo libro).

1. CONTINUA

IMMAGINARIO
Facci le scarpe.
La foto di oggi…

L’immagine di copertina è scattata sugli sdrai da mare con modelli in boxer, calze lunghe e calzature ai piedi. E, in effetti, non tanto lontano dal mare, questa maison fondata da un italiano a Parigi è tornata per produrle: lo stabilimento di uno dei marchi più esclusivi a livello mondiale è a Gaibanella di Ferrara. Si chiama Manifattura Berluti. Dal 1895 ha fatto le scarpe al duca di Windsor, Andy Warhol, Robert De Niro. Due settimane fa l’inaugurazione della manifattura ferrarese entrata nel gruppo Louis Vuitton, Moët e Hennessy (Lvmh). Ottomila metri quadrati, 120 anni alle spalle e 300 persone che lavorano a quelle calzature. Per poi venderle solo a Milano per l’Italia, Cannes e Parigi in Francia, Londra, New York, Singapore.

OGGI – IMMAGINARIO ECONOMIA

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Berluti: l’inaugurazione dello stabilimento a Gaibanella di Ferrara e l’immagine di copertina della maison

berluti-scarpe-gruppo-lusso-louis-vuitton-lvm-ferrara-gaibanellahOgni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, le persone, le sue vicende…

[clic su una foto per ingrandirla]

 

ACCORDI
Uomini integri.
Il brano di oggi…

Ogni giorno un brano intonato alla cronaca di ieri e di oggi.

Il 4 agosto 1984 lo stato dell’Alto Volta diventa Burkina Faso, che significa terra degli uomini integri. Un cambiamento voluto dal presidente rivoluzionario Thomas Sankara, assassinato nel 1987 in un colpo di stato ordito dal suo vice Blaise Compaoré. Il quale, il 15 ottobre 1987, diviene presidente dittatoriale del Burkina Faso, un mandato che si interromperà grazie alla forza della popolazione burkinabè il 31 ottobre 2014.

[per ascoltarlo clicca sul titolo]

La rivoluzione non passerà in tv

lo-stato-sociale
Lo stato sociale

“Han detto la vita, la vita, la vita
è pagare i debiti che fanno i ricchi
e aspettare pure il resto,
pure il resto a calci in culo
e mi han detto che si chiamano profitti.
Hanno detto un giovane è come il Natale
o lo è tutti i giorni oppure non lo è mai.
Scegli se peccare e perderti con stile o rubare a chi ti venderai.
E se hai tutta questa voglia di scappare e neanche un posto come dici tu
Dammi un bacio che fuori è la rivoluzione che non passerà in tv” (Lo Stato Sociale)

 

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