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Mese: Novembre 2014

Marcello Simoni, i libri maledetti

Marcello Simoni, comacchiese, anche animatore culturale ben noto per la cultura in estate sui Lidi della riviera ferrarese. Praticamente inedito in Italia, aveva già pubblicato saggi storici e archeologici, sbarcò a suo tempo persino all’estero, in Spagna.
L’Impronta, infatti, casa editrice del gruppo Algada lanciò sul mercato spagnolo la sua opera prima: “L’enigma dei Quattro Angeli”, primo romanzo che viene da certo solco fantastorico attualmente in voga, tra “Il Nome della Rosa” di Eco e il “Codice Da Vinci” di Dan Brown, la stessa fantascienza di Evangelisti, particolarmente suggestivo e di forte audience per gli amanti della lettura. Benefico ritorno alla scrittura come mistero, reinventato in chiave moderna, su sfondi storici re-immaginati, quasi micro brainstorming alla ricerca di universi paralleli, secondo certe teorie quasi esoteriche della fisica contemporanea.
Poi, con l’opera prima in Italia, “Il mercante dei libri maledetti” (Newton Compton, 2012), medesima vincente cifra letteraria, ancor più raffinata ipnotica, è clamorosamente ‘esploso’ un bestseller all’americana quasi, vincitore del Premio Bancarella 2012.
Un successo francamente strameritato, per uno dei migliori nuovi scrittori contemporanei italiani, capace di mixare alta letteratura e appunto narrazioni di grande audience, fascino misterioso (oltre certa moda facile del ‘noir’), non a caso proveniente da aree prossime a Spina e agli etruschi, archetipi oggi parlanti tramite una penna – Simoni è anche storico/archeologo – non comune, non solo letteraria, ma potente e solida, in certo senso di diamante ‘scientifico’.
Ulteriormente, Simoni ha confermato la grande freschezza (e audience) dell’opera d’esordio in Italia, in particolare con i romanzi successivi (sempre per Newton Compton) fino al recentissimo, “L’abbazia dei cento peccati” (2014), ovvero “La biblioteca perduta dell’alchimista”, “Il labirinto ai confini del mondo” (con cui ha completato la trilogia inaugurata con l’opera prima italiana), “L’isola dei monaci “, Premio Lizza d’Oro 2013. L’ ultima opera, “L’abbazia dei cento peccati”, ambientata a Ferrara, Pomposa e Reims, è un nuovo vertice narrativo che ne fa oggi forse lo scrittore di punta ‘neostense’ e postmoderno: un delizioso fanta gothic all’italiana.

*da Roby Guerra, “Dizionario della letteratura ferrarese contemporanea”, Este Edition, La Carmelina eBook, 2012 [vedi]

Per saperne di più, visita il sito della New Compton [vedi], il sito del “Premio Bancarella” [vedi] e una recensione de “L’abbazia del cento peccati” [vedi].

L’INTERVISTA
Finis, romanzo di confine: nel cuore della pianura Padana l’eterna lotta per il potere

“Finis” è un termine latino, sta per confine. Franco Fregni lo ha scelto come titolo per il suo romanzo d’esordio. La storia è ambientata nel Duecento, secolo di confine fra il fulgore del mondo medievale, con l’affermazione del sistema dei Comuni sullo sfondo dello scontro fra Impero e Papato, e la susseguente crisi del modello feudale. I protagonisti della narrazione si muovono in una terra – di confine anch’essa – collocata nel cuore della pianura Padana, “il Finale” (Finale Emilia) dove l’autore è nato e dove “l’Alberone” (topos ricorrente del racconto) tracciava il punto – di incontro e di stacco insieme – dei possedimenti di Ferrara, Modena, Bologna.

“La storia è sempre stata una mia grande passione – confessa Fregni che proprio in Storia si è laureato – ma per scrivere questo libro ho dovuto studiare molto e consultare un sacco di documenti: è stato interessante e anche molto divertente”.
Giornalista, l’autore di Finis ha girovagato – prima da cronista poi come direttore – un po’ in tutta Italia, da Trento a Roma, da Palermo a Bolzano, da Modena alla Romagna.
“L’ispirazione mi è venuta dopo il terremoto del 2012 e, come spesso ci accade, fortuite circostanze hanno accompagnato questa intenzione: dopo avere impegnato i precedenti 12 anni alla direzione della Voce di Romagna ho avuto infatti proprio in quel periodo qualche mese di libertà”.

finisE’ quasi un bisogno che sospinge Fregni a transitare dalla misura della cronaca a quella del racconto come a voler immortalare una storia che il presente stava sgretolando. “Tutto nasce dallo sgomento per il crollo della famosa ‘torre dei modenesi’, proprio nell’imminenza del ottocentesimo anniversario della sua costruzione – riferisce – così mi sono idealmente proiettato in quel tempo per ambientarvi la vicenda che avevo in mente”.
I protagonisti del racconto sono di fantasia, ma l’ambientazione e i riferimenti storici sono veri e rigorosamente verificati. Si incontra Federico II di Svevia, per esempio, e san Francesco… “Ci sarebbero mille storie da narrare su quell’epoca: i primi cinquant’anni del Duecento sono una fase densa di avvenimenti straordinari”.

Come è proceduto il lavoro?
Studiavo e scrivevo. L’idea iniziale è stata plasmata e orientata in base alle acquisizioni che via via facevo. La prima parte della trama era nella mia testa il resto è venuto a seguito degli studi.
Tra battaglie, amori, dispute politiche e teologiche e cacce con i rapaci – l’altra grande passione dell’epoca che accomuna molti personaggi del romanzo – si arriva a un epilogo a sorpresa in cui si finisce per scoprire anche che Marco Polo aveva sangue emiliano nelle vene.

Già, lei avanza quest’ipotesi suggestiva e un po’ bizzarra. Sulla base di quali elementi?
Azzardo questa possibilità suggerita dal titolo della sua opera più celebre ‘Il Milione’ di cui non si è mai compresa la radice e ho immaginato che Emilion potesse essere l’appellativo attribuito a Marco Polo per indicarne l’origine: Emilion, Emiliano… L’ho fatto sulla base di alcuni riscontri storici ma ammetto che è una tesi ardita, benché plausibile.
Focalizzare quell’epoca nel romanzo è servito a ricordare anche a me stesso come le nostre città fossero al centro della zona più ricca e fiorente d’Europa, dunque del mondo: tutta la pianura padana da Milano a Venezia era il fulcro della civiltà di allora, l’altro polo era la Francia.

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La torre civica di Finale Emilia distrutta dal terremoto del 2012

Ha ricordato che l’ispirazione e l’urgenza di scrivere è affiorata dopo il terremoto: forse il bisogno di ricreare le radici recise dal terribile sisma?
Dopo il sisma abbiamo ascoltato affermazioni che in parte fotografavano la realtà di quei giorni e in parte esprimevano una concezione epica circa lo spirito indomito della nostra gente. C’è del vero e c’è della retorica in questo. La realtà odierna dimostra che il terremoto è stato un colpo durissimo per tante aziende e molte famiglie. Ma è anche vero che queste nostre zone sono sempre state intraprendenti, coese, una comunità fondata su valori profondi. Mi riferisco ovviamente non sono a Finale, dove la vicenda ha luogo, ma a tutto il comprensorio fra Ferrara, Modena, Bologna e Reggio. Terre all’epoca capaci di sfidare imperatori, re e papi…
Il mio intento è stato anche mostrare come l’attuale livello di benessere che attribuiamo allo stato sociale proprio della nostra regione non è merito solamente di un partito come talvolta si tende a dire, ma è il risultato di una storia antica e di un sentimento di indipendenza e di autonomia che fa parte dello spirito vivo della comunità.
La stessa rete associazionista tipica del nostro paesaggio sociale è frutto di una storia di relazioni civili che hanno da sempre caratterizzato la vita economica e sociale di questi nostri luoghi. C’è un orgoglio profondo e un radicato senso civico di appartenenza che traccia un robusto filo di continuità in queste popolazioni. Ma basta pensare a Ferrara: c’è più storia lì che nella metà delle città d’Europa.

Il terremoto è servito anche a ridestare questi sentimenti?
In momenti così ti rendi conto che l’appartenenza a un luogo non è una banalità, nemmeno per me che ho vissuto altrove per tanti anni. L’appartenenza ti rende quel che sei. Negli usi sperimentati c’è lo spirito profondo della comunità. La realtà di oggi ci mostra però come tanti nostri paesi siano diventati dormitori per immigrati. Questa massiccia presenza ha dei pro e dei contro: di certo sta determinando un mutamento dell’identità, specie nei paesi più piccoli dove il fenomeno si avverte maggiormente. Sono tutte situazioni sulle quali occorre riflettere avendo coscienza che ormai nelle nostre scuole in tante classi c’è una prevalenza di ragazzi extracomunitari e che i cittadini del futuro saranno loro.

Nel romanzo accanto alla grande storia entrano anche temi esistenziali come la vicenda dei due fratelli…
Esprimono l’ambivalenza dell’animo umano. Uno opera come predicatore, l’altro è un guerriero, ma poi mostrano punti di contatto e si innamorano della stessa donna. Sono carne della stessa carne. E’ un modo per dire che, al di là delle apparenze, uno non è mai tutto in una maniera o tutto in un’altra. La nostra natura è ambigua e complessa.

Che accoglienza ha avuto Finis?
Chi legge fa gran complimenti e questa senz’altro è per me una soddisfazione. Le recensioni di stampa sono buone e numerose, ma è una meraviglia relativa perché faccio parte della categoria… Il problema del romanzo è la distribuzione. D’altronde ho scelto di affidarmi a un editore serio ma piccolo, le Edizioni del Girasole. A differenza di quanto succede normalmente non ho dovuto pagare per essere pubblicato, ma ciò comporta un prezzo in termini di presenza del libro sugli scaffali. Perché la conoscenza di questo romanzo si diffonda ci vorrà tempo, ma le cose richiedono sempre tempo.

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Franco Fregni

Il romanzo è anche metafora una del potere, come segnala Paolo Pagliaro nella sua prefazione?
Da giornalista l’idea che mi sono fatto frequentando ambienti di potere è che sfidarlo non sia semplice. Per arrivarci devi indubbiamente possedere delle qualità, quelle che ti rendono autorevole per essere indicato come guida. Ma da lì in poi però occorre dimostrare una reale capacità di comando che non tutti possiedono. In questo senso Federico II rappresenta un eccellente esempio di come l’interpretazione che gli uomini danno del potere possa risultare contraddittoria e controversa: per alcuni è stato tiranno e despota, per altri magnanimo e illuminato.

Sfidare il potere non è semplice diceva, ma poi le teste cadono…
Essere stato vicino ai potenti per ragioni di lavoro mi ha fatto capire che ci sono tante componenti e meccanismi che decretano il successo e poi la caduta di chi sta al vertice.
In questa nostra epoca gli elettori mostrano propensione per personaggi come Berlusconi e Renzi credendoli capaci di tutto perché prestano fede alle loro funamboliche promesse. Non vedono e spesso non immaginano invece i condizionamenti che subiscono e le manovre delle quali loro stessi sono ostaggio. Personaggi così non arrivano per caso al potere ma sono lì perché considerati affidabili rappresentanti di gruppo di interesse che agiscono, si badi, non nella ristrettezza dei nostri confini ma in uno scenario europeo e mondiale.

Quindi c’è da dar credito a interpretazioni complottiste che qualcuno, spesso sbeffeggiato, propone?
Se Berlusconi cade per il bunga bunga (che pure è un fatto reale) le domande da porsi sono chi ha consentito che la notizia trapelasse, perché proprio in quel momento e chi lo ha scaricato. Insomma bisogna cercare di capire sempre quali interessi sono in gioco e chi li alimenta.
Le scelte passano sopra le nostre teste. I veri centri di potere sono sempre più remoti. L’Italia è oggi periferia dell’impero. Non abbiamo più sovranità sulla politica estera, sulle strategie militari e, quel che forse è peggio, sulle scelte economiche. D’altronde se uno Stato non batte moneta non ha più alcuna sovranità e capacità di incidere sui meccanismi della propria crescita e del proprio sviluppo. Crediamo forse di poter risollevare il problema del lavoro e della disoccupazione per decreto?

Quali siepi, quali piante? Prima regola, mano leggera e testa pensante

SIEPI E RECINZIONI VERDI (seconda parte)
Alzare un muro o una siepe per dividere una proprietà e separare uno spazio privato da quello pubblico, è un gesto talmente abituale che nel farlo non ci poniamo troppe domande. Per prima cosa ci preoccupiamo dei costi, di certo non pensiamo che l’atto stesso di recintare sia all’origine della storia del giardino, un fatto che trova riscontro nell’etimologia comune del termine che in tutte le lingue, antiche e moderne, parlate in Occidente e nel Medio oriente, significa sempre: luogo protetto, recinto, chiuso, quindi il giardino non è altro che il luogo delimitato per eccellenza. Nel passato, l’uomo è riuscito a sopravvivere nel deserto e nelle foreste isolando uno spazio in cui era presente l’acqua e dove era possibile coltivare piante commestibili, poi, nei secoli, il recinto ci ha protetto dai pericoli, ci ha separati dal caos, dall’inciviltà e dalle cose brutte. Da cosa dobbiamo difenderci oggi? Quando penso alla fatica e alle cure necessarie per tenere in ordine una siepe di arbusti sempreverdi, mi chiedo sempre perché ci impuntiamo su una pratica che alla fine dei conti non ci difende nemmeno dai ladri e che, nel migliore dei casi, impedisce al nostro vicino di vederci in mutande. Il desiderio di un avere uno spazio a tutti costi privato, mi sembra ancora più assurdo quando penso che, nel tanto sudato isolamento del nostro giardinetto, ci mettiamo davanti a un computer e non ci facciamo nessun tipo di scrupoli nel metterci a nudo di fronte al mondo, spellandoci vivi nell’arena dei social network.
La bellezza di una siepe ben curata è sicuramente un ottimo motivo per desiderarla. Muri verdi di tasso e di carpino, barriere profumate di alloro, lecci potati ad arte, hanno lasciato un bel corredino di immagini dure a morire nel nostro immaginario collettivo, peccato che la bacchetta magica che le ha rese possibili, siano tempo, mezzi e braccia. Guardiamoci attorno, le siepi che circondano i nostri giardini non sono nemmeno lontane parenti di quelle meraviglie che gli eserciti di giardinieri del passato, riuscivano a coltivare e mantenere. Ci siamo illusi di poter sostituire la nobiltà del tasso, con cipressi leylandi e simili, magari con un bel fogliame argentato e a rapida crescita, ma con quali risultati? Siamo sicuri che quelle cose che abbiamo in giardino, rosicchiate da potature incostanti, piene di ciuffi che scappano da tutte le parti, secche alla base, siano proprio quelle che avevamo sognato? Potrei fare un elenco di tutte le nefandezze che si possono osservare camminando in città, le prime che mi vengono in mente sono le siepi con le foglie larghe tranciate dai tagliasiepi a motore, ma quelle che mi mettono tristezza sono quelle potate fino al legno perché, dopo anni di crescita libera, sono diventate troppo invadenti, in particolare quelle segate in sezione con tanta malagrazia da mostrare il loro interno nudo circondato da una corona di vegetazione. Se abbiamo lo spazio per una recinzione larga mezzo metro, perché ci ostiniamo a piantare siepi che in pochi anni si allargheranno per metri? Continuo a farmi delle domande, ma quali potrebbero essere le risposte alternative al tormentone “perché si fa così”? Innanzitutto, provare a ragionare con senso critico: una siepe può stare in campagna o in città, quindi guardare per un attimo che cosa ci circonda e magari pensare che il nostro microcosmo diventerà parte del paesaggio, sarebbe già una buona partenza. La prima analisi la facciamo con gli occhi, è un esercizio facile: cosa vediamo? Vediamo case, palazzi nuovi o vecchi, condomini, cortili, altri giardini, altre recinzioni, oppure ci sono campi, frutteti, ecc. E poi cominciamo a chiederci che effetto farà la nostra siepe in quel contesto. Non è difficile, ma per la nostra mentalità, quando si parla di giardino, è quasi impossibile uscire dalla logica dei desideri personali e ragionare in termini di immagine collettiva del paesaggio. Ogni caso ha la sua storia e il suo sviluppo, ma osservare il contesto e avere la consapevolezza del fatto che una siepe è una cosa viva, di sicuro, ci guiderà verso scelte meno banali della solita barriera di sempreverdi, per lo meno ci indicherà che se stiamo in città non potrà avere una forma libera come una siepe di campagna ma dovrà essere potata e in ordine, per non occupare la strada o i marciapiedi; quindi, se non abbiamo il tempo per farlo o i mezzi economici per garantirne una potatura ottimale, frequente e regolare, cerchiamo alternative. Un muro o una recinzione artificiale possono diventare un sostegno per rampicanti, ci sono tipologie per tutti i gusti, la cosa importante è non fare di un muro una siepe, coprendolo completamente di vegetazione. Avere mano leggera quando si pianta è sempre una buona partenza, usare la testa e non smettere di ragionare, è la cosa migliore.

IMMAGINARIO
Scatti paradisiaci.
La foto di oggi…

Fa parte di una serie di immagini dedicate al tema del Paradiso questa del grande fotografo Mario Lasalandra. Un’immagine che sembra rievocare proprio il tema della giornata di Ognissanti che cade oggi, Lasalandra l’ha presentata a Ferrara per uno degli incontri che il FotoClub organizza il giovedì sera in Sala della musica, via Boccaleone 19. Una delle tante espressioni che realizzano l’idea di un maestro per il quale la fotografia è sempre arte della composizione. Con persone comuni che, per lui, diventano protagoniste di ritratti ambientati e pieni di suggestioni, oltre che dell’immancabile e sempre ricercato equilibrio di forme e tonalità. (Giorgia Mazzotti)

OGGI – IMMAGINARIO FOTOGRAFICO

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Paradiso (foto di MARIO LASALANDRA)
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Un’altro scatto dedicato all’idea del paradiso (foto di MARIO LASALANDRA)

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic sulla foto per ingrandirla]

GERMOGLI
Nuovi tassi, nuove perdite.
L’aforisma di oggi

Una quotidiana pillola di saggezza o una perla di ironia per iniziare bene la giornata…

joseph-conradLa disoccupazione risale al 12,6% e ci si perde.

“Il lavoro non mi piace, non piace a nessuno, ma a me piace quello che c’è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi“. (Joseph Conrad)