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Vite di carta. Ancora maschere (e mascherine)

Ci ho proprio azzeccato. Come lettrice, intendo. Sono arrivata a pagina 290 del romanzo di Sandro Veronesi Il colibrì ed è rispuntato fuori il personaggio carsico di Duccio Chilleri: vestito di un abito nero piuttosto malandato, col volto pieno di grinze e i denti gialli, con la schiena curva e l’aspetto complessivo di un vecchio.

Nel numero scorso dicevo di questo personaggio che mi ricorda Rosario Chiarchiaro, il protagonista de La patente, novella e atto unico di Pirandello. Entrambi portatori di iella. Questo Duccio rispunta fuori, dicevo, e ammette di essere  diventato uno iettatore di mestiere, proprio come Rosario. Di averlo fatto per poter sopravvivere al disdoro generale e poter guadagnare, portando iella a pagamento. Come Rosario.

Poi nelle pagine  finali del romanzo ho trovato l’elenco delle citazioni e dei rimandi ad altri testi; di solito si chiamano Ringraziamenti ma Veronesi, che li svela con piacere (il piacere di mostrarsi in qualità di lettore), li definisce Debiti.

E’ stato come consultare le soluzioni che sulla Settimana enigmistica sono stampate in fondo al giornaletto e bisogna rovesciare le ultime pagine per leggerle. Mi sono sentita confortata per averci visto giusto a mettere in coppia Duccio e Rosario. Sì, ma quanti altri rimandi non ho colto.

Capisco ogni volta di più che il ruolo del lettore dà molto da fare, soprattutto quando l’autore, come in questo caso, spazia tra i libri di un universo letterario di grande spessore. Viene fuori alla fine che ha consapevolmente intrecciato alle sue alcune figure e situazioni di altre galassie narrative. Come piacerebbe a Calvino, ha incrociato i destini di personaggi provenienti da libri diversi. Non a caso il suo protagonista, ‘il colibrì’ Marco Carrera, è un abile giocatore di carte!

Quello che mi preme qui richiamare è il peso della ‘maschera’ che portano addosso i due iettatori, una ‘maschera-destino’, che essi incamerano per sopravvivere.

Mercoledì scorso al mercato del mio paese ho visto moltissimi di noi indossarne una, una ‘mascherina’ devo dire; io stessa esibivo quella chirurgica che dal lato esterno è azzurra. Inoltre sui banchi di molti venditori erano in bella mostra altri modelli di mascherine anti Covid leggere e colorate.

Ho cominciato a percepire quanto rendessero diverso il paesaggio della piazza. Mascherine ovunque, in movimento sui volti delle persone, oppure ferme in esposizione, in attesa di essere acquistate. In un banco accanto al settore per adulti ho notato tutto un repertorio di mascherine per bambini, una buona prova di astuzia commerciale e fantasia. C’erano infiniti colori e disegni sui piccoli rettangoli di stoffa, ‘lavabile’ diceva una cartello; c’erano i personaggi dei cartoni animati che i bambini seguono sui cellulari, sui tablet o alla tv.

La mascherina come parte del nostro look. Mi viene in mente la foto che agli inizi dell’estate circolava sui social e mostrava ‘il trikini’: un coordinato per la spiaggia formato dal classico due  pezzi più un terzo pezzo, la mascherina. Dobbiamo riconoscere che, associata così all’idea di bellezza e di glamour, essa porta con sé un significato più leggero, allude a qualcosa che ci viene dato in termini di immagine e non a ciò che il Covid ci ha fin qui tolto: sicurezza, libertà e altri paroloni.

L’immagine che diamo di noi stessi, però, va incontro ai suoi rischi.
Diciamo che incontrando la gente del paese mercoledì ho visto tre diverse reazioni.

C’è chi ti riconosce al primo sguardo e ti apostrofa con sicurezza, come se la mascherina non costituisse un paravento, ma un biglietto da visita. Come fosse un fattore che aumenta la leggibilità della tua persona. Come farà? Saprà riconoscere i gesti o i vestiti, la corporatura, i capelli. Io credo che il portamento sia ciò che ci svela.

Il secondo modo di incontrarsi è invece indeciso. Ci si guarda e si accenna a proseguire, poi quando la distanza interpersonale (che veniva chiamata “sociale” durante il lokdown) diventa quella giusta, le battute da una parte e dall’altra sono più o meno queste: “Ah, scusa, sei tu. Mi pareva, ma poi non ero sicura”. “Anch’io ti guardavo, ma con queste mascherine non si conosce più nessuno”.

Il terzo è presto detto: vedi la persona che ti conosce evitare il tuo sguardo e, complice una leggera distanza da te, accelerare il passo. Non ti ha proprio vista. Oppure sa che per colpa della mascherina sei meno in evidenza nel suo raggio visivo e questo costituisce una scusante, è un piccolo alibi che le permette di tirare diritto.

Letteratura vieni avanti. Porta i tuoi personaggi di carta, i Chiàrchiaro e i Chilleri, con le maschere che sono state stampate sul loro volto. Ci è utile osservarli e chiederci se un analogo destino riguarda anche noi. Ma certo, mi sento di rispondere. Chiàrchiaro è uscito dalla penna del suo autore nel 1911, Chilleri dopo oltre un secolo nel 2019 e ci ha trovati ancora affezionati ai pregiudizi, alle opinioni comode, che è faticoso mettere in discussione.

Nel numero 12 del 26 settembre il quotidiano Domani  apre la prima pagina con l’articolo La legge del più forte: omofobia in presa diretta, firmato da Jonathan Bazzi, uno degli autori finalisti all’ultimo Premio Strega col romanzo Febbre.

Dopo aver riportato l’ennesimo episodio di omofobia ai danni del suo compagno, Bazzi afferma di avere provato anche sulla propria pelle che “la cultura omotransfobica è rigogliosa e trasversale, gode di ottima salute”,  per cui “i corpi dei non allineati sono esposti ai sinistri di un sistema che si ritrova ovunque”, anche nelle strade di Milano nel 2020, dove il suo compagno è stato pesantemente insultato da un gruppo di adulti. L’auspicio, con cui chiude l’articolo, è che in Italia si arrivi presto a una legge contro misoginia e omotransfobia che ponga le basi per “una ristrutturazione culturale ed emotiva del paese”.

Se ora torniamo alle mascherine al mercato del mio paese, senza dimenticare gli effetti drammatici di cui parla Bazzi, è per cercare di stare al gioco e chiederci dove ci conduce l’indossarle quando siamo nel mondo. Caso numero uno: dicevo che siamo subito riconosciuti e apostrofati. La mascherina sembra non influire nel “gioco delle parti”; rimaniamo quelli di prima (con la maschera legata all’idea che gli altri si sono fatti di noi, alla ‘forma’ che ci assegnano, naturalmente!) e l’esserci coperti il volto col nero oppure con altri colori resta un fatto di look.

Caso numero due: c’è indecisione nel reciproco riconoscimento. In questo caso la combinazione di maschere e mascherine si complica, perché sotto la mascherina che ognuno di noi vede nell’altro ci possono essere due individui diversi, con la forma che è stata loro assegnata da prima. Viene almeno raddoppiato l’ ‘effetto spiedo’ (io lo chiamo così) con cui infilzo l’individuo che a prima vista non riconosco, dotato di una forma che ancora non gli ho assegnato se non in un primo veloce abbozzo, e l’individuo che dopo un attimo metto a fuoco, la cui forma viene subito fuori e si aggiunge alla sua immagine di ora.

Ultimo caso: siamo riconosciuti ma bypassati. Il gioco delle parti trionfa: se ti va puoi contare tutte le possibili combinazioni. L’altro non ti ha riconosciuto e ha tirato diritto, segno che la tua forma ti ha nascosto (merito della mascherina?), azzerandoti per lui. E tu che idea ti fai di lui sulla base di questo comportamento? L’altro ti ha riconosciuto e tuttavia ha tirato diritto, segno che in questo momento non vuole saperne di te, oppure per problemi suoi non riesce a fermarsi per un saluto. Se non vuole saperne di te, domandati in che cosa la tua forma lo ha respinto. Se invece ha problemi suoi, devi riconsiderare la forma che tu gli hai assegnato, e arricchirla o confermarla alla luce del comportamento di oggi.

Possiamo fermarci qui. Il gioco si è fatto cerebrale, come Pirandello insegna. Tuttavia è un gioco e non può che stuzzicare i nostri pensieri, affascinarli con la possibilità così ampia delle combinazioni.
Un ultimo pensiero mi attraversa: se mercoledì prossimo indossassi ‘una mascherina non allineata’, per esempio con colori sgargianti e piume svolazzanti ai lati, quale terremoto si produrrebbe nello scacchiere delle mie relazioni con le altre persone presenti al mercato?
Rispondere cercando la/e soluzione/i nelle righe precedenti o aggiungerne di proprie.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

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